recensione di Giusi Giammarresi, psichiatra e psicoterapeuta
Senza dimenticare i riferimenti autobiografici a volti e luoghi noti, capaci di restituire al lettore ironia, leggerezza e freschezza, con l’epopea di Ambra e Ruggero il professor Gaetano Magro non si sottrae a quel tumulto dei sentimenti che conosciamo già come linfa della sua poesia, poesia che peraltro brani di vertiginoso lirismo qui ci regalano. Sebbene qui i sentimenti siano maneggiati attraverso le pinze della razionalità dello scienziato, quanto più di queste pinze c’è bisogno, tanto più lo scienziato si sta misurando con una materia calda, propria e collettiva, intrapsichica prima che realistica, e che al contrario dei pezzi anatomici non può essere resa inerte dalla Formalina.
Perfino nello stile della prosa le pagine si animano della tensione tra opposti. Del dionisiaco e dell’apollineo, intanto, il primo intriso dell’intuizione dell’esistenza come andare nel nulla, e il secondo proteso alla forma razionale e perfetta. Dell’eterna dialettica tra logos ed eros, in una integrazione della sapienza del conoscere ordinato con quella “illogica” delle emozioni, dei sentimenti e della passione, e di una funzione psicologica di cui si avverte la nostalgia.
Del maschile e del femminile, ancora, che qui danno in coppia voce alla sincera, sofferta, sacra e autentica, e per questo più segreta e nascosta, ri-petizione di un andare e andare sulle medesime identiche ferite. Possiamo immaginare le nostre profonde ferite non più soltanto come lacerazioni da rimarginare, ma come cave di sale dalle quali trarre un’essenza preziosa e senza le quali l’anima non può vivere, scriveva Hillman.
Ambra, il volto femminile, proprio come l’ambra, dal contatto con la morte prova a dare forma alla propria esistenza, in una tentata armonia della propria crescita personale e della realizzazione del proprio destino, in cerca di un significato individuale per le proprie azioni e i propri desideri, anche se – e come non potrebbe qui esserne la conseguenza? - a scendere sul suo destino avanza l’ombra lunga della precarietà del sentimento di appartenenza.
Con il suo muoversi sempre sul limite, sulla soglia, ai confini della normalità Ruggero, il volto maschile, incessantemente dialoga. Non è un eroe, Ruggero, e proprio questa distanza dalla dimensione eroica gli consente di entrare in contatto con la natura insieme individuale e transpersonale, propria e altrui, dell’incompiutezza dilaniata e dilaniante. Da buon medico, del resto, ancorché anatomopatologo: di chi ha fatto della scelta della professione d’aiuto e dell’arte del curare l’altra faccia del proprio bisogno di essere curato, di essere accudito, di rispondere alla propria istanza insopprimibile di essere riconosciuto esistente quale domanda di riconoscimento.
Allora, basterà, per sé e per gli altri, dare un nome alla malattia per sconfiggere la malattia, come l’audacia inflazionata del Dottor Montaleri propone? Basterà trascurare la questione del senso, questione che il limite, e quel limite estremo che è la morte (U. Galimberti), sempre ripropone?
Forse tutte le vite possono ordirsi sul filo di questa questione. Altrimenti davvero al più non resta altro che consegnarsi all’epoca delle passioni tristi (Benasayag e Schmit): quando il presente non è più annichilito dal dolore ma il futuro non presenta ancora una speranza.
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