mercoledì 7 marzo 2012

Secretum professionale, 1

intervento di Massimo Sannelli alla kermesse


Testi crossover
persone che scavalcano gli eventi


dalle ore 9.00 alle ore 18.30
presso il teatrino Sala S. Francesco
dei Frati Minori Conventuali
Piazza S. Francesco, 14
Faenza ~ 3 marzo 2012
letture, testimonianze, dibattito

In Italia il problema della lingua è sempre stato pragmatico. O dal punto di vista normativo (quale lingua parlare/scrivere? Come parlare? «Risciacquare in Arno», ecc.) o dal punto di vista stilistico-contenutistico (comico-realistici, ermetismo, «Linea Lombarda», ecc.).  

E poi l’intenzione generale. Cesare Gàrboli attribuiva alla lirica italiana – tutta la lirica italiana – un sentimento depressivo, soprattutto negli ultimi tempi. La depressione crea contemplazione, ed è sterile. Ma vi è implicato anche il dato di fatto: il predominio maschile sulla tradizione del parlar materno, cioè dello scrivere materno. Le madri non hanno mai scritto, in questa tradizione. I padri erano depressi, spiriti contemplativi, ma aggressivi [Dante, sempre. E poi Dante si indonnò, a suo modo, aggressivamente: quando ruppe il guscio degli usi amicali e di Fiorenza. E allora l’idea dilagò nella forma «mai pensata in alcun tempo». La novità faceva luce nella forma).

Chi legge una certa rosa mystica (Cixous, Muraro, Rich, Irigaray, Djebar) vede che la mascolinità della lingua-strumento convive con la sua incarnazione individuale. Vede grandi lingue in grandi esperienze. Chi scrive conoscendo la diversità (è donna) e l’esilio (è maghrebina e francese), o l’esilio e il plurilinguismo, sa che lingua, corpo, voce sono coessenziali e che l’insieme è una forma di resistenza simbolica e politica: per questo motivo la scrittura riguarda «questo fuoco» ed è una «strada da aprire».

L’utero oggettivo non conta. Attenzione. La femmina è anche la Scrittura. La disperata ha voci che assediano. Non importa che sia davvero una donna a scrivere: può essere Djebar come Derrida, Cixous come Novarina, Zallio come Bene; e non sopporta limiti di genere, proprio perché rifiuta la depressione della lingua. L’assedio è bellicoso e non malato. Così la lingua gloriosa può flectere quod est rigidum, come il Sanctus Spiritus che si invoca, al quale si dice: Veni! Anche il vero amante lo dice, nel Cantico più cantico che ci sia: Veni, sponsa, de Libano! [ho promesso di dire le stesse parole nell’ultimo giorno, nell’ultima ora, quando sarà: allora chiamerò una sposa definitiva, non una disgrazia]. Il Nuovo Testamento finisce con lo stesso ordine: Vieni, Signore Gesù. L’imperativo dell’amore – tutto l’amore, tra cielo e terra – è vieni.

La sponsa inizia Fra corpo e voce e chiude con «scrivere da diseredata». Il rapporto tra inizio e fine è intuitivo, ma è la salute: soprattutto per il lettore maschio e italofono, un precario che non si può paragonare all’esule e all’esule-donna. Delirando, ex-maschio o più-maschio, o più-che-maschio, Joë Bousquet studia in quaderni il but de l’oeuvre littéraire: «Mais dis cela avec ta voix de femme, rends-le mortel, article de Paris» (Mystique, Gallimard, Paris 1973, p. 36).

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