di Subhaga Gaetano Failla
Guardo dietro di me. Le orme sulla sabbia sono state tracciate dai miei piedi nudi. Dunque nessun Venerdì su queste sponde; e Robinson potrà rimandare ancora l’incontro con lo specchio.
Un grosso cane dal pelo scuro e lucido corre sulla spiaggia. Per un attimo, disorientato, ho scambiato le mie orme con quelle d’altre creature. Ma forse non sono un personaggio di Defoe, non sono il cane laggiù e nemmeno la ragazza che passa adesso – bionda, giovane, occhiali scuri, scarponcini beige che sfiorano l’acqua del mare.
Il fatto che io lasci tracce sulla sabbia è un indizio della mia esistenza. Tuttavia ciò non costituisce prova. E sarei pronto a confutare qualsiasi ipotesi, in sé così fragile, che voglia affermare la mia esistenza.
Che mare e che sole, a dicembre. E la birra, una Tennent’s, è forte quanto basta per condurmi in certi sentieri tra sensualità e sonno. Un buon crocevia, un mormorio suadente, un espandersi della risacca, i jeans arrotolati e le caviglie scoperte. E allora un desiderio d’ulteriori spazi mi spinge ad aprire lo zaino e a cercare parole lì dentro, in un libro che mi accompagna. Eccole, le parole, sono quelle di Gorgia:
“Che le cose pensate non esistano, è evidente.” E ancora: “Ciò che esiste non è pensato.”
Come è anche evidente, affermo a mia volta, che la frase pensata da Gorgia non possa esistere e neppure dunque questa sua espressione in forma scritta. È inoltre palese che la mia frase, appena pensata e scritta, non abbia alcuna possibilità d’esistenza.
Bello questo sole sul quaderno.
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