Scritto dal Professor Felice Casucci, docente di Diritto Privato Comparato e di Diritto e Letteratura, in occasione del dibattito sul tema "Il silenzio significativo" tra Diritto e Letteratura. Evento organizzato, il 18 giugno nella Sala del Consiglio del dipartimento Pemeis, in Piazza Arechi II - Palazzo De Simone a Benevento, dalla Fondazione Gerardino Romano, in collaborazione con L'Università degli studi del Sannio e il Dipartimento di Studi Giuridici, Politici e Sociali, Persona Mercato e Istituzioni. (ringrazio Antonietta Gnerre per avermi girato questa interessante rilfessione)
Porsi è disporsi. Così mi pongo verso me stesso nel campo aperto in cui il mondo è disposto ad ascoltarmi. E scrivo, e leggo, e parlo in pubblico e in privato. E cerco soluzioni ai problemi. Seguo gli imprevedibili sviluppi di una nuvola nel cielo o di mio figlio che corre in bicicletta. La mia posizione, l’angolo d’osservazione costituisce la trincea da cui miro il bersaglio della conoscenza. Io sono nella parsimoniosa abitudine a compiacermi, in un contesto dato, con le coordinate mentali delle tabulazioni facoltose. Fuggo dall’imprescindibile e lo limito al mio spazio. Nessun uomo riesce a sostenere la propria immagine allo specchio. Se riesce a farlo cade nell’eternità di Narciso. E la vita fa lo stesso, perché la vita prescinde dall’uomo. La vita è perfetta senza che l’uomo vi metta mano. L’ossessione della centralità umana è anche l’ossessione dell’innocenza dell’uomo. E proprio da questa sindrome della pretesa innocenza che bisogna partire per comprendere appieno il significato del silenzio umano. Si deve partire da qui, perché da qui partono le esplorazioni feconde, e perché da qui partono coloro i quali convincono gli uomini della propria colpevolezza, utilizzandola come uno strumento di tortura dell’uomo sull’uomo. Non credo vi sia mai stato né vi sia un uomo che abbia impiegato la grandezza della sua anima per conformarla alla legge, ma è vero il contrario. Eppure la legge, nata dall’idea dei migliori, ha assunto aspetti ideologici, ha costretto l’uomo alla prigione o allo specchio. La legge, si badi bene, non solo come norma scritta, ma anche e soprattutto come prassi (amministrativa, giudiziaria, comportamentale, ecc.) che ha allargato le maglie rigide della legge in una direzione controversa, per fare dell’uomo il simbolo di una qualche vittoria dell’uomo sull’uomo, attraverso la morte. Infatti, per raggiungere il risultato della sua potenza, per dilatare i confini del suo campo aperto, l’uomo ha dovuto inventare un nemico, ha dovuto massacrare e mascherare la sua vera identità. La grandezza è stata mortificata, l’anima, segnata dalle sue sconfitte, è stata utilizzata come prova del fatto che non è possibile portare avanti alcun discorso sulla grandezza dell’uomo senza la sua potenza, senza una guerra che ne affermasse la vittoria per l’uno e la sconfitta per l’altro. La grandezza dell’uomo è diventata il suo incubo. La legge, come norma e prassi, si è disposta, con i suoi miti, su un orizzonte non osservato ma subito. E l’uomo è diventato schiavo degli strumenti ideati per elaborare pace e consenso. Il silenzio, progressivamente, ha preso il sopravvento, impedendo all’uomo la libertà delle scelte e facendone un automa, imprigionato nella necessità del giudizio, dove innocenza e colpevolezza giocano lo stesso ruolo, a parti invertite, a seconda delle circostanze. Da qui il ribellismo, la voglia di evadere da questa trappola mortale, in cui la morte fisica è attesa come l’unica vera liberazione dal tormento della richiamata alternativa simbolica tra la prigione e lo specchio. Una mutazione genetica avviene ogni volta che l’uomo pronuncia la parola diritto. L’uomo stesso si compiace che la parola non significhi nulla di costituito prima che venga pronunciato il giudizio del caso concreto. Giudizio al quale partecipano, com’è facilmente comprensibile, non solo coloro che lo pronunciano, ma anche tutti coloro che in qualche modo e in qualche misura lo predicono. Così non resta molto da spendere sul piano dell’abbraccio mortale se non la colla che fissa il silenzio, spazio omissivo a vantaggio del sistema, che sposta la coesione del patto sociale su un piano non verificabile, quello della dilazione dei tempi, dove la giustizia si esercita negando se stessa. Il mondo è pieno di mutanti, di innocenti colpevolizzati, di principianti (portatori di principi) sacrificati, di infami costituiti parti civili, di furbi disinnescanti e tutti costoro, insieme a molte altre specie, assai tristi e pericolose, convivono nella sarabanda del diritto vissuto. Il silenzio tiene insieme il sistema affittivo del diritto vissuto, il silenzio può far saltare le cupole di cui si ricopre. Come ci riesce? Con la processione silenziosa delle fiaccole dei senza nome nella notte della vita, alla quale bisogna fare ritorno, quasi fosse un ritorno alle origini. Una processione non facile da organizzare per renderla visibile ai più che fingono di ignorarla. Solo la letteratura può compiere il miracolo dell’apparizione: rimettere in fila indiana non coloro che hanno realmente vissuto ma coloro che sono morti apparentemente per niente, le vittime di nessuna storia, per orientare l’attenzione del lettore sulla dimensione irreale della realtà, accompagnando la processione funebre dei nomi generati dalla suggestione del poeta con il silenzioso e definitivo scorrere di una pagina bianca, una pagina bianca dietro l’altra, fino alla fine della storia.
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