sabato 27 marzo 2010

Impegnarsi: per che cosa?

intervento di Rosa Elisa Giangoia al convegno faentino Scrittura e impegno



Per mettere a fuoco la questione del rapporto tra letteratura ed impegno, penso sia utile uno sguardo retrospettivo sulla storia della nostra produzione letteraria in cui l’oscillazione tra l’arte per l’arte e l’arte per la vita è stata costante. La letteratura italiana si apre con la Commedia di Dante, autore impegnato al massimo in un intreccio consequenziale tra politica, morale e teologia con un obiettivo altissimo nei confronti dei suoi lettori, quello cioè di orientarli e guidarli sulla strada della salvezza eterna, tanto che lo studioso danese Olof Lagercrantz nel suo saggio Scrivere come Dio (Marietti, 1983), ha appunto paragonato lo scrivere di Dante a quello biblico, divinamente ispirato, in quanto entrambi finalizzati a far conseguire agli uomini la salvezza eterna. Successivamente con Petrarca la produzione letteraria si è ripiegata sul personale, privilegiando la sfera emotiva e sentimentale, anche se il poeta non ha tralasciato frecciate polemiche contro realtà negative del suo tempo, soprattutto il Papato avignonese, mentre con Boccaccio è iniziata la letteratura di intrattenimento, quello scrivere per dilettare che apre scenari completamente nuovi alla produzione letteraria. L’Umanesimo e il Rinascimento hanno visto da un lato una produzione d’impegno civile (da Bruni a Machiavelli), più legata alle realtà comunali, accanto ad un’altra di intensa elaborazione letteraria con intenti di divertimento e di evasione, da Poliziano ad Ariosto, più legata al mondo delle corti. Con la Controriforma il Tasso si è sentito obbligato ad una produzione letteraria di impegno religioso, morale e politico, contrastante con la liricità della sua natura, che gli ha determinato problemi e anche sofferenze personali. Successivamente con il Barocco e l’Arcadia abbiamo avuto quella lunga stagione di disimpegno della letteratura nei confronti della situazione storico- politica, ben stigmatizzata dal de Sanctis, che ha visto nell’opera di Giuseppe Parini un ritorno a quella coscienza, di matrice illuministica, ma innervata dalla fede cristiana, che ha riportato la realtà della vita all’interno della letteratura. Linea questa che per certi aspetti continua con il Neoclassicismo, soprattutto per il forte peso che in quegli anni hanno avuto anche in Italia la rilettura di Plutarco e la diffusione delle opere di Rousseau. Il vero rinnovamento, riguardo all’impegno in letteratura, è avvenuto con l’Illuminismo milanese dei fratelli Verri e del Beccaria, che ha trovato una sua linea di continuità nel Romanticismo milanese, in cui un recuperato cristianesimo liberale di derivazione francese si è coniugato con l’impegno civile-patriottico risorgimentale, fino a trovare la sua più compiuta espressione con l’opera poetica e narrativa del Manzoni. Esauritasi la tensione politica del Risorgimento con l’Unità d’Italia, la letteratura romantica si ripiega su quei toni languidi e sentimentali del Prati e dell’Aleardi, tanto criticati, per ritrovare un fittizio vigore, tutto letterario, con Carducci e un impegno di tipo sociologico, mutuato dal positivismo e da naturalismo francese, con Capuana e Verga. Ma a prevalere sono ben presto i toni del disimpegno estetizzante di D’Annunzio a cui si affianca ed intreccia la riappropriazione eroico-estetizzante della Storia. Anche Pascoli vive, a questo riguardo, una situazione di duplicità, da un lato ripiegato nel mondo affettivo e campestre di Myricae, dall’altro impegnato a livello civile su suggestioni dell’ideologia socialista e sull’ormai esaurita linea di un patriottismo di maniera. Dopo la breve stagione della contrapposizione tra interventisti ed astensionisti a proposito della partecipazione dell’Italia alla Prima Guerra mondiale, che vede particolarmente attivi i Futuristi, oltre naturalmente a D’Annunzio e alle riviste fiorentine, durante il Ventennio Fascista, al di là della letteratura ufficiale di appoggio al regime, alcuni narratori (Pavese, Vittoriani, Moravia) esprimono una voce critica, mentre la poesia più nuova e consapevole, l’Ermetismo, dopo aver denunciato le atrocità del conflitto mondiale, soprattutto con la voce di Ungaretti, si chiude nella torre d’avorio di una critica non militante, a parte alcune liriche di Montale, che però poco incidono nell’immediato, anche per la loro difficoltà d’interpretazione. La contrapposizione tra impegno e disimpegno del letterato diventa particolarmente viva dopo la caduta del Fascismo e la fine della Seconda Guerra Mondiale, a seguito soprattutto del diffondersi ampiamente in Italia dell’ideologia marxista, grazie anche alla pubblicazione dei Quaderni del carcere di Gramsci. In questi anni del dopoguerra l’arte si fa soprattutto impegnata politicamente e anche la critica letteraria si orienta ad una rilettura di tutta la precedente produzione, esaminata rigorosamente in questa chiave. A collocarsi decisamente su queste posizioni è soprattutto la produzione narrativa, cinematografica e pittorica, mentre la poesia, a seguito anche della presa di posizione di Montale di non voler essere “chierico né rosso né nero”, mantiene una maggiore autonomia, in cui trova posto anche un più insistente impegnarsi, soprattutto a livello di ricerca e di interrogazioni, su tematiche esistenziali, espresso con vigore da Giorgio Caproni. A infrangere questa stagione del predominante Neorealismo, in cui la produzione è fortemente segnata dall’ideologia e anche dal sostegno del PCI, interviene la Neoavanguardia che, pur collocandosi nello stesso ambito ideologico, opera però un forte rinnovamento degli strumenti espressivi, mettendo in crisi  lo stretto legame che si era venuto a creare tra l’ideologia marxista e la produzione artistica neorealista. Tra il ’60 e il ’70, anche per il vivacizzarsi dei rapporti internazionali e il maggior dinamismo di idee, la letteratura torna ad aprirsi alle sue varie intrinseche possibilità, a recuperare i filoni storici, psicologici e sentimentali, ad essere libera di impegnarsi o meno, anche in uno stesso autore: emblematico è l’itinerario narrativo di Italo Calvino, che, partito dall’impegno neorealista con i suoi primi romanzi, passa attraverso esperienze di fantasia, di fantascienza e di combinazione narrativa, fino a fare della letteratura un semplice gioco. La narrativa come combinazione e gioco, sull’esempio anche del grande successo avuto da Il nome della rosa (Bompiani, 1980) di Umberto Eco, e la poesia come pura e semplice espressione a livello verbale, con netta prevalenza del significante sul significato, diventano le caratteristiche salienti della produzione letteraria sul finire del secolo scorso. A questo punto la letteratura sembra essere arrivata alla negazione di se stessa, nel momento in cui si riduce ad essere ideologia o esperimento linguistico. A salvarla non è bastata una linea di impegno civile, più saggistico che veramente letterario, con l’intento di denunciare e criticare uno dei più vistosi fenomeni di illegalità del nostro paese, rappresentato dalla mafia, che trova voce da Leonardo Sciascia fino a Gomorra (Mondadori, 2006) di Roberto Saviano. Ora, però, entrando in questo terzo millennio, direi, che guardandoci alle spalle e ripercorrendo la nostra letteratura, confrontandola anche con quella degli altri paesi, europei ed extraeuropei, a cui molto abbiamo dato e che qualcosa ha dato anche a noi, dovremmo ripensare a questa questione dell’impegno in letteratura in termini completamente nuovi che, comunque, sono anche antichi, perché guardano alla vera natura dell’uomo e alla sua più autentica necessità d’espressione e di conoscenza. A questo punto la letteratura va salvata dai suoi intrinsechi rischi che negli ultimi decenni si sono vistosamente manifestati. L’impegno deve essere quindi rivolto alla letteratura stessa, che va preservata dal prevalere in essa dell’ideologia, del sentimentalismo e del gioco formale. Per questo l’impegno deve essere nel rapporto e nel confronto con la realtà. Il testo letterario, in prosa o in poesia, deve confrontarsi con la realtà, ricrearla tramite le parole, fornendo le possibilità di comprenderla ed interpretarla. L’impegno della letteratura deve quindi essere per la verità della vita. Il che vuol anche dire che la vera letteratura va al di là di quella che può essere la casistica o la fenomenologia contingente e cronachistica delle vicende umane, in quanto l’impegno della letteratura non sta nel denunciarle e tentare di risolverle. Indubbiamente occorre anche puntare l’attenzione sul male in quanto tale, su ciò che dà dolore e sofferenza non solo all’uomo, ma al creato tutto, nei cui confronti si deve mirare ad una salvezza che deve essere cosmica, dato che appunto cosmico è il male. Essendo poi il male radicale la morte, la salvezza, che passa anche attraverso la letteratura, deve liberare dalla morte, grazie a nuove, più ampie,  prospettive al di là del contingente. Questo vuol dire che la letteratura deve aprire un mondo davanti al lettore, facendoglielo conoscere nella sua realtà, che vuol dire nella sua esistenza. Ma stigmatizzare il male, non vuol dire escluderlo o espungerlo a livello narrativo, ma piuttosto collocarlo in un’ottica e in una prospettiva di corretta valutazione. In definitiva, la letteratura deve impegnarsi per mettere a nudo l’orrore e far risaltare la grazia e la meraviglia della vita, ponendo nella giusta collocazione la banalità che danna e l’assoluto che salva.




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