Un libraio rivoluzionario
A Milano s’aggirava nell’età del Risorgimento un libraio sovversivo. Si chiamava Levino Robecchi. Aveva una libreria in via dei Meneghini, n. 37. Non era un semplice libraio, ma faceva il rivoluzionario di professione. Era un intellettuale. La sua libreria fungeva un po’ da caffè letterario, da salon dedicato tutto alla cultura, se non da osteria da scapigliati, ove la sera si sbronzavano e finiva tutto a taralli di Lula e vino. Levino proteggeva i patrioti. Là dentro sussisteva una vera e propria scuola dedicata al patriottismo. Circolavano liberamente idee, libri, soprattutto quelli proibiti allora dal governo austriaco, come i testi di Ferrari, di Franchi, di Gioberti, di Mazzini, di Galluppi, di Orsini, di Mazzini, di Rosmini. Durante il Risorgimento in Italia c’è stato un forte risveglio culturale. L’inquisizione laica non dormiva. Levino ha salvato molti dalla sicura condanna, dalla morte, dalle “Mie Prigioni”, dallo Spielberg, la Bastiglia degli Asburgo. Tanti giovani, con documenti falsi, appositamente preparati nella sua cantinetta, ove nascondeva torchi e gestiva una piccola stamperia clandestina, varcavano le soglie del Ticino, allora confine di Stato, per chiedere rifugio nel Regno di Sardegna, o in Svizzera. Levino non era un semplice commerciante, ma un apostolo del Risorgimento. Aveva una grande fede in Dio, nel Popolo e venerava Giuseppe Mazzini. In quella Milano risorgimentale fermentavano tutti i prelibati vini della rivoluzione e della liberazione: il federalismo di Cattaneo, il democraticismo di Mazzini, il neoguelfismo di Gioberti, il neoghibellinismo di Giusti. Levino credeva fortemente in quei valori, che per lui, come per tanti altri, risultavano non negoziabili. Essere un patriota non è una cosa da poco, implica un impegno sociale e morale non indifferente. E poi, a quei tempi, si rischiava la vita. Levino si faceva promotore dei periodici mazziniani che erano illegali, come “Pensiero e Azione”. Come scriveva Pellico nei suoi “Quaderni del carcere”: «Non v’è buon patriota, se non l’uomo virtuoso, l’uomo che sente ed ama tutti i suoi doveri e si fa studio di seguirli. Il buon patriota non si confonde né con l’adulatore dei potenti, né con l’odiatore maligno di ogni autorità. Essere servile ed essere irriverente sono di pari eccesso». Il Quarantotto, epilogo della rivoluzione europea, aveva visto Milano scendere in piazza e celebrare le sue eroiche cinque giornate. Quando il Popolo si muove nulla regge! È come un fiume in piena! Radetzky con la sua gloriosa “marcia” si ritira nel quadrilatero. Da allora non è mai più successa una rivoluzione così grandiosa. Ma la sua eco risuona nei secoli. Ancora si dice: – È successo un quarantotto! In quelle leggendarie giornate, Levino aveva preso tutti i suoi libri e li aveva dati ai popolani per ergere le fatidiche barricate. Purtroppo qualche delatore c’è sempre. La prima domenica di quaresima del 1858, Levino Robecchi venne arrestato dalla polizia per cospirazione contro lo Stato. I suoi amici l’avevano avvertito. Egli aveva fatto sparire tutte le carte compromettenti. Fu interrogato dal terribile consigliere Fluck, devoto di Franz Joseph. In un processo staliniano, si cercò invano di far parlare il povero libraio, di rivelare tutti i nomi dei cospiratori, dei frequentatori della libreria Robecchi. Ma Levino non parlò. Si morse la lingua come Zenone, pur di non tradire i suoi amici. Un kafkiano interrogatorio lo tenne sveglio per una notte intera; poi venne gettato nelle secrete di San Vittore. Torturato, schiaffeggiato, venne liberato solo dopo l’Unità. La sua libreria fu chiusa. Tutti piangevano, passando per via dei Meneghini. Mancava quel Socrate che punzecchiava i passanti e li invitava alla lettura e alla cultura, quella vera.Io amo Italia, la mia sposa. Non la tradirò giammai.
Ripeteva agli inquisitori. Alcuni amici carcerieri di buon cuore volevano farlo fuggire, proprio come Socrate, ma egli preferì restare in carcere. Morire, pur di non tradire la mia amata Italia!
Di fronte a questa fede così incrollabile anche l’indefesso consigliere Fluck, colui che aveva fatto arrestare gli inquisiti di Mantova nel 1852 e 1853, si sentiva smarrito. Erano fedi diverse. Egli credeva ancora nell’Impero, Levino nella Patria. Se l’Impero si fosse evoluto verso una struttura federalista, non sarebbe stato travolto dalla Grande Guerra, insieme a tutte le dinastie d’Europa: Asburgo, Romanov, Sultani, Hohenzollern. Intanto il poema risorgimentale volgeva alla fine e cominciava la prosa. Cavour aveva intavolato trattati con Napoleone III, l’uomo più potente d’Europa. Venne la Seconda Guerra d’Indipendenza, l’impresa dei Mille, la fatidica Unità. Dopo l’Unità, Levino venne liberato. Riaprì la sua libreria. Fondò anche una tipografia e stampò tutte quelle opere che erano state proibite innanzi, tra cui gli scritti di Mazzini. Cavour morì all’indomani dell’Unità. E quante gliene avevano cantate il Mazzini e il Garibaldi! L’eroe dei due mondi lo accusava di aver venduto Savoia e soprattutto Nizza, sua città natia. Mazzini di aver mandato al macello tanti giovani in Crimea per ingraziarsi il nuovo Napoleone, peggio del vecchio! «Una prostituzione con il carnefice della Repubblica Romana»! Gli aveva scritto:
– Millantatore di concetti emancipatori, tradite deliberatamente l’Italia, ripetendo la parte di Ludovico il Moro, chiamando tirannide straniera al di qua delle Alpi!
Levino non smise mai di esercitare la sua attività educatrice. Ma più che un libraio, diremmo, con un termine più appropriato, anche se neologico, è stato un “librista”. C’è infatti differenza tra “giornalaio” e “giornalista”. Era molto umano. Raccontava che dopo le Cinque Giornate i milanesi scoprirono il capo della polizia nascosto in un abbaino e volevano giustiziarlo. Andarono a chiedere allora a Cattaneo, che rispose:
– Se lo ammazzate fate una cosa giusta. Se non lo ammazzate fate una cosa santa!
E non gli torsero neppure un capello.
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