di Marco Bottoni
Non sono per niente di compagnia, stasera.
“No, grazie, non prendo niente.”
È dal pomeriggio che covo una malinconia leggera, per niente dolorosa: dolce, non violenta.
Da coltivare.
Non pensieri tristi; piuttosto uno stato d’animo che si fa sempre più denso di nostalgia e, insieme, di un sentire che è più stanchezza che dolore, più distanza che perdita, più abbandono che sconfitta.
“Davvero, no, nemmeno qualcosa da bere. Torno indietro subito, è già tardi.”
È già dal pomeriggio che mi sento fuori posto in ogni luogo, e con chiunque.
“Grazie, ancora. Vado.”
Davvero, per niente di compagnia.
Lascio abbassato il vetro del finestrino, anche se l’aria è ancora un po’ fredda, la notte.
Tratto Casalecchio di Reno Sasso Marconi chiuso in entrambe le direzioni.
Chi se ne frega, Sasso Marconi è solo un posto, nel Mondo.
Io non devo mica andarci, a Sasso Marconi.
Piuttosto devo stare attento a infilare la rampa giusta, quella che immette in direzione Bologna.
L’ultima volta, soprappensiero, mi sono sbagliato e ho dovuto arrivare fino a Parma prima di potere invertire la direzione.
L’aria non è un po’ fredda: è molto fredda, mi sa che domani la pago questa “mattana “ di tenere il finestrino aperto, chissà i cervicali.
Chi se ne frega, guido piano e mi tiro un po’ su sul collo il bavero della giacca, una cosa tipo “Miracolo a Milano”, domani si vedrà, l’importante è che Milano è dall’altra parte, e che almeno questa volta non ho sbagliato, anche se arrivare fino a Parma e poi girarmi per tornare indietro non sarebbe stato poi questo dramma.
Anche Parma non è altro che un posto, nel mondo, e io stasera non sono per niente di compagnia.
L’importante è che sono in viaggio, e c’è di buono che a guidare con il finestrino aperto si sentono gli odori della notte.
I profumi della notte, quelli che, da sempre, sono i più belli.
È bello anche non essere di compagnia, ogni tanto.
C’è di buono che i convenevoli si esauriscono quasi subito, grazie davvero, non ho fame, come se avessi accettato, magari un’altra volta, buonanotte, vado.
Tengo lo stereo acceso.
Ascolto sempre musica, quando guido di notte
L’aria fredda che mi batte sul collo, l’odore dolciastro e leggermente acido del fieno appena tagliato entrano insieme dal finestrino aperto e io mi abbandono contro lo schienale del seggiolino, affondando mollemente dentro malinconie accoglienti.
Pensieri di notte lunga e buia, pensieri di anni lunghi scappati via tutti insieme, pensiero per nulla ingombrante di Lei che quella volta a pranzo se la deve essere presa a male perché, da allora, non mi ha più rivolto la parola.
Sono tre Venerdì ormai, anche se oggi è solo Mercoledì.
Chi se ne frega, il giro di accordi di pianoforte è bellissimo, cinque note basse che si srotolano piene e rotonde e si ripetono in una cadenza dolcemente ossessiva, è un macaco senza storia, dice Lei di Lui, e io guido piano, persino i camion più lenti e pesanti mi sorpassano e adesso dal finestrino aperto insieme ai profumi della notte entra puzzo di gasolio bruciato a coprire l’odore del fieno appena tagliato, che gli manca la memoria, in fondo ai guanti bui.
L’ho accarezzata spesso questa fantasia, di un viaggio in automobile dentro la notte, su una strada qualsiasi e diretti non importa dove, quello che conta è che è un viaggio che non finisce mai.
Anzi, non che non finisce mai, chè “mai” è una cosa che non si può dire, piuttosto un viaggio che dura per un tempo impossibile da misurare, un tempo che continua indefinitamente, non importa se perché fermo o infinito, il fatto è che non ha un termine, che non ha una fine.
Pur di entrare in una dimensione del genere, vale la pena di beccarsi uno spiffero d’aria gelida sul collo e sopportare il sottile disagio di non sentirsi affatto di compagnia, per una sera.
È già da un po’ che sono uscito dall’autostrada.
Ora affronto le curve e gli incroci cambiando spesso marcia, e la leva del cambio oppone una resistenza dolce alla spinta della mia mano, gli ingranaggi sembra che accettino volentieri la pressione che gli impongo, ad ogni cambio.
Non c’è niente di meglio che una tristezza dolce e apparentemente senza motivo e un finestrino d’auto aperto sui profumi della notte per lasciarsi andare all’abbraccio di certi tipi di malinconia..
Chissà come fanno a compatire la guida quelli che usano il cambio automatico.
I fari delle altre automobili danno molto più fastidio adesso che la strada è tutta curve e controcurve, basta che questi che mi incrociano tenendo i fanali così alti non mi vengano addosso, ci mancherebbe solo questo: mi sono guadagnato un piccolo infinito momento di solitudine e lo mando a puttane facendo un frontale contro uno che corre come un pazzo con gli abbaglianti accesi, nella notte, ti dà fastidio l’aria?
Spero di no; comunque, guido piano
Gli odori sono cambiati, deve esserci una stalla qui vicino, oggi mi siete stati vicini tutti quanti tutto quanto il giorno anzi, mi siete stati tutti quanti addosso, e adesso sì, avrei anche appetito, ma grazie no, non mangio niente, preferisco andare, meglio la fame soli che male accompagnati, chissà mai cosa le avrò detto di tanto terribile da fare sì che Lei se la prendesse in quel modo venerdì scorso, anzi, due venerdì fa.
Comunque prima o poi le passa.
Il suo sguardo è una veranda, e a me è sempre piaciuto accarezzare questa fantasia di un viaggio senza fine: l’auto procede nella notte e qualsiasi direzione tu prenda, su qualsiasi tratto di strada ti trovi l’unica cosa che veramente esiste è che non ci sarà un arrivo, tempo al tempo e lo vedrai, perché non c’è una destinazione in questo andare, così come non c’è stata una partenza, esiste solo il viaggio, il rotolare delle ruote sull’asfalto e il dolce sforzo che fa la leva del cambio quando muove gli ingranaggi, spinta dalla tua mano, che si addentra nella giungla, no non incontrarlo mai.
Guidando piano posso tenere il finestrino aperto anche se, di notte, l’aria è ancora fresca.
Quando abbordo certe curve più strette l’aria che entra, tagliente, strappa via un po’ di lacrime dagli occhi, e mi spinge contro il sedile.
Mi appoggio più forte contro lo schienale, e rallento ancora.
Non mi può importare di meno del lampeggiare che mi fanno le automobili che mi seguono, che passino se vogliono andare più forte, sono un vecchio Sparring Partner, e non ho visto mai.
Non ho nessuna fretta, tanto meno fretta di arrivare: una calma più tigrata, più segreta di così, io non devo arrivare da nessuna parte, non è il tempo che passa a contare, per me.
È il tempo che è.
Prendi il primo pullman via, tutto il resto è già poesia.
Non è stato sempre così.
Una volta, correvo anch’io.
Fendevo l’aria per incontrare meno resistenza, e ricordo che per me aveva ancora un senso avere fretta, anticipare il tempo, lanciarsi a divorare le distanze, per arrivare presto, per arrivare prima.
Quando viaggiavo, era sempre per raggiungere fisicamente un altro luogo e il viaggio aveva termine colmata la distanza che mi separava dal punto d’arrivo.
Tutto ciò che superavo, i luoghi che oltrepassavo me li lasciavo dietro: essere “oltre” e giungere “altrove” mi pareva costituisse l’unico scopo di qualsiasi viaggio.
Ora so che è tutto inutile.
Anche Lei che se l’è presa così tanto per una frase da nulla, è inutile che corra chissà dove.
Non è aumentando le distanze che si crea lo spazio, così come annullandole non si riesce a riempirlo.
L’aria fredda è una morsa sul collo, e io mi appoggio sempre più con il dorso allo schienale.
Non è il fatto di essere vicino o lontano, che fa la differenza.
Piuttosto, il fatto di essere dentro o fuori.
Oggi mi siete stati tutti quanti addosso, per tutto quanto il tempo, eppure non c’è dubbio che io vi sono stato tutto quanto il tempo “fuori”, e sicuramente qualcuno avrà pensato “oggi, è poco di compagnia”.
Uno spazio fisico sottilissimo segna il confine fra il “dentro” e il “fuori”: questi che mi incrociano con i fari stramaledettamente alti sono lontani alcuni centimetri dal venirmi addosso, il vetro del finestrino è spesso solo qualche millimetro, Lei che se l’è presa così tanto è lontana solo una parola dall’essermi ancora dentro.
Lo schienale del seggiolino accoglie dolcemente i mio peso, ed io sono appoggiato sul limite sottilissimo di una malinconia che avverto come capace di ingoiarmi completamente.
Al di là di questo diaframma si apre uno spazio indefinito, una dimensione che mi attrae, che mi chiama, insistente, all’abbandono.
No, niente malinconia, stava lì nel suo sorriso.
Io ne sono ancora fuori, a guardar passare i tram.
Io sono ancora al di qua del diaframma, dentro questa fantasia di un viaggio senza fine, vecchia pista da elefanti stesa sopra il Macadam, obbligato a rimanere qui dall’incapacità che ho di attraversare lo spazio sottilissimo che segna il confine, ed entrare.
Nella dimensione che pulsa della verità di un sentire e, allo stesso tempo, di tutto il dolore del mondo.
Resto qui, nella illusione consolante di un viaggio sospeso fra essere e non essere, col pensiero per nulla ingombrante di Lei che quella volta a pranzo se la deve essere presa a male, in balia dell’aria gelida che irrompe attraverso il finestrino aperto, tratto Casalecchio di Reno Sasso Marconi chiuso in entrambe le direzioni.
Chi se ne frega, Sasso Marconi è comunque solamente un posto nel mondo.
Come anche Parma, del resto, e io non devo nemmeno andarci.
Deve esserci, ne sono certo, un altro luogo, o meglio, un luogo “altro”, che corrisponde a una diversa dimensione dell’esistere, ma il fatto è che io mi trovo ancora in questo.
È inutile illudersi.
Questo viaggio finirà, le ruote smetteranno di rotolare sull’asfalto in un luogo qualunque, un posto che solo occasionalmente, e per colpa di una distanza ancora da coprire, non è qui.
Forse è per questo che, ogni tanto, mi accade di non essere molto di compagnia: perché i posti, nel Mondo, sono tanti, e molti e altri sono anche i luoghi, ma io sono ancora irrimediabilmente “qui”.
Non mi dispiacerebbe affatto che qualcuno mi venisse a prendere, per portarmi via.
Anzi, mi farebbe molto, molto piacere.
Paolo Conte - Sparring Partner (live)
giovedì 4 marzo 2010
Sparring partner
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