Paolo Saggese: Lettera a un giudice – Magenes Editoriale, Milano, 2015.
Caro Paolo,
questo tuo primo romanzo è la dossologia del dolore meridionale. Per non incappare nell’eccesso di acribia dirò che esso costituisce il metodo migliore, per far giungere ad una larga fascia di pubblico, la semenza dei tuoi precedenti (lavori) libri.
Come è accaduto per uomini veri, come il tuo protagonista, la persecuzione del Potere che mantiene le nostre genti in quello stato di remissività/appagante che tuo padre Guido DORSO elaborò nelle parole della sua Rivoluzione Meridionale nel 1925: “Contro la politica unitaria però continuò la critica delle élites liberali. Senonché, a mano a mano, che il nuovo Stato funzionava e metteva, perciò, a nudo le sue deficienze ideali, questa critica si allontanava dai cieli dell’astrazione teorica, ove in massima parte, l’aveva spinta la Destra liberale, per concentrarsi in atteggiamenti di maggiore aderenza alla realtà. Fu così che in mezzo a tanta miseria sorsero i primi germi della vita. Con quel processo caratteristico delle grandi questioni storiche, che sono casi di coscienza individuale, prim’ancora di divenire patrimonio di élites, l’elaborazione critica della questione meridionale si affermò per opera di due isolati: Giustino Fortunato ed Antonio De Viti-Di Marco.” (pag. 106).
Credo fermamente che il “giudice” che viene invocato nel tuo romanzo ha emesso da secoli la più severa delle condanne per questa “Repubblica dei Pomodori”: la vendetta perpetrata dalle Erinni (Le furie) per coloro che da secoli opprimono i loro simili, il loro popolo. Una vendetta che non è di mani umane che si riversa sui discendenti di costoro che si sono crogiolati nell’apologia del Potere.
Scrivo al personaggio del tuo storico romanzo, come scrivo a mio figlio che vive in Europa. Egli ha rinunciato a subire l’esito del concorso del quale racconti. Egli era consapevole di appartenere ai “Guerrieri di Luce”, come ha scritto Paulo Coelho; ha esercitato la semplice arte del cameriere, del musicista, dell’operaio in un supermercato, ed oggi ha un lavoro di insegnante di Lingua Italiana presso una scuola parificata di Gossau, in Svizzera.
Anche lui si è laureato in Materie Letterarie, presso l’Università degli Studi di Salerno Anno Accademico 1993/94, con Lode, seguendo professori eccellenti. Non rispecchia forse anche l’evoluzione del Maresciallo dell’Arma dei Carabinieri Michele Luongo, irpino come noi, che ha subito perdite nel compiere il proprio dovere, ed oggi dirige in Trentino una Rivista Nazionale ricevendo il plauso di molti ?
Noi stessi, caro Paolo, e i nostri figli siamo uomini liberi come il protagonista del tuo romanzo. Forse depredati dell’economia che potevamo raggiungere, costretti a seguire i nostri figli e i nostri studenti, vero capitale che l’esistenza ci ha concesso, nei viaggi verso l’Europa dove vivranno. In questi anni ho dormito pochissimo per stare loro accanto e vederli realizzarsi con la gratitudine di quanti oggi li conoscono.
Il patrimonio umano di cui racconti non andrà disperso.
I tuoi alunni, ai quali hai anche dedicato il romanzo, ti amano e ti ameranno come professore benemerito.
I tuoi libri, come questo primo romanzo, costituiscono la spina dorsale della nuova Letteratura Meridionale e saranno, a breve, parte integrante della Letteratura Italiana Nazionale.
Chi ti ama ti segue con le parole che tu stesso hai scritto: “ (…) che possano vivere davvero “nel migliore dei mondi possibili” e, credimi , la prima pietra di questo fantastico mondo possibile è la tua Lettera a un Giudice che racconta, in modo accessibile a tutti, il mondo della corruzione che circonda la “Repubblica dei Pomodori”.
Con sincera stima,
tuo Vincenzo D’Alessio & G.C. “F. Guarini”
Settembre, 2016
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