recensione di Marcello Tosi
È La storia di un’ossessione, questa più recente raccolta di versi di Alberto Mori (Scrittura Creativa Edizioni) con fotografie di Mina Tomella e note introduttive di Silvia Bordini e Silvia Merico.
Davanti alla mancante, il titolo… Quale mancanza?… Essenzialmente, quella legata al ricordo dell’opera e della figura di Francesca Woodman.
Brivido dell’assenza della celebre fotografa americana, che ancora
giovanissima si tolse la vita, viene declinata in ogni maniera
linguisticamente aderente dalla sequela dei versi del poeta e performer
cremasco e dai ritmi spazialmente scanditi e sospesi degli scatti della
Tomella.
Immagini e versi che fanno riferimento alle fotografie
di un personaggio inquieto e affascinante. Dialogo, riflessione,
interrogazione rivolta, e quindi senza risposta, ad una non-presenza
sempre presente. E alla fine di questo percorso, dopo essere stata
lungamente evocata, Francesca appare in una delle sue foto della serie
“Untitled”, realizzate a New York tra il 1976 e il 1980. Francesca…
casta diva. Espressione di una sensualità assoluta e metafisicamente
disarmante, negata come puro edonismo della visione, che scardina il
canone erotico della nudità ossessivamente in bianco e nero, per
affermare quello di una disperata affermazione del proprio io narrante.
“Non puoi vedermi da dove mi guardo”, diceva.
La sua inquieta
ricerca fotografia esprimeva, come avrebbe detto De Chirico, il
terribile vuoto scoperto che porta l’insensata e tranquilla bellezza
della materia. Abbandonata dall’immagine raccolta e ancora invisibile,
si autodefiniva la fotografa americana. Ora protagonista di questa
storia di una duplice ossessione: nelle immagini voragine, ossessive
della Wodman e ossessione di Mori
per la sua immagine, per il suo corpo oggetto dell’indagine
autoidentitaria e spietata del proprio io, che giunge a negare
quell’identità fino a cancellarla in un gesto estremo. Trasformare,
torcere, elaborare, è per la parola poetica produrre vibrazioni di
pensiero, polifonie, scrive nelle note al libro Silvia Bordini.
La
maggior parte delle sue immagini sono autoritratti, portatori
d’identità, in fuga dagli stereotipi. Atti da vedere, azioni
fotografiche cui Mori sembra rispondere con delle poesie che nascono
dallo sguardo, costruzioni che insistono su diversi livelli di relazione
con sé stesso e con la fotografia, eludendo cancellando l’immagine nel
momento stesso in cui si palesa. Ciò che resta nella ricerca di senso ma
che spesso non viene compreso, “spazio elastico della sfuocatura”, come
si legge nella nota al libro di Silvia Merico. “Il poeta – scrive –
inizia una sorta di danza rituale davanti alla 'mancante', con uno stile
che concentra lampi emotivi in parole che asciugano il senso dei
pensieri in poche significative sillabe…”. Sguardo curioso e duttile, su
ciò che è destinato a rimanere incompiuto o inespresso, come nelle
enigmatiche immagini che illustrano il volume: foto del modello in legno
dell’architettura dell’Accademia dello Scivolo di Bagnolo Cremasco, di
Mina Tomella.
“Ci sono tre fonti dalle quali cogliere le tracce
di una strada – ha scritto nella sua premessa alla raccolta Andrea
Rompianesi –. Il bianco, il nero, il grigio, che modulano non solo la
sperimentazione fotografica ma connettono cromaticamente l’intarsio che Alberto Mori incide
sulla pagina, quasi a tracciare possibili fronti. Lo stimolo inziale e
irresistibile” è Francesca Woodman “ossessione della disputa passionale e
cruda, essenziale e icastica, che coinvolge la sua stessa immagine…
Fotogrammi poetici che poi diventano scatti…” (v. aletta di prima).
“Chissà
dove sarai / lieta e svanita / ad autoritrarti / dissolta tra le
nuvole” – si chiede Mori. L’immagine di Francesca è vista come sfocata,
ovvero “senza focus”… con un’ “ombra scura”, quella del pube, “al centro del disordine”…
I
frammenti sparsi della sua voce inudibile diventano nei suoi versi
l’intonaco scrostato di un’anima, parete visione, mentre continua
l’espressione molteplice di una presenza assenza… “Fuggenza” che
stupisce, che scivola sul bordo dello specchio, una svolta che fa
apparire l’identità invano cercata all’ultimo minuto del fotogramma
inciso, come un’immagine rovesciata e sospesa sul vuoto. Accanto alla
foto postuma di uno spettro composto del ricordo “limbo nero profumato”,
“vuoto elastico dello sfoco / Sequenza della ferita”. Francesca è come
il simbolo, come l’immagine di un nuovo San Sebastiano, di un’assenza
che si trasfigura nell’aria luminosa e trafitta. Immagine che attorta,
muta, scivola nel nulla nel giorno smarrito. Scatto che si trova “Privo
del peso fotogrammato”, che fino alla “Fine della vita alchemica” trova
uno “Slancio nella metamorfosi del mare”, là dove si getta la vita, come
per rinascere.
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