mercoledì 6 ottobre 2010

Colibrì

di Franca Oberti


Ancora pochi chilometri, poi saremo arrivati.
Sul sedile posteriore i ragazzi si sono addormentati. Non volevano partire; seccati, brontolavano che sarebbe stata una domenica sprecata.
Nei loro ricordi non ci sono spazi per questi luoghi. Ed eccoci vicini alla meta, mentre attraversiamo la cittadina che precede il paese della mia famiglia.
Imbocchiamo la via che passa nel cuore del suo centro storico e così rivedo le vetrine del negozio di una zia. Mi piaceva giocare coi bottoni e servire le clienti, tra la disperazione della zia e la sopportazione delle sarte che acquistavano spolette e cerniere per finire con urgenza gli abiti commissionati da signore esigenti.
Nella vetrina, completamente rinnovata, non si vedono più manichini e abiti colorati, ma intravedo soltanto televisori e apparecchi digitali.
Usciti dalla cittadina, all’ultima curva, prima di una galleria, campeggia una lapide in pietra che riporta tante fotografie di giovani che da quella rupe erano precipitati nel fiume. Mia mamma mi raccontava spesso la storia di quei ragazzi; erano tornati dalla guerra o dalle risaie, stavano andando a ballare, per divertirsi e dimenticare la vita grama che avevano dovuto subire. E lei ogni volta piangeva e mormorava con un filo di voce: “Poveretti, non se lo meritavano proprio... eravamo tutti amici, tutti della stessa età...”
Poi, più in basso, scorgo il fiume. Non quel fiume della bassa, col letto largo, quasi silenzioso, questo è il fiume che conosco e che amo, che rispecchia il mio animo e la mia essenza più profonda. Cerco con lo sguardo quel groviglio di cascate, di mulinelli, di impetuosità tipico delle valli strette e dei ruscelli di montagna.
Quando, in estate, trascorrevo qualche giorno dalla zia, scendevo al fiume ogni pomeriggio, insieme a mia cugina, più grande di me. La zia ci chiedeva di raccogliere il timo al ritorno, per fare la tisana. E a me piaceva sfiorarlo, quel timo, per farlo arrabbiare e fargli sprigionare il suo intenso profumo. Lo stropicciavo e poi mi annusavo le mani e quell’odore non spariva nemmeno facendo il bagno. Aveva dei piccolissimi fiorellini, difficili da interpretare. Talvolta si trovavano cespugli col fiore rosa e il timo aveva le foglie ancora più piccole. La terra, intorno, era secca dell’arsura estiva e il timo sembrava soffrire la sete, ma non moriva mai e resisteva anche ai rigidi inverni della collina.
Manca un chilometro soltanto e rivedo il “bosco delle fate”, il luogo degli innamorati e degli innamoramenti. Tra la bruma del primo mattino aleggiano illusioni e sogni infranti. Lievissime volute di nebbiolina sembrano intrise di grida e risate; ho la sensazione di scorgere ombre che si rincorrono tra piante e cespugli: sono fantasmi di umido grigiore che si elevano e svaniscono appena entrano in contatto col sole, oppure è il velo di poche lacrime che mi confonde la vista.
Il frastuono del fiume ci assale appena si spegne il motore della macchina.
Qui, nel silenzio assoluto, nell’incanto di una giornata limpida e profumata dei fiori primaverili, qui ritrovo la mia pace e i miei ricordi.
Il fiume mi parla; sento il suo richiamo, quasi un bisogno, ma lo respingo ancora soggiogata dalla paura, da quei racconti sui morti annegati, sui vortici e i mulinelli assassini, da quelle voci tonanti che sentivamo da bambini nelle cucine fumose. I vecchi si riunivano e raccontavano le loro storie, forse le inventavano, ma noi bambini credevamo a tutto e nelle nostre menti si accalcavano racconti di paura difficili da smaltire.
Ma è ancora lì, è sempre lì, paziente, il fiume, mi chiede di tornare e di perdonare.
Apro le finestre e mi muovo in casa come un automa. Sto prendendo tempo per i ricordi, me ne rendo conto. I figli e il marito sono in giardino: la bella giornata li invoglia a stare all’aperto, così ne approfitto e vago per le stanze in cerca di visioni.
Ad ogni passo il viaggio nella memoria prosegue e risveglia ogni ricordo ad ogni porta che apro, mentre mi addentro sempre più nella casa e nel remoto passato.
Sento ancora la voce della mamma: “Attenti a non lasciar sbattere le porte! C’è vento, si rompono i vetri!” e poi, talvolta, un rumore dei vetri infranti...
E il letto di piume, soppiantato ora da un moderno letto con i materassi a molle, quell’instabile lettone dove con mio fratello facevamo a gara a chi saltava più in alto.
Erano lunghe tavolate piene di gente, quelle che rivedo nella mente, tutti visi sorridenti e allegri e file di bottiglie vuote sul pavimento; canti, risate, guance e nasi rossi di vino, tutte immagini che ora ritrovo solo socchiudendo gli occhi e aggirandomi nelle stanze silenziose.
Qualcuno ha già provveduto ad accendere la stufa, forse io stessa, inconsciamente, mentre vagavo nei ricordi.
Ascolto il crepitio della legna e ritrovo lo stesso calore di quelle serate d’autunno: viso incandescente e schiena gelata e poi a infilarci nel letto sempre un po’ umidiccio, se non ricordavamo di mettere la boule dell’acqua calda; e le coperte le tiravamo fin sotto il naso, il peso esagerato e si stava immobili per non toccare le parti fredde del letto.
Lascio la casa e mi avvio verso il campo che è rimasto a noi, dopo la frammentazione di quei pochi campi coltivati dai nonni: lo spettacolo è desolante. Un tempo era la vigna di cui andava fiero il nonno, ma non si scorge più nulla del suo orgoglioso passato. Rovi, sterpaglia e piante che richiederebbero una potatura, hanno invaso tutto e non oso neppure addentrarmi per timore di trovare qualche vipera; l’ultima zia, quella che tagliava l’erba per i suo conigli, lasciando qualche spazio per passare, è morta due mesi fa e così l’erba cresce e cresce e non serve a nutrire più nessuno.
Mi sono rassegnata a trascorrere la giornata all’insegna dell’ozio, così ho sistemato il vecchio dondolo sotto le querce e ho continuato il mio viaggio interiore.
Avrei mille incombenze da sbrigare, ma il sole primaverile mi rende pigra e il vuoto che sento intorno a me mi riempie di nostalgia.
Mi manca l’infanzia e mi manca la mia gente.
So di essere il presente e provo ad accettare un altro piccolo futuro.
Tutti mi parlano e mi fanno sentire viva; mi cercano e chiedono aiuto per piccole incombenze che intendono sbrigare.
Mi rendo conto di essere l’ultimo anello di questa catena.
Lentamente arriva la consapevolezza che il passato di questi luoghi e di chi li ha vissuti è ormai solo nella mia memoria.
E’ dolce melanconia, in questi giorni di mezza vita, vissuti intensamente tra emozioni, passioni, amori e incomprensioni, tra gioie e dolori.
Dura corteccia che nasce con noi e che con gli anni ci abbandona, sgretolandosi piano piano a contatto con la vita e lasciandoci completamente vulnerabili verso il suo tramonto.
Il sole sta per raggiungere l’ultima vetta del monte dietro il quale, in questa parte dell’anno, si nasconde, lasciando spazio alle ombre della sera.
Tra poco lasceremo questo ritaglio di mondo e torneremo alla nostra casa di oggi. Dovrò, ancora una volta, chiudere la porta dei ricordi e allontanarmi dall’antica magia di questo spazio incantato, che porterò nel mio cuore sempre, insieme alle voci, alle risate e ai visi sorridenti di tutti i miei cari.

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