recension di Anna Maria Tamburini
Dopo l’introduzione di Flora Restivo è veramente arduo stilare note di lettura di qualunque genere su questo ultimo libro di Marco Scalabrino, La casa viola, perché ogni aspetto è stato esaminato, per cui tanto vale iniziare liberamente dalla prima impressione di lettura, perché la poesia libera sempre qualche messaggio, e non di meno questa di Scalabrino, ma in primo luogo perché dovrebbe andare diretta al cuore, o ai sensi, del lettore.
E dunque elenco solo alcuni degli aspetti sui quali può valere la pena soffermarsi in tal senso: la musica, il linguaggio, le immagini, la tensione etica e l’ironia.
Se i versi si leggono non solo con gli occhi ma con il mezzo loro proprio della voce – da cui scaturiscono per un orizzonte di significato, frammisti al silenzio di fondo che rappresenta la fonte della parola (e lo sfondo), prima ancora che della poesia –, se i versi si leggono appunto con la voce, il dialetto siciliano, per quanto non familiare a chi scrive, suscita una musica tutta particolare, fatta di accentazioni e sottolineature e suoni in sé che traducono la vita stessa della quale stabiliscono subito in forma sonora le coordinate elementari: la casa.
La casa è viva, respira, ha narici viola, inquilini a prova di colla d’amido e lampi e tuoni in terrazza (p. 29). Dice tutto, questa parola poetica, in soli nove versi organizzati su tre strofe, dove un verso spesso è di una sola parola. Per quanto rispettosa della poesia, la traduzione – e necessaria – in lingua italiana come in ogni altra lingua non si potrà mai trasporre la forza evocativa di suoni e significati primi da parole come stulani, collamitina, pi viviruni.
Davvero molta bella questa lingua che Flora Restivo definisce koiné regionale sulla base di una scelta culturale di assoluta consapevolezza, il che non esclude, forse, anche una necessità: appunto l’esigenza del senso più vero, più addentro al cuore delle cose senza imprigionarsi in un idioma unico e solo puntualmente localizzato, ma fedele alla terra, la propria terra.
Ed è proprio questa musica che può attenuare l’urto del primo impatto, quello con un linguaggio asciutto a tal punto da sfiorare momenti di asperità che la prima impressione di lettura immediatamente suscita, persistendo anche dopo, a una seconda e a una terza lettura.
L’altro elemento di compensazione a quel minus dicere sta nella novità e ricchezza delle metafore – na casa / cu li naschi viola – e nella forza dei pronunciamenti – a conza / di collamitina –.
Scarne, le parole, ridotte spesso a inventario, o a mera elencazione che si chiude con l’ironia di una battuta popolare – un fiascu (p. 32) –. Scarne, anche per esprimere l’impatto estremo e il vuoto lasciato dalla morte del padre (p. 67): la data, fissata nel titolo; la morte, non tanto horror vacui, ma horridus nell’accezione qoeletiana di rifiuto, per cui il viola dell’incipit apre in forma canonica all’ura / schifiata. Dire “l’ora / infame” – per quanto necessariamente fedele, la traduzione –, non sarà mai come dire quella repulsione al tempo stesso repressa e incontenibile, a meno che non si recuperi la memoria manzoniana come verosimilmente è negli intenti della traduttrice; ma ura schifiata è incommensurabilmente più concreto, più immediatamente espressivo. Parola necessaria: gli a capo aprono altre prospettive rimanendo strettamente aderenti a quanto precede come a quanto segue: Ntuppa l’ura / schifiata // pi li cristiani // e… ’n casa mia // pi / li / muschi… / tti! // Ci dici a lu varveri / chi nun veni chiù. E l’estrema nudità, nella semplicità estrema del dettato, suscita risonanze così forti da evocare assai più in assenza che in presenza: Ci dici a lu varveri / chi nun veni chiù. Ogni aggiunta sarebbe comunque di troppo.
La tensione etica della scrittura registra la forbice tra l’iniqua ricchezza dei pochi e la condanna alla povertà delle moltitudini private di ogni diritto (p. 51): sono necessarie due pagine per tradurre un testo concentrato su una sola pagina, con alcune accensioni rese sin troppo finemente nella versione italiana ma impossibili da tradurre in qualunque altra lingua che non sia questo dialetto – «C’è vucchi allattariati di murvusi / chi masticanu vavi di sentenzi / cu ciati amari chiù di trizzi d’agghia» - perché nessun altro idioma può riprodurre insieme significato e suono allo stesso modo.
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