mercoledì 20 novembre 2013

Su Il fulmine nella terra. Irpinia 1980 di Mirko Di Martino

Edizioni Teatro dell’osso, 2013

recensione di Vincenzo D'Alessio


http://www.teatrodellosso.it/libro-il-fulmine-nella-terra/
Il libro che reca il titolo Il fulmine nella terra nasce dalle mani di un autore del Sud che ha realizzato il testo adattandolo al teatro in forma di monologo. Un monologo da recitarsi sul modello amletico dove chiedersi: cosa è successo all’Irpina e alla sua mite gente durante e dopo il sisma del 23 novembre 1980?
Non basta un teatro per contenere la tragedia e Di Martino riducendo il dramma in un monologo ha disseppellito la corale degli scomparsi, il disagio dei superstiti, la devozione alla memoria tradita. Una esegesi faticosissima per un evento naturale senza precedenti.
Nel leggere la prefazione alle settantatre pagine del testo si rimane storditi da quel rigo iniziale che dice: “Sono nato a Lioni. Ho studiato a Napoli e vissuto a Roma, poi sono tornato a casa perché qui sono le mie radici. No, non è vero, non sono tornato per questo.” 
All’epoca del sisma l’autore aveva cinque anni: il primo respiro l’aveva tratto dalla sua Irpinia. Si è allontanato per studiare: il viaggio arricchisce. Durante il viaggio e i ritorni si è accesa la fiamma che divora ogni coscienza sincera, ogni uomo appassionato per la sua terra: “ma la verità è che le mie radici non esistono più, cancellate dal terremoto dell’80 insieme alle case, le strade, i vicoli, le piazze” (dalla Prefazione).
Un palcoscenico dove arde il fuoco della parola, la voce del narratore, la trasmissione orale delle vicende singole e collettive di intere comunità granulari sparse nelle costole di una terra, l’Irpinia, che di morti ne ha visto stritolati da secoli. Il terremoto da noi è di casa. Una casa di pietre e di legno pronta a crollare addosso ai suoi abitanti all’improvviso. Una terra spesso dimenticata che viene alla ribalta nazionale soltanto per le catastrofi. Eppure la gente migliore in campi diversi viene proprio dal Sud. Si porta dentro la genetica del dolore, del poco conforto, del fai da te se ci riesci. Una popolazione che vive del poco, anche economico e sa bene tenere i fili della sopravvivenza.
Il dramma è in scena attraverso l’attore che recita, perde un po’ del dolore che contiene, invita a guardare la vita degli anonimi scomparsi che riprendono il nome avuto al battesimo e riportato sulla tomba. Sono di nuovo tra noi a guardarci da sotto le macerie, dentro le auto schiacciate dai crolli, dalle belle pareti affrescate delle chiese: “Chi s’è salvato si è appeso alla mano di Dio”, recita una delle anafore utilizzate nel monologo.
“Che quello che misuriamo ci appartiene. Pure il terremoto”, recita un’altra anafora che compare nel testo a identificare la sorda differenza tra causa ed effetto sulla realtà degli accadimenti.
Serve a qualcosa, oggi a trentatré anni di distanza, ricordare gli eventi della domenica di novembre, a chi li ha vissuti, a chi li custodisce interiormente, a chi nascendo in questo nuovo secolo non avverte la necessità di conoscerli? L’ironia del gioco del calcio che prende corpo dalle prime pagine è materia che darà vita sempre ad interessi e dibattiti. La politica internazionale cucirà sempre le sue idee a Palazzo Madama o in altri luoghi. La musica darà ancora i suoi contributi come pure la televisione e oggi i computer.
Ma il luogo nascosto dell’anima che un bimbo di cinque anni ha portato chiuso nel petto e che ha liberato in questo bellissimo lavoro, molto vicino ad un altro uscito tempo addietro dal titolo Irpinia terra del Sud (Edizioni Tracce 2003) dello scrittore Michele Luongo, di cosa si nutre?: “Ci interessa, oggi, stare a sentire i nostri vecchi che raccontano delle 'centredde' di ferro che mettevano sotto alle scarpe per non consumare le suole di cuoio? Sono racconti che non creano più memoria, sono storie che non uniscono più narratori e ascoltatori. Le 'vecchie' e i 'vecchi' di cui parlo sono i cinquantenni di oggi, quelli che avevano vent’anni nel 1980 e che hanno scoperto troppo tardi che il terremoto li aveva fatti diventare superstiti, dei ruderi, fuori posto allo stesso modo di quelle poche case rimaste in piedi, oggi, in mezzo ai nuovi palazzi” (dalla Prefazione).
Il teatro è riuscito a rinsaldare le voci interne riconducendoci per mano fuori dall’inferno che abbiamo attraversato: “E quindi uscimmo a riveder le stelle”. E nel petto di questo monologo è rimasto l’interrogativo: “Ma noi, chi lo sa se abbiamo vinto o perso?” (pag. 58).

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