martedì 17 novembre 2009

Il dispetto



– Degli stornelli in so una cavagnola,
che j’ho imparà a andare a la scola.

Degli stornelli in so una cavagnen’na,
che j’ho imparà a andare a dotren’na.

Ancor prima che l’ultima nota del canto si spegnesse, Bajardo, con il cuore che gli batteva forte per l’affanno, riaprì gli occhi e scrutò rapidamente il dirupo che precipitava ai suoi piedi, di balza in balza fino al nastro luccicante del fiume che, un tempo, segnava il confine del Ducato.
Anche stavolta, però, la sua voce, dopo aver vibrato nell’aria, si era dispersa per la valle senza lasciare traccia. Un battito di ciglia e le balze ai suoi piedi erano già tornate tranquille, placido il fiume sul fondo e immoto il caseggiato dall’altra parte, velato dalla lontananza e a malapena riconoscibile sui toni scuri della pendice.
Fino all’anno prima, con la bella stagione era toccato a lui spingere le bestie al pascolo fin lassù. Tranquille se le lasciava alle spalle e risaliva alla pietraia che chiudeva l’orizzonte. Raggiungeva una fenditura nella chiostra delle rocce, si accoccolava sui talloni e, frenandosi come poteva tra pietra, terra e radici pencolanti, si lasciava scivolare su un ripiano che sporgeva sulla voragine. Là, solo tra cielo e fiume, per anni aveva sfogato senza imbarazzo la sua bella voce ricantando gli inni ascoltati in chiesa, i canti origliati all’osteria, provando e riprovando parole nuove sulle vecchie melodie.
Un frullo d’ali che all’improvviso si alzò verticale da un cespuglio lo fece trasalire. Bajardo lo seguì finché si perse nel cielo, poi tornò a contemplare il filo di fumo che saliva lento dai tetti lontani. Chissà se da là in fondo lo potevano sentire. A dir la verità non ci aveva mai pensato, ma tanto questa era l’ultima volta. Gonfiò il petto, che dall’anno prima si era fatto grande e potente, portò le mani aperte alle guance e cantò forte come non aveva mai cantato:

Quando c’avevo le braghette corte
cantavo con la voce di bambino,
piacevo in chiesa alle donnette smorte
e fuori mi dicevan: che carino!


Adesso che la braga s’è allungata
e il petto pare quello d’un torello,
non passa notte senza serenata
e tutte quante dicono: che bello!

Diede un’ultima occhiata al fumo che continuava ad alzarsi e a disperdersi pigro contro la macchia, tirò su con il naso e si girò per andarsene. Fino all’anno prima si sarebbe vergognato se qualcuno lo avesse sentito o, peggio, gli avesse risposto; stavolta, ne fu quasi infastidito. Afferrò con forza la grossa radice sopra la testa e si tirò su, infilandosi a fatica tra terra e pietra nell’anfratto che in soli pochi mesi era diventato troppo stretto. Stava sbucando sul pascolo, quando lo raggiunse un fruscìo lontano che subito gli sembrò un’alito di vento, oppure il gorgoglìo di una piena remota e poi crebbe modulandosi in una voce bassa di donna:

– …cantava come un angelo del cielo
e adesso canta come una cornacchia,
sembrava un dolce fiore sullo stelo
e adesso pare spino nella macchia…

Bajardo, immobile con la schiena alla vallata, sentì il rossore che gli montava al viso e ogni verso gli bruciò sulle guance come altrettanti segni lasciati da uno  schiaffo.

*  *  *
Un ponte non c’era mai stato. O forse sì, ma tanto tempo prima che ormai era quasi del tutto dimenticato. Certe estati, quando i sassi del greto inghiottivano il fiume e per settimane intere riverberavano al sole, aveva sentito dire che tra le pozze verdastre e i grovigli di tronchi spuntavano conglomerati di ciottoli bruni, forse i resti degli antichi piloni. Poi la frana si era portata via la strada e, con la strada, la possibilità di scendere al fiume, lasciando il grande sbrego chiaro sul fianco della montagna. Ma era accaduto tanti anni prima, forse quando il fiume segnava ancora il confine del Ducato.
– E cosa c’è di là? – chiese ancora Bajardo scaricando sull’asse il secchio di calcina che aveva faticosamente sollevato fino al petto. Ferraù, accovacciato sul ponteggio, era intento a scegliere i sassi dal mucchio.
– E che vuoi che ci sia – sbuffò tra i baffi grigi – c’è della gran miseria, peggio che qui, e della gente strana.
– Strana?
– Strana sì. Si sforzano di parlare come noi cristiani ma non ce la fanno: pensa che la capra la chiamano cräva! E poi sono piccoli, storti e con poca voglia di lavorare.
Ferraù esaminava un sasso rigirandoselo tra le mani brunite dal sole e Bajardo aveva appoggiato i gomiti sull’asse. Esitò, prima di fare l’altra domanda:
– …e le donne?
– Le donne? Ah, le donne no, sono alte e belle, comandano loro e, soprattutto, sono molto meno difficili che di qua. Ti ho detto che è gente strana, prova a chiederlo al commerciante di maiali, che lui va e viene… Ma, ma che fai lì impalato, garzone, al lavoro!

*  *  *
–  Ma tu senti questo! – rise Ruggieri, il commerciante dei maiali, guardandosi attorno per assicurarsi di avere un bel gruppo di ascoltatori – Certo che ci vado di là. Di affari pochini, perché di soldi ne girano pochi, ma in compenso…
Erano sul sagrato della chiesa e Ruggieri si faceva trovare lì una domenica ogni due o tre mesi per incontrare gli uomini e trattare qualche affare. Strizzò l’occhio a Bajardo, che intanto era avvampato, ma poi si era rivolto agli uomini dimenticandosi completamente di lui.
Dunque – raccontò – l’anno prima alla fiera di San Vito dell’Acqualenza, il paesone dagli antichi palazzi allo sbocco della valle nella pianura, viene avvicinato da uno di quelli di là, che gli propone un certo affare. Lui è restìo, perché quelli sono dei bagoloni e abitano tutti a casa del diavolo e si rischia, come è già successo, di fare tanta strada per niente. Così si lasciano con un appuntamento vago, ma qualche mese dopo, siccome ha un affare nei paraggi, decide di andare a vedere se riesce a concludere qualcosa anche con quell’altro là. Paraggi per modo di dire, perché per arrivare a casa del bifolco ci mette mezza giornata su e giù per delle rive in mezzo ai boschi. Finalmente raggiunge un caseggiato cadente. Ci sono i maiali che grufolano davanti, ma non si vede nessuno. Allora chiama e sulla porta compare una mora.
“Oh, bella sposa, c’è vostro marito?”
“Quello? Manca da due giorni, sarà ubriaco da qualche parte”.
“E come si fa a lasciare da sola una così bella sposa? Peccato, avevamo un affare da trattare, ma se non c’è…”
Lei si rattrista e s’asciuga l’angolo degli occhi.
“Non vorrete lasciarmi sola anche voi?” sospira. Lo invita a entrare, lo fa sedere in cucina e gli mette davanti un fiasco e un bicchiere.
“Servitevi” gli dice “io intanto devo sistemare una cosa”.
Mentre lei si gira e traffica nella credenza, Ruggieri contempla soddisfatto i suoi fianchi pieni e rotondi. “Chissà come va a finire!”, pensa scuotendo lievemente la testa. Ridacchia, afferra il fiasco, mentre lo inclina le dà un ultima occhiata e intravede che lei, con le mani dietro la schiena, traffica con le cocche del grembiule, ma non ci fa caso più di tanto e sta attento solo a riempirsi il bicchiere. Un improvviso fruscìo proprio davanti a lui gli fa rialzare la testa e, com’è come non è, se la vede lì davanti tutta spogliata e per la sorpresa si rovescia il vino sulle brache.
Dopo – e il commerciante non scese in molti particolari, lasciando tutto alla complice immaginazione degli ascoltatori – lei gli lava le brache e intanto che asciugano gli prepara un pranzetto con i fiocchi e non avrebbe più voluto lasciarlo andar via.
Il commerciante dei maiali neri raccontò questa storia tra l’ilarità dei presenti e le occhiatacce delle donne che nell’uscire da messa dovevano passare vicino al crocchio, una domenica della metà di settembre. Fino all’arrivo della brutta stagione ci fu molto da fare e Ferraù non mollò Bajardo per un attimo; poi, con la fine dell’autunno, andarono in giro per i casolari ad ammazzare e lavorare i maiali e per mesi Bajardo non potè più salire ai pascoli alti.

*  *  *
La primavera Bajardo entrò a far parte dei maggerini e recitò una piccola parte nell’“Amadigi di Gaula”, che veniva rappresentato quell’anno. Doveva cantare solo pochi versi, ma fece comunque la sua figura, a cominciare dalla sfilata lungo la via del paese fino alla conca naturale che fungeva da palcoscenico, col bosco e i monti a far da scenografia. Bajardo era diventato ancora più robusto dell’anno prima e marciò impettito, con il torace che riempiva bene la corazza dorata sul velluto nero del costume, le spalline, lo scudo dalla mezza luna dipinta all’avambraccio, la sciabola ricurva al fianco e l’elmo dal pennacchio verde che lo faceva sembrare ancora più alto. Anche la voce era diventata più profonda e, quando entrò in scena puntando la sciabola verso il cielo e cantò le sue quartine di sfida ad Amadigi, un autentico brivido percorse gli spettatori. Tre volte urtarono gli scudi nella finzione dell’assalto e tre volte s’incrociarono le spade, poi Bajardo cadde tra gli applausi e giacque nell’erba per un po’, mentre attorno a lui la rappresentazione continuava. Quando ritenne che fosse il momento opportuno, rotolò fuori dal cerchio che delimitava la scena. Gattonò fino ai vicini castagni, si tirò su con la schiena contro un grande tronco e si levò l’elmo con i pennacchi. Per quel giorno la sua parte era finita e chiuse gli occhi soddisfatto, cullato dal canto del maggio che gli arrivava attutito. A un lieve tocco sulla spalla sussultò: Metilda, china su di lui, gli sorrideva. Bajardo cercò di toccarle il viso, ma lei si ritrasse e il sole lo abbagliò. Adesso lei era in piedi a pochi passi:
– Canterai per me? – gli chiese ridendo.
Bajardo guardò il cielo, si alzò, la raggiunse e la prese per mano:
– Vieni!

*  *  *
– Uffa, sono stanca! C’è ancora molto?
– No, è qui vicino.
Giunti alla fine del pascolo, dove iniziava la pietraia, le lasciò la mano e andò avanti. Esitò un attimo, prima di individuare il varco giusto tra le rocce. Vi s’infilò a fatica, si sedette per terra incurante del costume e si lasciò scivolare per un tratto, poi afferrò una grossa radice e si girò verso Metilda, che dall’alto lo guardava perplessa.
– Vieni! – le sorrise tendendole la mano e lei, riluttante, raccolse la gonna e lo seguì. Giunti sulla sporgenza, lei si accovacciò contro la roccia tenendosi a distanza dal dirupo, mentre lui, in piedi sul ciglio, abbracciava soddisfatto la valle che gli s’apriva dinnanzi, il fiume sul fondo, le case immerse nella boscaglia dell’altro versante. Chissà perché, se le ricordava molto più lontane.

– Avevi promesso che avresti cantato per me.
Metilda aveva il muso, era impaurita e guardava fisso davanti a sé. Bajardo la raggiunse, le si inginocchiò accanto e inspirò profondamente.

– Come sei bella il lunedì mattina,
più bella ancora il martedì seguente;
mercoledì mi sembri una regina
e il giovedì la stella rilucente.
Al venerdì la rosa in fra la spina
e al sabato ‘l garofano pendente;
la domenica poi, quando t’adorni,
tu sei più bella ancor degli altri giorni!

– Chissà a quante l’hai cantata.
Bajardo inspirò ancora e riattaccò:

– Se vuoi sapere, amor, quando ti lascio:
quando la terra non farà più frutto,
gli uccelli voleran senza le ali
e i pesci nuoteran sopra l’asciutto.
Allora, amor, ci lascerem del tutto!

Adesso Metilda stava seduta abbracciandosi le gambe, la guancia appoggiata alle ginocchia, e lo guardava seria. Bajardo notò che una ciocca di capelli le era scivolata dalla fronte sfiorandole le labbra e allungò la mano per scostarla.
Fu allora che arrivò il canto dall’altra parte del fiume:

– Giovanottino dal pennacchio verde,
alla tua dama gli porti le sorbe,
alla tua dama gli porti le sorbe,
e falle maturar che sono acerbe!

Metilda soffocò un grido di sorpresa e fuggì inerpicandosi lesta su per l’anfratto.
– Metilda! – la richiamò Bajardo e fece per seguirla, ma poi si lasciò ricadere e, pieno di rabbia, si girò verso la valle. Tutto era immobile, come sempre, il dirupo, il fiume, le case dall’altra parte. Gonfiò il petto più che potè e cantò con stizza:

– Non canto perché contento sia:
canto di rabbia e di malinconia!
e di malinconia e di rabbia nera
e per colpa tua brutta ligera!

      Sono l’Ancilla e sto di qua dal fiume,
lingua che taglia se ve n’è ragione:
devi mettere su ben altre piume,
prima di adoperare il pungiglione!

Bajardo arrossì e non osò rispondere. S’inerpicò appiattendosi il più possibile contro la roccia e quando sbucò sul pascolo, vide in lontananza Metilda che correva lungo la china. Si sedette sull’erba e, trattenendo le lacrime, la guardò farsi sempre più piccina, senza nessuna voglia di chiamarla né di raggiungerla.

*  *  *
L’unica maniera per andare di là è quella di discendere fino a San Vito, dove le colline spianano, passare il ponte sul fiume e risalire la valle dall’altra parte. Ma poi, a che scopo? di là si guarda di qua come di qua si guarda di là e la vita è grama uguale da tutte e due le parti. “Lo so io”, pensava cupo Bajardo. Intanto lavorava a testa bassa e diventava sempre più grosso e robusto.
Meditò per due anni la ripicca e, quando pensò che fosse arrivato il momento, salì al pascolo alto, strisciò a fatica per l’anfratto e balzò sul ripiano. Si guardò bene attorno, con la testa alta, gonfiò i muscoli e attaccò:

– Se ieri di cornacchia avevo il canto,
tre anni non son stati senza frutto:
or di gorgheggi la vallata incanto,
e ancor più canta l’usignol di sotto.

Per completare l’opera, si calò le brache restando così, immobile, a sfidare la valle. Dopo qualche minuto di silenzio si sentì impacciato e si affannò per rivestirsi. Mentre armeggiava per ricomporsi, arrivò la risposta:

      Ancor tant’anni avrai da gorgheggiare,
o rosignol, per ferirmi l’orecchia,
ché non è solo il fiume a separare,
è che tu sei garzon, io son più vecchia.

Son coppie che fan rider la vallata:
il garzon e la donna navigata.
Cerca tra quelle più vicine a te,
che ben presto ti scorderai di me.

Dio sa in quanti rifugi della sua vallata poteva ormai cercare, e forse trovare, Bajardo. Insistiti incroci di sguardi sfuggenti, labbra che si piegavano appena in sorrisi discreti, l’incedere fiero per la strada delle giovani spose e le camminate impacciate delle ragazze, erano un’unica, indistinta, promessa. Il dischiudersi di un universo segreto, da cui però, si sprigionavano anche i suoni di voci che sussurravano, parlavano, gridavano, cantavano: voci dolci, voci stridule, profonde, squillanti, flebili, ma nessuna rassomigliava a quella che l’aveva raggiunto  attraverso la vallata e continuava a risuonargli nella testa.
Intanto era passato un altro anno e la peluria rada sul labbro aveva preso l’aspetto di un vero paio di baffi. Bajardo se li osservò attentamente nella specchiera del comò. S’era messo il vestito buono e finì di abbottonarsi sotto il collo la camicia bianca. Era pronto.
Uscì di casa dopo l’una, quando era sicuro che non ci fosse nessuno che lo potesse vedere salire ai pascoli vestito in quel modo. Sudò sotto il sole alto e, quando fu arrivato alla pietraia, s’infilò con cautela nel pertugio tra le rocce e si lasciò cadere pesantemente sul ripiano. Passò più volte le mani sull’abito per ripulirlo e lisciarlo e, quando gli sembrò di essere presentabile, si mise ritto sul ciglio e, compunto, cantò:

– L'acqua la va dove la terra pende
e l'uomo va dove l’è innamorato.
Quando la donna sa chi la pretende
se lei lo vuole lui resta legato.

Un anno, se il garzon è maturato,
fa la diversa età meno evidente.
Con tutto il tempo che adesso è passato,
ora son pronto ad affrontar la gente.

Restò così, con le braccia rigide lungo i fianchi e la testa bassa, ad ascoltare la sua voce che riecheggiava per la valle. Quando anche l’ultima eco si disperse, era ancora lì immobile, intenzionato a non andarsene fino a che non fosse arrivata una risposta. Una qualsiasi. E alla fine la risposta arrivò:

– Fior di gramigna,
sarà arrivata anche la tua stagione,
prima contenta il re, poi la regina.

Bajardo ascoltò compunto, poi accennò a un inchino, si girò e s’infilò su per l’anfratto. Riemerso sul pascolo, si rialzò in piedi e, mentre indugiava a scuotersi la polvere dall’abito buono, pensava al significato quelle parole.

*  *  *
Quasi quattro anni ci erano voluti, per contentare il re.
Quattro anni lontano da casa significano già una certa esperienza del mondo e, appena balzato giù dal treno, Bajardo si era fermato nella prima osteria sul viale della stazione. Ridendo e scherzando con amici occasionali, aveva brindato più volte alla fine della naja, poi si era gettato in spalla la sacca militare e aveva ripreso allegro il cammino. Fischiettando, aveva attraversato la città e mentre tra i fabbricati della periferia si andava aprendo la campagna, gli erano perfino venute le lacrime agli occhi nel vedere i suoi monti chiudere l’orizzonte. Lungo la strada lo aveva caricato un carrettiere di poche parole. Giunto a San Vito, Bajardo era saltato giù dal cassone, aveva ringraziato con un cenno ed era entrato in paese di buon passo. Era allegro e gagliardo e, nonostante l’aria fredda, teneva la giubba aperta sul petto, mentre la nappa del fez amaranto gli batteva ritmicamente le spalle sulla cadenza del passo.
Di mattina presto, per strada c’erano solo le donne e quando lui passava ne calamitava gli sguardi e, nel guardarlo, i loro occhi sembrava che ridessero. Una giovane con una cesta di panni sul fianco si era fermata all’ombra di un’androne e continuava a sorridergli reclinando la testa. Bajardo la guardava senza rallentare la marcia e nel passare le soffiò un bacio. “Sarà per un’altra volta” sussurrò.
Quattro anni da soldato gli avevano aperto gli occhi su molte cose e, forse, in capo all’anno, avrebbe sposato. Ma, prima, aveva un’altra faccenda da sbrigare.

*  *  *
Attraversato il paese, anziché tirare diritto verso casa, tenne la destra per la strada al piede delle colline, fece risuonare al passo di marcia il selciato del ponte sul fiume dell’antico confine e, quando arrivò al bivio, imboccò la strada che risaliva il versante sinistro della valle.
Salì di buon passo, canticchiando, senza fermarsi neppure per mangiare, e a mezzogiorno aveva già fatto parecchia strada. Quando il paesaggio chiazzato di neve si apriva sulla valle, Bajardo vedeva di là i suoi luoghi e stentava a riconoscerli e non sapeva spiegarsi se era il diverso punto di vista a renderglieli strani o solo il tempo che era stato lontano. Nell’attraversare i pochi gruppi di casupole lungo la strada, aveva anche cercato di chiedere qualche informazione, ma perfino la parlata della gente gli sembrava strana e poco comprensibile.
Quando finalmente riuscì a distinguere sull’altro versante l’ampio squarcio della frana, il cuore prese a battergli più forte. Andò avanti con maggiore attenzione e, allorché incrociò una mulattiera acciottolata che scendeva nel bosco, la imboccò senza esitare. Continuò a scendere per una buona mezz’ora, tenendo sempre d’occhio il dirupo oltre il fiume che, illuminato dal sole ormai alle sue spalle, andava e veniva tra i rami.
D’improvviso, girata una curva, si trovò dinnanzi alle case. Tutto sembrava abbandonato e Bajardo si aggirò tra mura invase dai rovi, guardando deluso i neri vani delle finestre che si aprivano su stanze disabitate. Solo dopo un po’ s’accorse delle galline che razzolavano tra le pietre.
“Allora ci sei”, mormorò.

*  *  *
Forse l’Ancilla non era libera e aveva un uomo, un marito o dei fratelli, ma lui era giovane e gagliardo, era stato quattro anni soldato, teneva una baionetta nascosta nella sacca e non aveva paura di niente e di nessuno.
Andò avanti deciso a passo di marcia tra galline che scappavano e schizzi di fango sollevati dagli scarponi. Si diresse verso un edificio che gli sembrava messo meno peggio degli altri: una scala di pietra sbrecciata saliva al loggiato del primo piano, la porta in cima alla scala pareva chiusa e socchiuse erano le persiane delle finestre.
Bajardo si piazzò a gambe larghe in mezzo all’aia, respirò a pieni polmoni e un lieve odore di fumo gli pizzicò le narici. Guardò in alto e ne vide il filo che saliva oltre il tetto. Allora lasciò cadere la sacca e con una mano si sistemò il fez ben indietro sulla testa. in quattro anni aveva messo su una voce baritonale ancora più bella di prima.

– Quattr’anni fan più di mille giorni,
il re alla fine è stato contento,
nessuna si è lagnata nei dintorni,
per la regina è venuto il momento.

Nessuna risposta. Ma lui, che non aveva paura di niente e di nessuno, avanzò di qualche passo e si fermò di nuovo a gambe larghe, proprio ai piedi della scala.

– Tosa, bella tosa,
al figh al n’è la nosa;
e la nosa la n’è ‘l figh,
e i parent i n’én amigh;
e i amigh i n’én parent,
e la terra la n’è ‘l forment;
e ‘l forment al n’è la terra,
e la päsa la n’è la guerra;
e la guerra la n’è la päsa,
e la stoppa la n’è ‘l bambäs;
e ‘l bambäs al n’è la stoppa…

Ancora nulla, ma mentre metteva il piede sul primo gradino colse un movimento appena percettibile tra le persiane socchiuse di una finestra. Gli scappò un sorriso e cominciò a salire senza fretta:

– …e ‘l al fus al n’è la rocca;
e la rocca la n’è al fus;
e la fnestra la n’è ‘l bus
e al bus al n’è la fnestra;
e ‘l pan al n’è la mnestra,
e la mnestra la n’è al pan;
e l’acqua la n’è al pantan,
e ‘l pantan al n’è l’acqua;
e ‘l manzol al n’è la vaca,
e la vaca la n’è al manzol;
e la tvaja la n’è al tvajol,
e ‘l tvajol al n’è la tvaja;
s’l’è vestida la n’é in pataja,
s’l’é in pataja la n’è vestida…

Gradino per gradino, era arrivato davanti alla porta. La esaminò all’istante: anche se fosse stata serrata non avrebbe potuto resistergli.

– …e la fola l’è bele fnida!

*  *  *
Prima che potesse toccarla, la porta si schiuse e si affacciò una ragazzina dagli occhi grandi sul viso sparuto. Era vestita da un camicione lacero, che le lasciava scoperti i piedi, scalzi e sporchi.
Improvisamente, tutta la baldanza di Bajardo si esaurì.
– È qui l’Ancilla? – le chiese esitante. Non sapeva cos’altro dire.
La ragazzina sgranò ancora di più gli occhi.
– Non c’è – gli rispose con un filo di voce, ritraendosi dietro lo stipite.
Bajardo allungò la mano e fece una leggera pressione sulla porta, la ragazzina si scostò e dall’esterno la lama di luce si allargò sul pavimento del corridoio. Dalla penombra gli arrivava un mormorio sommesso, ma subito non vide che delle ombre confuse. Quando si abituò alla luce fioca, riuscì a distinguere la sagoma di tre donne vestite di nero, due sedute su una panca e la terza accanto in piedi. Non riusciva a vederne bene i volti, reclinati sul petto, e nel chiaroscuro risaltava solo il candore di una mano che, abbandonata nel grembo, sgranava la corona di un rosario.
Bajardo esitava sulla soglia. Allora, quella in piedi alzò il viso e gli fece cenno di stare fermo lì dov’era, poi girò attorno alla panca e gli venne incontro. Pensava che fosse una vecchia, e invece era una donna ancora giovane, dalla pelle bianca e delicata. Lo scialle lasciava scoperta, in cima alla fronte alta, l’attaccatura dei capelli corvini, separata da una scriminatura candida. Quando gli fu vicina, riabbassò il capo e si strinse ancora di più lo scialle sul petto.
– Seguimi – gli disse senza fermarsi e Bajardo si fece da parte per lasciarla passare.
La seguì giù per le scale, attraverso il cortile, ripercorse dietro di lei un tratto della mulattiera, le tenne dietro lungo un sentiero a mezza costa che imboccò a un certo punto. La donna camminava spedita senza dire una parola, sempre stretta nello scialle. Bajardo, che da un po’ aveva nelle orecchie solo il trapestìo delle foglie secche e negli occhi il dondolìo della figura fasciata di scuro che lo precedeva, a poco a poco riprendeva la sicurezza con cui era prima disceso.
– Sei tu l’Ancilla? – le chiedeva, ma quella non rispondeva e continuava a camminare senza voltarsi.

*  *  *
Giunsero davanti a un piccolo cimitero. La donna aprì il cancelletto e, segnandosi, entrò. Finalmente, si fermò davanti a una tomba. Bajardo le si affiancò. Sulla lapide c’erano scritte poche parole e tra esse riuscì a compitare solo il nome di Ancilla.
  – La nonna è morta quest’inverno e ci ha lasciate sole. Prima di morire ci ha fatto promettere che se fosse arrivato un soldato a cercarla, di portarlo fin quassù, perché lei non ha mai voluto lasciare debiti con nessuno.
Bajardo si girò verso la donna, che continuava a guardare fissa la tomba.
– Ma era una … vecchia! – esclamò Bajardo. La donna adesso si voltò e lo raggelò con un’occhiata. Bajardo, vergognandosi, tornò a fissare la lapide, senza sapere più cosa fare o dire. Sentiva i suoi occhi addosso e rapidamente si tolse il fez stropicciandolo nella mano, si fece il segno della croce e cominciò a mormorare tra sé una preghiera. Quando ebbe finito, la donna non c’era più e il sole stava ormai calando.
Mah! In fondo non c’era nulla da rammaricarsi: tutti avevano mantenuto le loro promesse ed era finita come doveva andare a finire.
Diede un ultimo sguardo alla tomba, si rimise il fez in testa e girò sui tacchi come al dietro–front. Superò il cancelletto del cimitero senza curarsi di chiuderlo e s’incamminò di buona lena lungo il sentiero. Faceva fresco, ma lui non ci badava e la nappa gli batteva ritmicamente le spalle. Al paese c’era già chi l’aspettava; prima, però, doveva ritornare indietro a riprendersi la sacca che aveva abbandonato nell’aia. Poi, era comunque tardi per rimettersi in cammino e forse avrebbe passato la notte nel fienile laggiù. Forse la nipote dalla pelle candida aveva ereditato la bella voce della nonna. Chissà. Bajardo accelerò il passo, gonfiò i polmoni e prese a cantare con quanta voce aveva in corpo:

– Degli stornelli in so una cavagnola…





LE ORE CANTATE

Quando si sente il bisogno di dare troppe spiegazioni c’è qualcosa “che strusa”, come si dice dalle mie parti: quello che deve essere troppo spiegato spesso non vale neppure la pena di raccontarlo. Questa volta, però, una piccola eccezione vorrei farla, se non altro in omaggio alla nostra memoria troppo corta: pochi anni – due, tre decenni – un paio di generazioni e puff! quelli che sono stati dei comuni modi di vivere, esprimersi e comunicare (non sto neppure a scomodare la parola “cultura”), svaniscono nel nulla e possono tutt’al più interessare alcuni ricercatori, magari un po’ eccentrici.
Proviamo, invece, a immaginare la vita della gente – la nostra stessa vita – in una comunità rurale senza radio, televisione, cinema, dischi, telefono (in pratica, priva della nostra colonna sonora quotidiana) e per di più analfabeta (quindi senza possibilità di accedere alla lettura che, se ci pensiamo bene, rappresenta un’altra fetta importante del nostro rapporto con il mondo), come poteva essere centoventi, centotrenta anni fa quella dell’Appennino emiliano, a due passi dal versante toscano, in cui è ambientato il racconto. Tutta la comunicazione poteva avvenire solo a portata di voce, attraverso il suono “in diretta” della parola, parlata o cantata.
La parola parlata per la comunicazione “seria” e pratica, nel lavoro, negli affari e anche nell’amore, quando questo era ormai ufficializzato di fronte alla comunità. La parola cantata invece era il colpo d’ala dello scherzo, della satira, della schermaglia amorosa, dell’emozione, della solennità. Nella società contadina si cantava e si cantava parecchio, durante la giornata: si cantava per accompagnare il lavoro, per passare le serate, per “duellare” per voce ed arguzia su contrasti più o meno improvvisati, per raccontare storie e divulgare notizie (ma questa era già una specie di professione). Si cantava in forma privata (o quasi) per comunicare sentimenti ed emozioni che altrimenti non sarebbe stato lecito esprimere direttamente: “a rispetto” si cantava il corteggiamento e la bellezza, “a dispetto” si canzonava, si scherniva, a volte si odiava. Il canto assumeva una dimensione pubblica e solenne che coinvolgeva l’intera comunità nelle rappresentazioni sacre in chiesa e sui sagrati e nelle ottave cavalleresche dei maggi epici cantati ai margini dei paesi (a questo proposito, merita una visita il sito www.costabona.it/maggio.htm).
Se le rappresentazioni sacre e i maggi si basavano su un testo “colto” scritto da qualche “letterato” locale (il prete, il maestro), il canto privato e di intrattenimento era affidato esclusivamente alla capacità di ricordare e all’invenzione del singolo cantore, che ricantava, deformava e reinventava secondo le capacità, l’estro e la necessità del momento i versi sedimentati nella memoria.
Ma mi sto dilungando troppo. Faccio notare solo il particolare “bilinguismo” che vigeva in queste comunità: la gente parlava e si comprendeva solo nel proprio dialetto, ma spesso cantava e sentiva cantare in puro “Toscano”, che allora era ancora una delle mille lingue d’Italia e solo più tardi sarebbe diventato il calco della Lingua italiana. Se fosse stato un film, forse avrei usato i sottotitoli, cosa che non è evidentemente così facile in un racconto: così i dialoghi sono stati “doppiati” in italiano corrente; ma i canti no, i canti li ho riportati così come sono stati raccolti negli anni ’50 e ’60 – i primi su un registratore Geloso a filo – dal Maestro Giorgio Branchi nell’Appennino di Parma: in questa raccolta, accanto ai versi in dialetto spiccano i rispetti in “Toscano”, a mio avviso assai belli (e tali dovevano sembrare anche ai cantori, se li ricantavano così come li avevano ascoltati, senza adattamenti). Più frequente ancora è la contaminazione, con la deformazione e l’innesto di forme dialettali emiliane (sarebbe meglio dire “montanare”) su una traccia originale che proveniva da poco oltre il vicino crinale appenninico.
In questo ambiente si muovono Bajardo e gli altri personaggi del racconto.









“Armando Conti, nato nel 1959, vive nella provincia di Parma, dove svolge l’attività di geologo. Ha pubblicato articoli scientifici e lavori sulle tradizioni e la cultura locale”. Così era scritto sul risvolto di copertina di Stati di nebbia e altri racconti, pubblicato da Fara nel gennaio 2005. Da allora non è cambiato molto, oltre al fatto non irrilevante che ha A.C. quasi cinque anni in più.

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