lunedì 7 luglio 2008
Su Anno Santo 1975 di Nicola Di Paolo
Recensione di Oreste Bonvicini (scheda del libro qui)
Se qualcuno volesse interrogare questo viaggio per scoprire tracce dello spirito che animò Sigerico intorno all’anno Mille e diede forma e vita a quella che poi si denominò via Francigena, ha sbagliato indirizzo. Nel 1975 tutto ciò non era nemmeno lontanamente reperibile. Non ostelli, né punti sosta, né percorsi segnalati, né impronte sui crinali dell’ Appennino.
Sarà dunque per l’età non più verde, per il comune amore per la Val d’Ayas, ma soprattutto per il fatto di essere coscritti di un 1958 che ancora evoca anni di speranza e di un buon futuro che oggi sui volti dei nostri figli non riconosciamo in tratti altrettanto vivi e accesi, che questo libro mi ha portato via, durante una lettura rapida e avida, scritto apparentemente con il passo ardente del pane dei verdi anni di Böll, scevro da quel viaggiare con la mente rivolta alla letteratura o sulle tracce del passato a cui personalmente mi sento connaturato, bensì badando alla schiettezza del racconto, come un novellare dinanzi ad un pubblico di amici, nell’incertezza talora dei ricordi, dei volti conosciuti e subito lasciati, sul tavolo una bottiglia di vino mentre una fisarmonica che vibra in sottofondo…
Di quel tempo rivedo come in un sogno il Monte Penice con le sue antenne rivolte alle regioni settentrionali, i canali della tivù allora in b/n che nutriva tutto il nostro immaginario, gli sport e gli idoli degli anni Settanta, con tutta l’illusione di un’etica sportiva in cui specchiarsi, i gettoni del telefono pubblico, nostro unico e talvolta labile, strumento di contatto.
Rivedo gli anni di piombo con la legittimazione della repressione (di cui scrissi e di cui tuttora talvolta scrivo), nonché la Valle d’Ayas e gli anni delle giovanili grimpate sui versanti assolati della Falconetta, verso i laghi del Pinter, verso la testa Grigia, verso il Mezzalama, le Cime Bianche…
I passi del nostro oggi, al contrario, sono in una realtà dove più non sarebbe proponibile montare la tende in una rotonda stradale, o dormire sotto le pensiline di un distributore di benzina, o all’addiaccio in un cortile. E la solidarietà di quel 1975 forse non è più possibile in questo tempo di turismo sterilizzato (di navigatori GPS e materiali ultratecnologici) dove anche i pellegrini sono soggetti ad un cammino scientifico, studiato, mai improvvisato e incapace di avventura se non estrema, ma con tanta visibilità, come si addice ad un edonismo sfrenato, di esasperata ricerca della notorietà così come ci hanno insegnato i nostri migliori uomini di spettacolo (o di politica creativa?). E benché non sia ancora del tutto svanito il mio sogno di camminare fino in Galizia verso la tomba dell’apostolo Giacomo (raggiunta in ogni caso qualche anno fa, con altri mezzi, in un viaggio bello comunque e vario di campeggio in campeggio) sento ormai il peso di un’incertezza che ha fatto emergere il lato meno bello della nostra età, messa la prua oltre il confine convenzionale del nuovo secolo, scorgendo un confine ormai non più oltrepassabile e la sensazione di un mondo in cammino sempre più frenetico verso qualcosa che non si vede ma si presagisce, una corsa sfrenata verso il nulla che ci spaura. E si sa, scriveva il Manzoni, che “quando s’è per la strada della passione, è naturale che i più ciechi guidino” .
La forza di Di Paolo sta nel pensiero che si fa intenso e acuto con le stoccate di pagina 56, e di prepotenza ci volgiamo all’oggi, domandandoci se di questo nostro presente sapremo ricordare altro che non siano intercettazioni telefoniche, delinquenza organizzata, corruzione e sangue sulle strade…
“L’Italia cancellata delle lotte operaie degli anni 60” non è che storia, ma non per i libri di scuola e le conquiste di quel tempo sono via via svanite, abrogate, surrogate, dimenticate, con i nomi di chi lottò fino alla fine sperando di regalare a figli e nipoti un tempo diverso, migliore. O forse quello fu l’unico modello, l’unico momento lieto di un mondo non bello, ma carico di attese, di illusioni forse, speranze che hanno prodotto tracce anche se forse labili come a febbraio il sole in una primavera anticipata..
Così quelle pagine intense e dedicate all’incontro con i giovani di Santo Stefano di Magra, per altro nella mia memoria luogo dell’ultimo soggiorno estivo di Cesare Pavese, svelano una volta ancora i concetti di cui la nostra gioventù si era nutrita, e si offrono come una rivelazione che sarà costretta alla consunzione dei tempi. All’oblio infine.
Il finale del racconto poi si spegne con la delusione che tuttavia non si dipinge sui volti dei protagonisti, bensì si stempera in un viaggio senza precedenti verso luoghi fino ad allora sconosciuti, anche se il viatico dell’ufficialità viene riposto nel cassetto dei sogni infranti. Il Papa non riceverà i pellegrini, dimenticati sulla piazza di San Pietro tra tanti. Ma forse l’umiltà con cui il viaggio si era protratto rimane il segno tangibile oltre quell’ufficialità che avrebbe poi nuociuto alla semplicità dei suoi artefici, con il pericolo di divenire tramite di una notorietà e di lì un non tacitato vanto da sbandierare al ritorno. Certo oggi nessuno partirebbe senza accreditarsi di un ricevimento con onori e gran pompa, con le televisioni private, i resoconti stereotipati, le interviste...
In questo racconto di Nicola di Paolo si gode dell’immediatezza che merita un evento prima di tutto interiore, che non è diventato storia e che resterà nel cuore di chi l’ha vissuto, come archetipo che diviene perciò mito dopo che l’eroe arcano l’ha fatto suo. Forse a sua insaputa.
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