lunedì 2 luglio 2007

È facile essere Croati, Serbi o Montenegrini, ma è molto difficile essere uomini


intervista di Vujica Ognjenovic a Drazan Gunjaca sul quotidiano indipendente VIJESTI
Montenegro, 30.06.2007.


(Cari amici/Gentili signori,
dopo parecchio tempo una mia bella intervista è stata pubblicata nel territorio dell'ex Jugoslavia – quotidiano indipendente «VIJESTI», Podgorica, Montenegro).
Vi invio un estratto, mentre l'intervista completa si trova
Cordiali saluti,
Drazan Gunjaca
www.drazangunjaca.net


È facile essere Croati, Serbi o Montenegrini, ma è molto difficile essere uomini

La sua trilogia «Congedi balcanici» è fatta dai romanzi “A metà strada verso il cielo”, Congedi balcanici e “Amore come pena”. Come sono nati questi romanzi e come li presenterebbe in breve?


Ho scritto il romanzo “A metà strada verso il cielo” nel 1983 e poi ho smesso di scrivere. La vita riordina le priorità… Più tardi abbandonai l’ex Marina militare, iniziai a occuparmi di legge ed arrivò la guerra. È passata anche la guerra, ma ha lasciato dietro di sé numerose domande, dubbi, esami di coscienza, conflitti con se stessi e gli altri… Il tutto mi ha fatto riprendere la scrittura e attorno al 2000 vennero alla luce i Congedi balcanici. Sinceramente, mi sono messo a scrivere per me stesso, per salvare quello che mi rimaneva della sanità mentale, ormai già intaccata. Non pensavo affatto alla pubblicazione, e tanto meno alla traduzione in altre lingue e ai premi, quello che poi è accaduto.


In poche parole, si tratta di romanzi contro la guerra, di orientamento multiculturale, che trattano il periodo prima della guerra (“A metà strada verso il cielo”), la guerra (“Congedi balcanici”) e il periodo del dopoguerra (“Amore come pena”). Il suo eroe nei “Congedi balcanici” dice: “Mi sembra che la specie più adattabile nei Balcani sia proprio l’uomo, a condizione che sia nato e cresciuto qui. Altri esseri umani non si sono mai, né riusciranno mai ad adattarsi ai Balcani, né comprenderanno questa gente, da dovunque essi provengano”. Per quale ragione: di storia, di miti viventi, di illusioni…?



In vece di rispondere, parafraserò un pensiero del romanzo “Anche il cielo è per gli uomini”, che ho appena terminato. Dice pressappoco così:
“Le prime cinque generazioni dei popoli di queste terre creano un’idea attorno alla quale tutti si riuniscono, le successive cinque generazioni mandano l’idea a puttana, poi altre venticinque generazioni creano un mito attorno all’idea sorpassata, e alla fine una decina di generazioni celestiali vanno in guerra per quest’idea. E così in un circolo vizioso, fino a che non tocca a noi, appartenenti a qualche cinquecentesima generazione, combattere una guerra già perduta contro miti e mitomani…”
Se questo pensiero vi sembra troppo generalizzato, prendete i libri di storia dell’inizio del secolo scorso di qualunque di questi popoli, poi prendete libri simili della metà del secolo, e fate lo stesso con le edizioni odierne. Tra tante versioni offerte da questi libri, giudicate da soli cosa sia verità storica, cosa un mito e cosa sono solo illusioni… Cercate di tracciare dei confini precisi tra queste categorie… Da queste parti ogni generazione ha una propria storia, miti e illusioni che sono solo loro. Non esiste una verità storica che resista alla guerra, e nei Balcani non c’è generazione che non sia stata coinvolta in qualche guerra.

Nei suoi romanzi e drammi scrive di eventi tragici con molta ironia e grottesco. Come interpretare questa sua scelta? Forse come contrappeso agli orrori della guerra?

Proprio così. Ho scritto da qualche parte che il sarcasmo è l’ultimo bastione spirituale dell’intellettualismo. Dopo tutto, cos’altro mi rimane? Ammettere che la guerra mi ha sconfitto? Neanche per idea. Hanno sempre potuto e possono ancora prendermi tutto eccetto il mio passato e la mia anima. È da un bel pezzo che ho smesso di contare seriamente sul futuro. Sembra patetico, me ne rendo conto, ma non posso farne a meno. In fin dei conti, non è colpa mia se viviamo in territori che sono ormai impregnati di un patetismo che non ci fa seppellire i morti e non lascia vivere i vivi…
L’ironia ed il grottesco sono soltanto un meccanismo di difesa, nulla più.

I suoi libri trattano le conseguenze del sanguinoso disfacimento dell’ex Jugoslavia che hanno segnato le vite della gente comune. Scrive di esperienze familiari di uomini comuni e non di strategie militari, anche se era un militare professionista. Come mai ha scelto questo tipo di approccio al tema?


Perché mi interessa l’uomo comune e non gli strateghi. Perché i cosiddetti uomini piccoli sono miei amici che per me sono più importanti di tutti gli strateghi storici messi insieme. Per questi ultimi, essi sono solo una statistica, dei numeri che appartengono ai loro grandi piani pieni zeppi di sangue, lacrime e sudore… Per me, l’uomo comune fa parte della mia vita, del mio passato al quale non voglio rinunciare per nessuna ragione, perché non posso rinunciare a me stesso. Gli strateghi e gli stati non mancheranno mai. Ma ci mancano sempre gli uomini veri, gli amici, quelli che non volteranno la testa mentre i bruti ti tengono sotto tiro.
È facile essere Croati, Serbi o Montenegrini, ma è molto difficile essere uomini.

A differenza della roulette russa, dove la probabilità di rimanere vivi esiste, la Roulette balcanica consiste nel premere il grilletto di una pistola automatica, e non c’è via di scampo, la morte è certa… In questo dramma sembra davvero molto pessimista… Perché?

Nel romanzo “Sette giorni di solitudine” ho scritto che non sono né ottimista né pessimista, bensì realista, con una leggera tendenza all’idiotismo. Come lo sono diventato? Facilmente. L’ambiente come fattore di (a)socializzazione. Dopo tutto, cos’altro scrivere dopo che hai passato tutta la notte con un vecchio amico implorandolo a non suicidarsi…
Bisogna essere ottimisti. Vorrei tanto esserlo. Delle volte ci riesco. Ma poi la vita mi assesta un colpo basso ed io, con un po’ di vergogna per la mia ingenuità, torno ad essere realista…
Comunque, per quanto la vita mi tratti male, non perdo neanche un’opportunità ad accogliere un po’ di ottimismo. Per quanto poco possa durare, senza ottimismo non c’è futuro.

Il dramma Roulette balcanica non ha avuto la fortuna di apparire in scena nei teatri in Croazia e Serbia. Perché si rimanda?

Non mi aspetto più nulla, ma vorrei vedere la rappresentazione del dramma nella lingua in cui è stato scritto. Ho visto la rappresentazione di un teatro italiano che è venuto a Pola, naturalmente in lingua italiana.
Non lo so quanto c’entri la fortuna e perché sia così. Le ragioni sono sicuramente molteplici. Quello di cui sono certo è che molti pensano che sia troppo presto per rappresentare pezzi del genere (multiculturali). Le ferite di guerra sono ancora fresche… Io sono in grado e mi sforzo a capire tutte le vittime della guerra, indistintamente dalla loro appartenenza etnica. Ma non posso e non voglio capire quelli che vivono a scapito di queste vittime. So molto bene come reagiscono le persone comuni ai miei libri e drammi, e sono sicuro che non avrebbero nulla in contrario se venissero rappresentati in scena. Tutt’altro. La logica elementare ci fa concludere che qualcuno deve comunque essere contrario. E perché, se la guerra, come dicono, è davvero finita?

Quanto ha influito la guerra sulle persone nel suo ambiente, in Istria?

La guerra, mentre dura, è una tragedia collettiva che non lascia fuori nessuno. Quando cessa, diventa la tragedia degli individui che hanno perso qualcuno, se stessi o parte di sé. Anche l’Istria appartiene a questa visione. Ma bisogna dire che in Istria non ci sono state azioni militari, per cui era ed è rimasta un luogo di accoglienza per profughi. La gente istriana è per tradizione molto tollerante, il che in periodo di guerra per molti diventa una qualità di inestimabile valore.

Lei è stato un ufficiale dell’ex Armata Popolare Jugoslava, più tardi un avvocato nel periodo della guerra e nel dopoguerra. Dicono che il periodo del dopoguerra sia sempre più difficile della guerra stessa. È d’accordo?

È stata un’esperienza molto difficile. Da una parte cerchi di sopravvivere, dall’altra tenti di rimanere uomo. Non so dire quale delle due cose è stata più difficile. Spero di esserci riuscito almeno in parte, in tutt’e due.
Quanto al dopoguerra, non direi che sia più difficile della guerra stessa. Grandi aspettative portano inesorabilmente a grandi delusioni. La guerra porta con sé delle grandi aspettative. Forse le più grandi. Di conseguenza, come dicevo, ci sono anche grosse delusioni. Tutti i partecipanti si aspettano troppo dalla guerra e, alla fine, la maggioranza si sente tradita. Ciò nonostante, la guerra è di gran lunga più terribile. Prima o poi, uno si rassegna alla delusione, ma non ci si può rassegnare alla morte.

Il suo romanzo “Lo stupro della ragione” parla del dopoguerra, di persone tradite, che sono servite come “carne” per la macchina da guerra, delle terribili conseguenze del DPTS (disturbo post-traumatico da stress) che ha fatto vittime tra tanti veterani della guerra. Quanto si parla di questo problema in Croazia oggi?

Se ne parla molto, naturalmente. In particolare negli anni delle elezioni. Allora se ne ricordano tutti, alcuni si fotografano con i veterani se ne hanno l’occasione… Gli danno una pacca sulle spalle e una promessa di un futuro migliore. Ma il problema che questa malattia ci porta è che essa non riconosce il futuro.

Dopo la guerra nei territori dell’ex Jugoslavia la questione d’identità diventa molto importante per alcune persone. Cosa ne pensa lei?

Personalmente non ho mai avuto problemi d’identità, e non mi ha mai dato fastidio l’identità degli altri. Un’eccezione a questa regola sono quelli che della propria identità hanno fatto carriera (di tutto rispetto). Io li chiamo Croati professionali, Serbi professionali… Hanno saputo far soldi sulla questione d’identità dandogli un prefisso negativo. Ne hanno fatto una cosa talmente “importante” che spesso da essa dipende addirittura l’esistenza (a patire dall’posto di lavoro in poi…).
L’identità dovrebbe essere una questione personale di ogni individuo che non dovrebbe in nessuna maniera, tanto meno negativa, influenzare il suo stato sociale. Nel momento in cui l’identità diventerà veramente una cosa personale per ogni individuo e non una questione di importanza sociale, sarà molto, ma molto meno importante.


I suoi romanzi sono stati pubblicati negli USA, in Italia, in Germania, in Australia, nella Bosnia ed Erzegovina, in Serbia. Ha ricevuto numerosi premi letterari in Italia. Come mai sono stati gli Italiani a scoprirla come autore, ancor prima di un qualsiasi riconoscimento nel suo paese?

Per puro caso (sempre che crediate ai casi).
In genere sono contrario alla globalizzazione ma, come si suole dire, non tutti i mali vengono per nuocere. Io sono stato promosso ad autore più o meno conosciuto grazie a Internet. Vivo a Pola, una piccola città fuori dai grandi centri e grandi media, per cui Internet era l’unico modo per raggiungere il pubblico. Quando ho scritto il romanzo Congedi balcanici, il mio amico Srđa Orbanić l’ha tradotto in lingua italiana, dopo di che, tramite Internet, l’ho offerto ad alcuni editori italiani e l’ho mandato al concorso per il Premio Satyagraha 2002 (Italia) incentrato sul tema della pace. Ho vinto questo premio e da lì è partito tutto. Si potrebbe dire che senza Internet non esisterei come scrittore. Purtroppo, quanto riguarda il mio paese, Internet non aiuta perché subentrano altri tipi di problemi di cui ho già parlato.
Alla fine devo dire che, anche da queste parti, le cose sembrano andare meglio… Per alcuni i cambiamenti sono troppo lenti, per altri troppo veloci, ma l’importante è che qualcosa si stia muovendo.

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