mercoledì 9 dicembre 2009

Su Il resto ( parziale ) della storia


a cura di Carla De Angelis e S. Martello,  FaraEditore, 2008

recensione di Narda Fattori


Resto sempre perplessa di fronte a libri scritti a più mani, che hanno quindi una scrittura ibrida e vagolante attorno ad un contenuto che, come in questo caso, è greve come  una montagna da spostare e invitare di volta in volta altri a salirla, ovvero ad entrare in un mondo di dolore riscattato dalla forza dell’amore e della volontà.
La storia è quell’autismo, è quella di Roberta, figlia di Carla, che amando viene riamata.
È una malattia poco nota, spesso nascosta, perché chi ne è affetto non è bello e angelico, ma insistente, intollerante, torvo.
Noi non sappiamo accettare la malattia, la temiamo come potesse contagiarci, la isoliamo perché tocca le corde più fragili della nostra esistenza, quelle corde borderline, che cacciamo nel fondo, che mascheriamo, che ammantiamo di buone parole, di compassione, di pietà.
Ma la compassione e la pietà, meglio il pietismo, sono una ferita fonda nella carne di chi vive la disabilità come soggetto e chi la vive doppiamente perché affettivamente coinvolto.
Patior, io soffro, è latinismo e quindi con-passione e soffro con te e pietà è il rispetto dovuto sempre al vinto, al debole, all’indifeso.
Ecco che l’uomo più che abile si sconcerta, si turba, non vuole vedere sentire sapere: restano i pochi che per sensibilità non possono allontanarsi perché hanno accettato dentro di sé l’imperfezione di cui sono portatori.
La mia diffidenza è andata dileguandosi pagina dopo pagina, accogliendo sul palmo il dolore di questa madre che non potrà mai raccontare a sua figlia la sua infanzia, gli avi prossimi, le vesti e le usanze, tutto ridotto ad una quotidianità che sommerge e ma non tarpa le ali.
E Carla, con piena dignità, parla della figlia e delle latitanze delle istituzioni che lasciano indietro questi ultimi figli: non sono neppure un voto in più alle elezioni.
Ma il breve saggio di Stefano Martello sa ben cogliere i punti di frizione e le contraddizioni che si agitano all’interno del problema e la paura del singolo che non può essere immune da situazioni come quelle di Carla e Roberta e dei tanti ai quali il libro intende dare voce.
Noi non sappiamo quanto strazio si accompagni alla consapevolezza di lasciare un figlio inabile a sé stesso, un figlio che anziché costituirsi come risorsa sociale, famigliare, affettiva, si pone solo come difficoltà e devi imaparare ad amare questa difficoltà mentre un tarlo rode.
“Te ne devi occupare, l’hai messo al mondo!”
I figli sono invece del mondo, dice Hikmet, ma, che vuoi, è un altro poeta; però è vero che se io che ho un normale figlio che lavora e contribuisce all’arricchimento della società, devo chiedergli di pensare a questi fratelli e sorelle più sfortunati, è un imperativo etico. La vita che con lui è stata buona deve far fluire questa bontà verso chi non la può dire, vivere esprimere.
È vero che qua e là il libro la urla questa necessità, la grida per sopravvivenza, ma offre anche scorci di grande poesia, poesia in versi e poesia in prosa, perché fortunatamente non tutti gli habilis habilis sono pietre mobili che si spostano quando infastidite.
C’è chi ha cuore e anima, c’è chi non ha paura e si intreccia al queste voci per rendere più udibile le richieste, più vive le presenze.

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