venerdì 23 novembre 2007

L’attesa

di Marco Bottoni (v. anche Con il titolo in coda)



Ascolto Mozart.

Condannato all’intelligenza quotidiana delle Cose, dei Fenomeni e delle Convenzioni, obbligato a lavorare di calcolo, di peso e di misura, mi trovo a fare i conti con la necessità di rimediare, almeno, al peggio, e di doverlo fare oggi: se no, quando?
Ogni giorno devo conoscere per poi capire e quindi agire, e se nel compito di smontare e rimontare i pezzi mi aiuta il mestiere, resta comunque e sempre la fatica di riuscire a dare, alla fine, un senso a tutto; resta la difficoltà, giunti a sera, di provare a recuperare, di ogni giornata, una valenza, un senso, un gusto.
Non sempre è facile.
Una parvenza di consolazione sta nel trovare qualcosa, in ciò che è stato delle mie ore, che sia esteticamente bello; ma accade così di rado che a volte mi sconforta l’idea che non sia possibile vivere una tale sintesi di calcolo e bellezza, di creatività e misura, di libertà e rigore.
O almeno che non sia dato a me di farlo.
Allora, ascolto Mozart, e all’improvviso trovo ciò di cui vado disperatamente in cerca: il farsi cosa una di poesia e di genio, di sogno e di realtà è lì davanti a me, miracolo reale ed esistente.
Ascolto Mozart e vivo la certezza che ciò di cui ho bisogno, l’equilibrio perfetto di regole e di libertà, esiste.

Il dolore, tu dici.
Già, il dolore.
Finché è poco, finché è piccolo e lontano, nel maneggiarlo mi aiuta il mestiere.
Cerco di non avvicinarmi troppo, di starne un po’ a distanza; se è il caso uso i guanti.
Faccio così, quando è il dolore degli altri.
Quando è il mio, non mi resta altro da fare che attraversarlo.
Come tutti.
A forza di viverci immerso, volente o nolente, distratto o cosciente, ho imparato che è inutile chiedere: “Perché il dolore?”
Una domanda così la si può porre solamente o all’Uomo o a Dio: l’Uomo non sa cosa rispondere, Dio, come risposta, ha preso la sua Croce e si è messo a soffrire con te.

Anche Ciajkovskij ascolto, nell’attesa.
Anche Bach.
Non nell’attesa di cosa, o di chi.
Non mentre sono in attesa: mentre sono l’attesa.
Non chiedermi di spiegarti cos’è l’attesa, non saprei farlo, a parole.
A immagini, forse.
L’attesa è un grosso vaso dal lungo collo stretto, e quel vaso è mio, e quel vaso sono io.
Così come sono fame rispetto al cibo e sete rispetto all’acqua, così come sono desiderio rispetto al piacere e pensiero rispetto alla Realtà delle Cose, allo stesso modo io sono attesa rispetto all’esistenza.
Nel Tempo (a volte lo misuriamo in giorni, a volte in ore; viviamo attimi e facciamo calcoli di anni, ma è sempre e solo uno, il Tempo) nel Tempo il vaso pare crescere di dimensione, come se diventasse più grande e più capace.
Ma il vero è che quasi sempre si fa solo più grosso di spessore, diventando, se mai, più greve e pesante.
A me piace quando si espande, e diventa sottile e leggero, tanto grande che potrebbe comprendere tutto, tanto esteso da perdere quasi la sua curvatura.
Mi piace quando la Vita si mette a soffiarci dentro, nel vaso, e ci fa entrare profumi e sapori nuovi, creando un vortice che spinge fuori il vecchio e il consunto, il muffito, lo stantio.
Mi piace che il respiro dell’esistenza si spinga fino in fondo a me, che arrivi fino al fondo del vaso che è in me.
Dello spazio che è di me.
Profumo, musica, pensiero, affetti ed emozioni, sapori, immagini, ricordi, qualsiasi sensazione, tutto diventa mio per quanto e in quanto si espande nello spazio del mio vaso.
Nell’attesa.
Tutto si fa più grande e più godibile quanto è più vasto lo spazio, di me, che gli lascio per essermi dentro.
Quanto più è vuoto.

C’è stato un tempo nel quale accumulavo, in me.
Non ti importi sapere cosa, non è l’elenco che conta: è il modo.
Qualsiasi cosa mi preoccupavo di possederla, di trattenerla secondo il modo dell’avere.
Un oggetto, una donna, una storia; perfino i ricordi, perfino la rappresentazione di me come persona cercavo di stivare dentro il vaso, e di tutto cercavo di accumularne il più possibile.
Di averne sempre di più.
Man mano che si riempiva di “avere”, il soffio dell’esistenza rimaneva dentro me sempre meno, al vaso rimaneva sempre meno spazio di cui “essere” ed era sempre più corto il respiro che faceva, in me, la Vita.
Non è difficile da comprendere come, continuando così, presto o tardi la misura si sarebbe colmata, come anche il più grande dei volumi, continuando ad aggiungere di che occuparlo, si sarebbe riempito, come lo spazio si sarebbe esaurito, prima o poi.
Eppure, non capivo.
Diventavo sempre più pieno e pesante, sempre più ricco di avere e meno libero di essere, sempre più rigido e immobile, eppure non capivo.
Di ogni cosa mi costava fatica liberarmi, mi sembrava di perdere qualcosa di quello che era mio, così continuavo a vivere tutto (esperienze, rapporti, conoscenza, quotidianità e persino emozioni e pensieri) secondo una modalità di accumulo.
E all’aumentare del volume di ciò che era “mio” diminuiva lo spazio a disposizione dell’esistenza di quello che ero “io”.
A scanso di fraintesi, non è che fossi un accaparratore, o un egoista: anzi.
Sono sempre stato un generoso, a chi mi è vissuto attorno non ho mai portato via né fatto mancare nulla.
Ciò di cui dico che andavo accumulando, il carico di cui riempivo la mia stiva era tutto fatto di beni destinati a me, realtà che potevano essere solo mie, di mia esclusiva pertinenza e disponibilità.
Non è il “cosa” che sbagliavo a gestire, è il “come”.

Ora, lo capisci anche tu come è andata.
Di mancanza di respiro si muore, e visto che sono ancora qui, vuol dire che non mi sono “soffocato” del tutto.
Pieno di me, saturo di cose messe male, intasato di oggetti inutili e pesanti, intossicato di “avere”, finalmente (e fortunatamente, devo dire) ho vomitato.
Male sono stato, tanto male che “a momenti muoio”, ma non sono morto.
Sono stato aiutato.
Sono stato curato.
E poi, visto che non ero morto di “avere”, ho cominciato ad “essere”.
E sono stato.

Ti assicuro che è meglio così, è meglio “essere”.
È meglio il vaso sempre vuoto.
Dentro, nel vaso vuoto, nell’attesa, arriva esattamente tutto quello che c’era prima.
Tutto, credimi.
La cultura, la conoscenza, l’esperienza, il piacere e il dolore, la buona salute e la malattia, la disponibilità di beni materiali e il livello di benessere economico.
La storia, il presente e il passato.
La realtà della vita quotidiana.
I rapporti.
Il calore degli affetti e il freddo della mancanza.
Di qualsiasi mancanza.
La memoria, la speranza.
Il pensiero.
Le idee.
C’è tutto, solo che è “messo” in modo diverso.
Non è più accumulato e stratificato.
Posseduto.
È volatile e precario, entra ed esce da me col respiro che fa, nel vuoto del mio vaso, la Vita.
È goduto e adoperato.
Respirato.
Non costituisce più “quello che è mio”, ma “quello che sono io”.
Non quello che “ho” ma quello che “è” in me.
Non posso più averlo come qualcosa di certo e sicuro, a mia completa disposizione, posso solo viverlo nell’entrare e uscire che fa, giorno dopo giorno, dal mio vaso.
Non mi è dato di possedere nulla, tutto può solo essere.
Nel grande vaso che è di me.
Nell’attesa.

Io credo che ben difficilmente tutto questo, voglio dire tutta questa “scrittura” risulterà di una qualche utilità, per te, al fine di capire; meno ancora, penso, ti servirà a comprendere.
È giusto che sia così, perché si tratta pur sempre soltanto di parole, e che le parole contribuiscano ben poco a produrre la vera conoscenza è esperienza che data da millenni.
Prova ne sia il fatto che siamo ancora qui a fare i conti con un cammello che dovrebbe passare per la cruna di un ago, e con una montagna che dovrebbe recarsi da Maometto, senza riuscire a usare le parole per fare anche solo un passo avanti nella comprensione della Realtà , nel cammino che porta ad essere compiutamente felici.
In quanto a fare capire, le parole servono molto più a chi le dice o le scrive che non a chi le ascolta o le legge.

Allora, niente parole; è inutile cercare di capire: piuttosto, ascolta.
Ascolta Mozart anche tu.
E Bach, e Ciajkovskij.
Gustav Mahler.
Lascia che si espandano nello spazio che, in te come in me, non è occupato da ciò che è accumulato secondo la modalità dell’avere; lascia che risuonino nel vuoto che, di te, hai lasciato libero per l’essere.

Lasciali entrare in te, col respiro che la Vita fa, di sé, dentro il tuo vaso.
Nell’attesa

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