martedì 8 giugno 2010

Vincitori e segnalati del concorso Pubblica con noi 2010

Vincitori sez. Racconto (v. anche la sez. Poesia e l'attestato dei vincitori)

Fara Editore e i giurati del concorso Pubblica con noi 2010
Daniele Bottura, Elena Varriale, Maristella Olivieri, Patrizia Rigoni
e Stefano Martello per la sezione racconto;
Agostino Cornali, Daniela Terrile, Matteo Fantuzzi, Nicola Lorenzetto,
Paolo Gambi e Sebastiano Adernò per la sezione poesia;
sono lieti di premiare i seguenti autori con la pubblicazione nel volume Pubblica 2010


I classificato
Ruggine e altri racconti 

 di Carla Cirillo (Benevento)

Carla Cirillo è nata a Benevento, dove risiede. Nel 2006 ha pubblicato un libro di racconti Le Mitomani Favolose con l’editore Guida di Napoli (finalista al Concorso di Narrativa e Poesia Carver 2006, secondo nella sezione Opera Prima al Premio Nazionale di Narrativa Circe 2006, premio speciale per i racconti al femminile al Concorso Internazionale di Poesia e Narrativa Città di Salò 2007). Il racconto “Arianna”, tratto dalla raccolta, si è classificato 4° al concorso Il Labirinto 2008. Nel marzo 2008 ha pubblicato un libro di poesia dal titolo Foco all’arma con l’editore Campanotto di Udine (Premio Prata Poesia 2008 – I Sette Premi della Parola e terzo premio al Concorso Nazionale Carlo Cassola 2008 nella sezione Opere Edite di Poesia). Nell’aprile 2009 ha pubblicato sempre con Campanotto il libro di poesia Le nuvole non sono bianche (primo premio ex aequo per gli editi al Concorso Nazionale Federico Garcia Lorca 2009). Nel novembre 2009 la sua poesia in video la distanza (con la regia di Valerio Vestoso) ha ricevuto la Menzione Speciale al Premio Mondiale di Poesia Nosside 2009. Blog www.carlacirillo.it



Incipit di Ruggine

Michele entrò in casa. Sentì l’odore della sua casa entrando, un odore che non si percepiva di frequente. Era come di panni bagnati e asciugati al sole, un po’ acre, di qualche vapore caldo.
Le buste della spesa in mano, piuttosto pesanti, le poggiò sul tavolo di marmo e legno della cucina. Gli piaceva fare la spesa ogni mattina.
Ricordava spesso quando da bambino andava con sua madre in un grande mercato di frutta, pesce e carne: ondate di odori mescolati insieme, gente che camminava tra i diversi banchi della frutta ordinata nelle cassette di legno, la voce di qualche venditore che vantava la propria merce: “i miei mandarini, i miei mandarini sono i migliori di tutti!” e “venite, venite qui la roba è fresca”. Ci pensava perché nel supermercato sotto casa c’era sempre un grande silenzio anche se c’erano centinaia di persone a fare la spesa. Solo un diffuso brusio dove era difficile distinguere qualche parola.
Da bambino con sua madre andava anche in una grande salumeria che pure gli piaceva molto con certi scaffali sempre disordinati e incredibilmente pieni di prodotti diversi in cui c’era un odore che non aveva mai più sentito altrove e che faceva subito venire fame di tutto, di qualunque cosa commestibile. La salumiera lo trovava simpatico, lo chiamava: Michele, vieni…lui andava dietro l’alto bancone di legno e lei gli allungava un piccolissimo panino caldo, quasi ogni volta che ci andava. Quando non c’era il pane gli dava tre caramelle avvolte in carta di colore diverso. Si era commosso quando aveva saputo che quella donna era morta. La grande salumeria vicina al mercato di pesce, carne e frutta. Chissà se ancora esisteva o se avevano demolito anche quella insieme a altri edifici della zona. Non c’era quasi più niente del vecchio quartiere in cui era nato. Ci era passato qualche volta e tutte le case demolite lo avevano intristito, come il pensiero di sua madre che aveva camminato in strade che non avevano conservato neanche il vecchio nome. Si accorse che pensava sempre a sua madre come l’aveva vista da bambino. Pensarla da adulta era quasi pensare a una persona diversa.
Prese le cose che aveva comprato e le tolse ordinatamente dalla busta di plastica: il latte, un po’ di formaggi, una scatola di detersivo per la lavatrice, sale grosso, pane, fette biscottate, una bottiglia di acqua minerale. Era turbato. In fila al supermercato aveva incontrato una donna, piuttosto giovane, che, era sicuro, doveva avere difficoltà economiche: in fila alla cassa aveva rifatto e rifatto i conti delle cose che aveva nel carrello e, al momento di pagare, prima di lui, era stata in tensione con gli occhi fissi sul display della cassa. Aveva visto il suo borsellino consumato e quasi vuoto. La povertà lo turbava sempre molto. Non la capiva proprio. La povertà è una ferita nel mondo, pensava. Una ferita di cui proprio non si trova la cura. Si era sentito un po’ in colpa pur riconoscendo che non doveva sentirsi così. Se fosse dipeso da lui, la povertà non sarebbe esistita, non ci sarebbero state ricchezze per tutti, ma certo non sarebbe esistita la povertà. Chi aveva troppo avrebbe avuto meno e chi proprio non aveva niente si sarebbe visto arrivare qualcosa. Una soluzione semplice. Ingenua. Come lui. (…)


Commenti dei giurati 
«Belle le citazioni e i protagonisti, Emma, Michele, Manuele. In questi racconti viene messa in risalto una normalità speciale.» (Daniele Bottura)
«Il lavoro è fresco, non banale, a tratti raffinato. Non cavalca mai l’onda del genere spudorato per forza per attirare l’attenzione, al contrario si avvale di uno stile sottinteso e malinconico; una bella prosa pulita ma densa che meriterebbe estensione in un romanzo, pure se convincente anche nel racconto breve.» (Maristella Olivieri)
«Gli amori appassionati sono quelli che non hai ancora vissuto, così come i viaggi più belli sono quelli che non hai ancora fatto ed i libri della tua vita quelli che non hai ancora scovato. Un desiderio serve sempre. Per farti allungare il passo; per renderti sempre più reattivo. Lo puoi trasformare in realtà – tempo, coraggio e voglia non ti mancano – ma devi mettere in conto che la realtà è liquida, grigia e spesso maleodorante. È il più bel compromesso che esista al mondo.» (Stefano Martello)


II classificato

Paolo contro   
di Niva Ragazzi, Lomazzo, CO

Nata a Poggio Rusco in provincia di Mantova il 20 dicembre 1952, Niva Ragazzi vive a lungo a Milano, città in cui la famiglia si trasferisce negli anni '50. Dopo gli studi superiori, entra nel mondo del lavoro, pur continuando a scrivere in modo amatoriale. Scrive racconti e poesie per riviste di fantasy e fantascienza. Ha pubblicato con la casa editrice EDIGIO’ un libro per bambini dal titolo: Il conto di Sergio. Ha vinto il premio speciale ORTICADONNA – Premio Città di Forlì, V edizione, con il racconto “Francesca di Sera”; ha vinto il secondo premio alla V edizione del premio Le Donne Raccontano – EUROPADONNA, con il racconto “L’indomita”; il secondo premio al Concorso LUNE di PRIMAVERA 2010 sez. Testimonianze, con il racconto “La Dirce la g'a sedsàn" (Dirce ha sedici anni).



Presentazione di Paolo


La prima volta Paolo incendiò volutamente il cestino della carta sotto la sua scrivania, aveva allora 8 anni: sua madre disse che si era trattato di un esperimento di scuola mal riuscito, suo padre disse che era proprio un cretino.
E nessuno pensò davvero di chiedere a lui perché avesse fatto una cosa simile.
I suoi fratelli lo guardarono come un esemplare mal riuscito.

* * *

Non manca niente a Paolo: ha bei vestiti, cibo buono, tanti giochi, frequenta scuole prestigiose dove gli insegnanti sono comprensivi e tolleranti.
Frequenta corsi di basket, corsi di nuoto, corsi di inglese, corsi di chitarra.
Ha pochi amici, i suoi compagni non gli interessano.
Guarda per molte ore i cartoni alla televisione.
Ha un vecchio coniglio di pezza giallo sbiadito di quando era piccolo, lo ha nascosto in fondo all’armadio, sotto custodie di cd musicali pirata.
Quando non riesce a dormire, la notte, si alza e lo va a riprendere, se lo mette vicino alla bocca e poi si addormenta.
Sogna spesso di tornare piccolo, ma piccolo veramente, quasi un lattante, perché i lattanti devono essere presi in braccio, e cambiati, e lavati, bisogna imboccarli, insomma, bisogna toccarli.
Molte baby sitter si sono avvicendate nella sua cura, perché la mamma era caduta in una terribile depressione post-partum e non aveva la forza nemmeno di parlare, figurarsi prenderlo in braccio ed occuparsi di lui, neanche a pensarci.
Paolo fa lunghe docce perché ha sempre paura di emettere cattivo odore.
Quando parla, cerca di non aprire troppo la bocca, gli sembra di avere sempre l’alito cattivo.
Quando si sente troppo male in fondo alla pancia, si chiude nella sua cameretta, prende il suo coniglio di pezza, si sdraia sul suo letto e lo abbraccia forte.
Sua madre lo tollera con sopportazione: non ama i bambini, non riesce a capirli, preferisce di gran lunga gli adulti ed ha una passione smodata per il bridge e tutta la sua cerchia di amici eletti.
Suo padre è un imprenditore di grande successo, ha amici importanti e parla quasi esclusivamente di affari.
Non ha tempo per i bambini, non ha tempo per la moglie, non ha tempo per i figli: tutti devono arrangiarsi ed impegnarsi nella vita, solo così si possono ottenere risultati.
I risultati sono l’unico metro di misura di suo padre: gli inetti non gli interessano.
Suo fratello Marino, che ha 13 anni più di lui, gli parla solo per dargli ordini:
“Metti a posto”
“Vammi a prendere…”
“Fammi questo…”
“Vai fuori dalle balle…”
“Togliti di mezzo”
Sua sorella Elisa, che ha 10 anni più di lui, non lo vede nemmeno.
Ogni tanto borbotta:
“E’ ancora qui, questo imbecille?”
“E’ davvero una seccatura…”
“Ma cosa vi è venuto in mente, davvero non capisco…”
E questo lo chiede sempre ai suoi genitori, quando per caso si trovano tutti e due nella stessa stanza.
Nessuno risponde.
Ha sentito un giorno sua madre sospirare, mentre parlava al telefono con una sua amica:
-Un incidente…è stato un banale e stupido incidente, ecco, non programmato, non voluto, non richiesto…”

Non desiderato. (…)

Commenti dei giurati 

«Originale la cronologia di Paolo, dalla vita alla morte passando per le tappe principali della sua esistenza. Magari dalle tinte cupe, ma mi piace.» (Daniele Bottura)
«Sì, ok, la responsabilità; la capacità di scegliere ciò che è giusto e di combattere ciò che è sbagliato. Ma certe volte la vita dipende anche da imponderabili colpi di culo: una persona, una passione, un luogo. Paolo è una non notizia che apparirà forse come trafiletto nel Val Pusteria News. È un racconto splendido e crudele, perché ti nega quel colpo di culo a cui avresti voluto assistere. Peccato che la notte di Natale stiano tutti a casa, a leccarsi le proprie ferite.» (Stefano Martello)
«Paolo contro è un coraggioso racconto che dilata il senso del tempo come architettura per contenere e ritmare il crescere della via di Paolo, tra rari momenti di felicità e più frequenti momenti di solitudine e di abbandono. La scelta di linguaggi diversi – narrativo, diaristico, poetico – dice di una volontà dell’autore di sperimentarsi con una parola che sia sempre più efficace e convincente e vada alla ricerca di forme consone a cogliere le pieghe delle situazioni di dramma e di difficile comunicabilità-. Paolo è così qualcuno che tutti noi abbiamo conosciuto e ci chiede di prendere posizione – almeno emotivamente. Un racconto che – in questa contemporaneità piena degli Io – sa affrontare con sensibilità e certa sapienza il tema dell’Altro.» (Patrizia Rigoni)


III classificato
 Honda Dodò, caffè e ammazzacaffè  
di Puccio Chiesa, Castelleone, CR

Puccio Chiesa è nato a Crema (CR) be1976. Pubblicazioni: Vertigini, Libroitaliano Edizioni, Ragusa, 1998. Bromazepam ne L’energia del discorso poetico in otto passaggi, a cura di Alberto Mori, “SI SCRIVE”, numero unico, Cremona, 2001. La luce ha sconfitto la perdita del tempo, in Meridiana, esperienze temporali, a cura di Franco Gallo, “I Quaderni di Correnti”, Crema, 2003. Sopra le righe, L’Autore Libri, Maremmi editori, Firenze, 2006. Un incubo ricorrente, ne L’uomo il pesce l’elefante, memorie future, “I Quaderni di Correnti”, Crema 2007. Sonnambuli, Il Foglio letterario Editore, Livorno, 2009. Dal 2003 realizza opere di videopoesia, collaborando con il centro di documentazione per le arti visive Careof di Milano, dove tutte le sue opere sono catalogate e visibili al pubblico. semiolabilecinematografica/myspace.com


Bujo era arrivato con l’eurostar delle 19:06, non aveva un bell’aspetto, lo notai subito. Oporto la teneva ancora nelle tasche, nelle pieghe del vestito; l’odore di alabastro dei venditori di rose, il silicio del fiume Douro, gli strascichi del “Dromò”, erano lì, su di lui. La distanza non era stata colmata, il tempo si presentava immutato, immanente.
Andammo in via delle oche a brindare al suo ritorno. Non stavo molto bene in quel periodo, soffrivo di uno strano virus intestinale, “…un male importato dai tropici”, così diceva il mio medico. Lo specchio sul bancone ci rifletteva nell’ora del campari, la nostra immagine lo soffocava, lo costringeva in un tempo inesistente. Il locale era ancora semivuoto, un gruppo di uomini giocavano a biliardo in fondo alla sala. Bujo tirò fuori un cartoccio dalla tasca della giacca e me lo mise in mano con noncuranza. “Bhè? Tutto qui? Tre pacchetti di Ducados…”
“Tabacco nero, da noi non si trova.”
“Sai che non sopporto il tabacco nero!”
“Ah! Me l’ero scordato!”
Diedi due boccate alla Ducados, così, tanto per fare, forse il tabacco nero non era così orribile. Mi sbagliavo! La nausea “equatoriale” mi risaliva in gola rapida e inarrestabile. Il bagno era occupato, uscii dal locale e mi misi a vomitare sotto la prima finestra disponibile. Strocchiettavo così forte che svegliai il padrone di casa: “Devi vomitare proprio qui? Eh? Lo sai che io ci devo mettere le mani lì sotto? Eh? Lo sai stronzo?”. Mi buttò giù un ombrello: “ Tieni, pulisci!”
“Ma scusa, ma come cazzo faccio a pulire con un ombrello?” urlai rantolo. Mi gettò addosso una secchiata d’acqua così gelida che mi tornarono in mente le umilianti docce del collegio, tutti inscatolati in piastrelle bianco rancido, derubati di ogni sogno individualista, rassegnati all’obbedienza e al totalitarismo.
“Eh già! Tempi duri quelli, tempi duri, ma grazie a dio sono finiti.” Era Bujo che mi tirò su da terra. “ Tutto bene?”
“Come fai a sapere che stavo pensando ai tempi del collegio?”
“Pensavi ad alta voce. Sei ubriaco Nico, fai sempre così quando sei ubriaco, lo sai.”
“Non dire stronzate! Non ho aperto bocca e non sono ubriaco!”
“Dove l’hai preso quell’ombrello?”
“Me l’hanno buttato giù da quella finestra.”
“Per fare cosa?”
“Per pulire!”
“Ma come si fa a pulire con un ombrello?”
“È quello che gli ho chiesto anch’io!”
“E lui?”
“Mi ha buttato giù una secchiata d’acqua gelida!”
“Per questo sei bagnato!”
“Già.”
“E poi?”
“E poi mi sono venute in mente le docce del collegio e…”
“… il totalitarismo.”
“Proprio così… ma… ma tu come fai a saperlo? Hai imparato a leggere nel pensiero? Non prendermi per il culo!”
“Non c’è nessun trucco, nessun inganno. Ho… diciamo, sviluppato le mie capacità cognitive. Ho conosciuto un uomo ad Oporto, che mi ha insegnato molte cose. Ma adesso non posso spiegarti… “loro” hanno orecchie ovunque, non devono sapere, nessuno deve sapere…”
“Loro chi? Cosa non devono sapere?”
“Devo andare Nico, non posso più aspettare, domani ti spiegherò tutto. Dove ci possiamo vedere?”
“Vieni nel mio ufficio alle due, puntuale però!”
“Va bene ci sarò.” (…)

Commenti dei giurati

«Honda Dodò ha il ritmo narrativo di chi conosce la forza delle immagini e il controllo dei tempi e degli indugi tra suspence e rivelazioni. La scrittura è matura, densa, capace di tenere alto l’occhio di chi guarda le cose accadere ma anche distanza sufficiente dall’occhio di chi scrive. Insomma un racconto anche ironico e pieno di pathos, che mentre spinge l’attenzione del lettore a chiedersi continuamente che cosa sia vero e che cosa finzione, apre una interrogazione seria sul senso del nostro essere nel presente e a cavallo della memoria.» (Patrizia Rigoni)
«Sagace, la lettura è scorrevole, il testo ben congeniato mantiene vivo l’interesse per tutta la sua lunghezza. Buona l’amalgama fra discorso diretto e non, molto ben caratterizzati i personaggi, viene voglia di arrivare alla fine e non è poco.» (Maristella Olivieri)



Opere segnalate 

L’odore del muschio di Cinzia Leo, Nocera Inferiore, SA
Commento
«Ansia, paure e depressione: sono questi i “compagni” in crescita di molti adolescenti, sempre più spesso figli di padri assenti e di madri infelici. E “la solitudine” come ha scritto Vladimir Nobokov “è il campo da gioco di Satana”, perché un adolescente che cresce solo ed inascoltato può sentirsi in colpa e “barattare” la sua anima, anche solo per un sorriso. Solitudine ed incomunicabilità di monofamiglie moderne, un gelo quotidiano in cui può inserirsi subdolamente, l’adulto mostro che “addenta” l’anima, oltre che il corpo di una donna-bambina.» (Elena Varriale)


Non ci sono olandesi a Rimini di Maddalena Migani, Bellaria, RN

i-intro

Il problema è tutto lì, da bambina qualcuno ti aveva raccontato certe cose, e ti eri immaginata un futuro di unicità e perdizione; di giardini pieni di rose, un marito favoloso di cui sarai sempre perdutamente innamorata, uno stuolo di bambini che di notte non piangono mai e soprattutto crescendo non si drogano preoccupantemente.
Beh questo, in verità, lo dico per la maggior parte delle donne, per quel che mi riguarda, l'immaginario borghese ha sempre avuto poco fascino: io preferivo sognarmi innamorata di un uomo terribilmente artistico, con i capelli rigorosamente lunghi: avremmo vissuto poveri ma felici, in una mansarda bohemienne molto pittoresca.
Poi cresci, e ti accorgi che son stronzate; il grande amore spesso lo perdi per una cavolata, perché – questo da piccola non te l'avevano neanche accennato – amarsi è difficile.
Così ti ritrovi a sentire le stesse frasi da bocche diverse, a rivivere situazioni simili, e la cosa ti crea un fastidio incredibile, mentre pensi a quegli stronzi che ti raccontavano le favole: il principe azzurro, vissero felici e contenti e compagnia bella, e ti verrebbe da tirargli il collo, perché quei miti usciti dalla razionalità rimangono come icone, simboli perduti da qualche parte nei sottoscala della coscienza.
Voglio dire, sono anche un po' sfigata perché da bambina non ero mica credulona, babbo natale non mi ha mai ingannato, sapevo perfettamente che era una bufala ed i regali erano procurati dai miei genitori (che per la verità non sono grandi attori, e solo un bimbo molto scemo poteva cascarci), e adesso che ci ripenso mi sa che con la mia loquacità e la mia pretesa di dire sempre la verità ho rovinato l'infanzia a qualche coetaneo…
Anche alla storia dei bambini sotto i cavoli o della cicogna non ho mai creduto: sapevo perfettamente che i bambini li facevano gli uomini e le donne, dopo aver fatto qualcosa di molto strano e rumoroso.
Insomma non abboccavo a tutto, ma quella storia del vissero felici e contenti mi aveva convinto: da grande sarei stata soddisfatta, libera e felicemente innamorata!!
In fondo continui a sperarci, in una parte di te molto impolverata rimane il sogno del grande amore, del – tanto con la persona giusta andrà tutto bene –. Continui a sottovalutare i fallimenti del passato con l'alibi – non era quello giusto – Poi quello che ti sembra giusto ti capita, e sembra che anche lui con te non stia male, ma tutto frana ugualmente e ti chiedi smarrita: ma il vissero felici e contenti, dove cazzo è?? Nelle favole di persona giusta ce n'è una sola: vuol dire che mi sono già giocata tutto? Pensi che magari lui tornerà e che tutto questo è solo una pausa tra periodi felici, ma poi non succede.
Ma questo è solo il preambolo della storia, e col resto del racconto centra poco, se non come sottofondo costante a tutto quanto, dovete immaginarmi così: presa tra mille cose, ma sempre con questa presenza nella colonna sonora… (…)

Commento
«Niente di che, solo una storia d’amore. Di quelle che finiscono. Di quelle che fai di tutto per scordarle, a costo di uscire con un tizio che guida una Mercedes. Di quelle che lasciano strascichi, che pagheranno altri. Di quelle che ti fanno scoprire quanto sei forte, ingenuo/a, fesso/a e quanto ti vuoi bene. Niente di che, ma è scritta bene, è divertente ed amara e mi ha riportato ad un tempo in cui le scelte erano assolute ed il futuro indefinito. Una splendida sensazione, a piccole dosi.» (Stefano Martello)


Tre racconti di Francesco Jonus, Reggio Emilia

Incipit  di Cenere

Smise di pregare nell’istante in cui comprese di poter percepire il calore delle fiamme.
Alzò nuovamente lo sguardo, questa volta verso l’ultimo piano della scuola.
Era più che convinto che la bomba non fosse esplosa al contatto con il tetto, ma avesse continuato la discesa al piano sottostante, scoppiando solo all’interno delle quattro pareti di qualche aula.
Immaginava uno studente assonnato, un breve battito di ciglia e poi un uovo di pece, improvvisamente apparso attraverso una nuvola di polvere e calcinacci.
Fantasie che trovava disgustose, ma che era troppo stanco per scacciare lontano, in qualche angolo sinistro e sperduto.
Il battito sordo di un’esplosione lo colpì violentemente, ma non abbastanza da scagliarlo verso terra; riuscì ad intravedere quel che rimaneva di un muretto, ancora ritto in cima all’edificio, frantumarsi e ricadere su uno strato ormai consolidato di sabbia e frammenti di vetro.
Aspettò ancora qualche secondo, poi si decise ad alzarsi in piedi.
Senza pensarci troppo, cercò di togliersi di dosso lo strato di fuliggine che si era posata ovunque, ma l’impresa gli parve subito impossibile.
Un uomo anziano sbucò fuori dalla vicina caffetteria e volse per un attimo il viso nella sua direzione.
Una lama di vetro era penetrata in profondità nella tempia e i pochi capelli del vecchio si erano incollati sulla ferita, inzuppandosi di sangue.
L’uomo rimase immobile, senza alzare neanche una mano a coprire la lacerazione, con il liquido che scendeva a rivoli a ricoprire la faccia e le pozze degli occhi, a scrutare il rogo che si innalzava verso il cielo.
Il calore aumentava progressivamente con l’andare dei minuti e attanagliava la poca pelle che ancora sentiva sul viso, ma neanche una lacrima di sudore si decise a scendere lungo quella buccia secca.
I primi soccorsi, nelle fragili forme di qualche anziano uscito dalla vicina casa di riposo, arrivarono quando ormai era tardi anche per salvare qualche brandello ancora degno di sepoltura, appena distinguibile da un ceppo carbonizzato.
Tuttavia, bastarono giusto pochi istanti e si vide circondato dalla gente del quartiere, che usciva dai rifugi guadagnati durante il bombardamento e veniva a cercare i figli meno fortunati.
Probabilmente, si disse, per non cedere allo sconforto, i padri che erano corsi in soccorso durante la pioggia devastatrice avevano semplicemente accorciato drasticamente la loro esistenza.
Il pensiero era ironico e non si sentì meglio.
Decise di non pensare più a niente.
Ascoltò la frenesia delle ambulanze, le travi più piccole che venivano rimosse, il vetro che esplodeva in altro vetro, come biglie lasciate fluire in una cascata sulla pelle incatramata di un insolito tamburo, in silenzio.
Non sentì la mano scendere sulla sua spalla.
- Sto bene, pensa ai ragazzi -, si accorse di aver mormorato, accorgendosi poi di aver detto un’idiozia, e si volse a guardare.
Aspettò qualche secondo, poi cominciò a parlare.
- Sai, me l’aspettavo, in un certo senso -, spiegò, come ad un vecchio amico. - Ero troppo felice, mi aspettavo qualcosa.
Si interruppe, cercando le parole, qualsiasi vocabolo che gli consentisse di esprimere le ceneri che si erano posate come neve sulla sua anima, togliendoli il respiro ed ogni energia.
- Una sorta di giusta compensazione.
Era così, in parte, ma purtroppo non era così semplice, intuitivo.
- Non c’è niente da capire -, rispose subito il proprietario della mano.
Le donne avevano iniziato a lamentarsi.
La pelle tesa e, a volte, macchiata delle mani era impressionante. (…)

Commenti
«Può un “non-umano meccanico” riempire il vuoto lasciato dalla morte dell’oggetto amato? Similpelle racconta questo “surrogato” dell’amore, un artificio di pelle, programmato per amare e per morire. Un artificio per colmare un vuoto, quello sì reale, di una moglie e di un amore persi per sempre. Un modo garbato di riproporre l’antico, ma pur sempre attuale dilemma irrisolto dell’uomo, tra fredda ragione e calda passione.» (Elena Varriale)
«I tre racconti sono ben scritti anche se non hanno tutti la stessa riuscita. Sospeso e un po’ triste primo, inquadrato benissimo nel genere del racconto; il secondo ha una struttura più complessa e articolata, la storia è originale, furba la prosa, forse anche troppe le idee da condensare in poco spazio; un po’ più fiacco il terzo racconto. Nel complesso si fa notare.» (Maristella Olivieri)


Osservazioni di una scimmia e altre storie di Davide Schinaia, Riccione, RN

DELUXE VIDEO

Presi l'autobus alle due del pomeriggio e arrivai a Puna alle nove di sera. Lasciai Bombay con l'acqua alta, i pantaloni bagnati e una telefonata in Italia. Ogni tanto il rimbombo di un aereo in decollo sommergeva quello del traffico, che sordamente si allontanava dietro i vetri, oltre la città assalita dal diluvio. Vidi bambini molto divertiti e gente che giocava con l'acqua, e dietro l'angolo, lungo il canale principale del fiume fognario in piena, baracche di mattoni e lamiere, rattoppate con plastica e foglie di palma, allagate d'acqua, senza nessuno sfogo, con un buco attraverso il quale si vede il mondo. Bidoni, accatastati a formare una piramide, degradare in una valle di rifiuti, dove cani provati dalla fame e dalle zecche cercano il loro pasto immondo. Li ritrovi, proprio gli stessi cani, ad amoreggiare su una spiaggia, incarnazioni di spiriti lontani, venuti in gita sulla terra solo per il fine settimana. Cani che guaiscono nella notte senza lasciarti dormire.
Due tubi, dal diametro alto come un essere umano, costeggiano un sentiero; il Viale dei Tubi, lungo chilometri e chilometri, da Bombay a Saturno, fra i quali due indiani in grigio ripetono la ronda, stancamente, senza nessuno scopo. L'acqua del monsone scioglie questa terra, che frana inesorabilmente verso l'oceano, trascinata dai suoi fiumi impetuosi. Qui un uomo sente di cosa è fatto, si ricorda, in un barlume che dura un attimo e che si scopre eterno, la sua natura profonda. La sua natura di animale e di guardia, la sua natura di amico, il suo amore, la sua intelligenza. La sua sostanza ondulatoria. Sopravvivere è una dura arte, quali che siano i travagli da affrontare. C'è chi nasce afflitto da un male, chi da un altro, ma tutti devono risolvere problemi. Ecco perché su di un autobus impolverato, dove un monitor diffonde a tutto volume un film che non capisco, mi sento come a casa. Nonostante l'eccessiva acqua, nonostante i sobbalzi del veicolo sullo sterrato, le sue improvvise soste in mezzo alla notte, dove in sordide capanne bevo tè e latte, o acqua di cocco direttamente dal frutto. Mi sono chiesto diverse volte che cosa mi spinga qui. Continuo a chiederlo e più me lo chiedo, più scompare la necessità di una risposta e quindi il motivo stesso che ha generato la domanda. Sono qui e questo è abbastanza. Sono qui perché questo è un continuo a tornare a casa che dura da migliaia di secoli. La situazione non è mai cambiata, perfino la compagnia è la stessa. I miei amici, gli ingannatori da cui diffidare, le ragazze, le case e gli alberghi. Le soste. La musica durante il cammino. Deluxe Video, ovvero: torpedone con film a tutto volume incorporato.

Commenti
«Divertente ed originale prospettiva del punto di vista di una scimmia che osserva gli umani mentre racconta di sé e delle sue parentele. Il profeta Khalil Gibran ha scritto: “Se un albero dovesse scrivere la propria autobiografia, questa non sarebbe troppo dissimile da quella di una famiglia umana”.» (Elena Varriale)
«È solo apparentemente un racconto di viaggio che regala sì immagini dall’india, ma lo fa con la capacità di incarnare io narranti diversi che ce la offrono – persino di un  cane – in modo da evitare stereotipi e facili innamoramenti esotici e aprire brecce molto critiche sui temi del facile giudizio – pregiudizio? – dei paradigmi occidentali. Lascia qualche perplessità le conclusione un po’ surrealista – quasi gogoliana – che non mi sembrava necessaria per tutto quello che il racconto in questa rotazione progressiva di sguardi, aveva già detto. La scrittura è solo apparentemente lieve, ma ferma e forte, con immagini che riescono a dare tutto il sapore e il dubbio di che cosa sia quell’altro mondo.» (Patrizia Rigoni)


Racconti di viaggio di Fausto Toccaceli, Addis Abeba

Lalibela (Etiopia)

La strada sale, Il monte Abune Yosef si staglia lontano, Lalibela è tra noi e il picco che supera i 4000 metri, la raggiungeremo tra poco. Duecento metri di pista ci conducono sopra una grossa apertura naturale che ripida scende a valle. Incastonato da mille anni, sotto un roccione sporgente, si mostra il monastero di Neakutelaab. Scendiamo i gradini ed il vorticoso sentiero che porta all’eremo. Fievoli, randagi silenzi, che intercorrono tra litigi di uccelli e regolari cadute di gocce d’acqua ci aprono al luogo di culto. Pretendere di vivere è da mitomani? Di contro, questo paesaggio essenziale e assolato di colore, insegna la nostalgia per la vita primigenia e invita a conservare un poco di vanagloria, ed io, lì, vagabondo tra i vagabondi, viaggiatore e curioso, ho un sussulto di verità, di libera persuasione: invito alla pace assoluta. È  appena terminata una funzione e i fedeli, scalzi, lentamente escono dall’ingresso principale assieme ad un dolce odore di mirra. L’eremo, che risale al XII secolo è su un piano, in parte scavato nella roccia, la facciata è edificata con tufo; il costone lo sovrasta ammantandolo, come per custodirlo da ogni intemperie, sia naturale che divina. Si cede ad un sussulto di grazia appena ricevuta e poi presto svanita: i canti e i lamenti dei fedeli in processione, erigono scudi contro il tempo e le sue terrene disgrazie, si ha la sensazione di un trapasso regolato di un esistere effimero e fuggevole. Il pavimento interno, in pietra, è interamente coperto di tappeti, ai lati teche riquadrate in legno custodiscono manoscritti e croci, coppe, figure dipinte di santi e re. È scarno l’interno, tre sale divise da muri di pietra sono sovrastate dalla roccia, prive di tetto artificiale; il canto degli pennuti vi si amplifica, così come lo scendere pacato dell’acqua. Kidane, il fido, sorride nel leggere nei nostri occhi e nelle nostre parole claustrale appagamento. Lasciato il monastero nel suo incanto a picco nel vuoto, percorriamo circa un chilometro aggirando lo sperone che adagia la montagna al nostro fianco e fatalmente scorgiamo Lalibela.
Le chiese: passi sordi sopra roccia levigata. Un sunto di semplicità e magnificenza; canti, diaconi, accarezzati dalla luce del sole e dal profumo di candele; sotto, tappeti stagionati dentro semplici orditi nascondono pulci in letargo; sordità dei suoni dei lamenti, chiusi dentro le mura. In abiti da cerimonia preti erigono croci preziose, nei loro visi il segno del tempo, le rughe indurite portano il simbolo dei canali della terra di Salomone. Polvere sottile si rincorre tra i pertugi insieme a bianche sagome di fantasmi, intanto che il sole sta acquattato. Il mondo ritorna solo dopo qualche ora.
L’immagine: l’uno, il tutto, che sorge sfilando i cunicoli, le ripide scalinate, attraversando strette fessure che mettono in comunicazione ogni chiesa, passa attraverso il colore del tempo : “… l’ orlo secco di una foglia di faggio”* . Il tempo e le sue furie hanno modificato il rosso del tufo lavico rendendolo verde muschio, giallo ocra, arancio appassito, come se, dalla tavolozza di un pittore, questi colori si fossero rovesciati sulla sommità di ogni chiesa mescolandosi e adagiandosi ai monumentali lati. Poi, dietro palpebre chiuse, ecco un tonfo, sordo: il primo colpo, il primo rotolare di roccia infranta. La genesi: Adamo; fiume Giordano; Ararat; Betlemme; natività; giogo; cedro. Lalibela è apparsa, le chiese sono e non se ne andranno più: -“Il lento rumore del nulla / Su una roccia sospesa / Che guarda l’infinito”.

* Rainer M. Rilke – Il libro d’ore.

Commento
«Da questa lettura si imparano cose nuove.» (Daniele Bottura)

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