lunedì 5 febbraio 2024

Il giardino di Samuele

di Sandro Serreri


A Samuele




Il suo giardino aveva qualcosa di magico, sì di magico, vi dico! Per questo, si entrava in punta di piedi e, quasi, trattenendo il respiro. Non si voleva disturbare niente e nessuno, né lo sbocciare di una rosa né il volo leggiadro di una farfalla. Lui aveva reciso l’una e tentato di accarezzare l’altra. Anche lui vi entrava come un angelo in un luogo gravido di attesa: l’attesa del sorgere, della cura, della pazienza che spera perché sa che, se non oggi, forse domani… E, delicatamente, concimava, annusava, controllava, contava ora i germogli ora i fiori. Di acqua misurata annaffiava le piante più assetate quando sol leone esagerava coi suoi raggi e il suo oro rovente. 

Osservandolo di nascosto era un gran diletto, perché si poteva notare, nel bel volto, nei grandi occhi, nelle labbra ben disegnate, la compiacenza per tutto quello che vedeva e sfiorava. Si ammirava il sorriso, le labbra semiaperte e, soprattutto, gli occhi colorati di felicità. 

Si muoveva con cautela e destrezza tra le piantine appena nate, mai schiacciando la terra, mai strappando né un filo d’erba di troppo né una fogliolina appassita. “Ecco il mio capolavoro!”, sembrava dire sottovoce muovendosi tra le aiuole come un danzatore in calzamaglia. E il suo giardino era veramente un capolavoro.


Lo aveva ereditato, in parte, con piante, fiori e alberi, che a lui, appassionato, piacquero subito. I primi giorni vi andava solo per passeggiarvi per almeno un’ora, un po’ incantato dai colori e dai profumi. Osservava la disposizione, calcolava la distanza dal muro e dalla palizzata, dal pergolato e dai due ingressi. Annotava e disegnava dove si posavano e per quanto tempo le ombre. Toccava per assaggiare l’umidità o il calore. Così, dopo qualche settimana di laboriosa curiosità, apportò qualche modifica, prima alle piante rampicanti, come l’edera e la bouganville, poi alle rose che amava in modo particolare. Aggiunse, dopo aver scelto con cura il fazzoletto di terra più ospitale, le piantine aromatiche che non tardarono a volergli un così gran bene che presto misero radice e crebbero donandogli generosamente dei buonissimi sapori: il prezzemolo, la salvia, il basilico, la menta. Aggiunse anche le essenze mediterranee: il rosmarino e l’elicriso, e là, dove qualche alberello di antica stirpe autoctona faticava a metter su dimora, eccolo attento al taglio di qualche ramo, al sostegno necessario, a una carezza d’incoraggiamento accompagnata da una melodia tra le labbra. Ed ecco, in breve tempo, come per magia, il mirto e la lavanda nascere e fiorire e profumare l’aria, le dita e la punta del naso. Il suo pollice verde aveva operato un vero miracolo. 


Quando, poi, primavera si destò tuffandosi nel mare blu, l’estate prese molto volentieri a volteggiare sul giardino di Samuele. Allora, si levava, ancor prima dell’aurora esageratamente vestita di mille e mille colori pastello, e scalzo, come narciso incoronato di mirto, andava a infilare l’occhio sorridente là dove i petali tenerelli si schiudevano, timidi all’apparir del vero e nelle foglie, ancora recanti la rugiada salmastra, spremuta dal pianto di una luna che, nella stagione del sole, poco o niente ama attardarsi oltre il sonno delle sue stelle. 

Andava, le mani dietro la schiena, molto serio, per piante e alberi sul tappeto d’erba inglese, quello che il giorno prima aveva tosato giocando con il mutar del suo colore. 

Sorto, dunque, il sole rientrava e, seduto, con le magre gambe accavallate, sotto la veranda dalla quale mirava e rimirava il mare e il suo orizzonte e ben oltre le vele bianche, sorseggiando del buon latte caldo, annusava con narici sensibili i profumi che la temperatura strappava ai verdi aromi da lui seminati e allevati. 

E così stava, finché la luce non lo arrossava. 


Samuele era bravissimo anche nell’arte delle decorazioni, in particolare con i sassi. Con quelli bianchi e lisci, aveva confinato il piccolo regno della maggior parte delle piante da colore, profumo e sapore, disegnando con fantasie irregolari figure geometriche. Tutte, seguendo le sue bizzarrie, prendevano forma propria come a voler dare cornice alle rose, alle lavande e alle grandi margherite gialle. Ad alcune delle piante aveva infilato nel terreno bastoncini di legno recanti cartigli con strani e quasi impronunciabili nomi latini. Erano i nomi di antiche magie che, luna dopo luna e sole dopo sole, avevano dato origine, talvolta insperata, a colori, forme, numero matematico di foglie e petali. Ai rami di alcuni alberi da frutto mediterranei, aveva appeso dei sonagli ricavati da conchiglie annodate artisticamente. Questi, mossi dalla brezza leggera dei venti assai contenti dell’estate regnante, suonavano, tintinnando, musiche capaci di tener lontano tutti gli spiritelli che, cercando riposo, vagano per i boschi e i giardini. 

Samuele, talvolta, chiudendo gli occhi, udiva, incantato, quei suoni magici emozionandosi. Poi, con le dita sottili da bambino, sfiorava le conchiglie musicali come a volerle ringraziare. 

Quando il sole smetteva di ruotare su se stesso, sudato e stanco, pensava, concentrato, a come avrebbe disposto l’indomani mattina i sassi che si erano appassiti nel cerchio, nel quadrato e nella stella. 


Avrebbe voluto piantare ancora…, ma ormai il poco terreno a disposizione era tutto occupato. Poteva ridurre alcune piante che col passar delle stagioni avevano conquistato spazio e aria, ma ritenne che era bene continuare a lasciarle libere di crescere e di espandersi come e quanto volevano. Forse qualche ormai invecchiata rosa avrebbe potuto sradicarla e sostituirla, ma era lì, in quel pugno di terra e sotto lo stesso cielo ondeggiante, da così tanto tempo, che Samuele proprio non se la sentiva di compiere un’azione che giudicava quasi cattiva. Per questo sentimento, tutte le rose che venivano dal passato, con lui conobbero un futuro. 

C’era anche qualche decorazione che si sarebbe potuta togliere in parte o del tutto, ma ormai si erano conquistate il diritto di stare nel suo giardino rendendolo, a occhi attenti e sensibili, ancor più bello e affascinate. E così, quelle poste sin dai primi giorni, rimasero tutte e misero radice come fossero degli alberi. 

Perciò, dopo oltre un anno, dato tutto il tempo necessario alle stagioni di compiere il loro ciclico di lavoro, Samuele disegnò prima e dipinse poi il suo giardino fissandolo per sempre su carta e su tela in modo da renderlo radicato nel presente e proiettato nel futuro. 


Il giardino divenne un piccolo spettacolo da visitare e ammirare quando, passando a piedi o in bici per la strada retrostante, anche solo per caso, si restava colpiti dalla varietà delle piante ospitate e, soprattutto, dai suoi magnifici colori. Sostando, dopo averlo notato, ci si sporgeva dal vecchio muro a secco, la cui storia avrebbe riempito un libro, e dalla macchia mediterranea che vi si era aggrappata, come un bimbo alla mamma, e da quel punto di vista ci si beava e poi, con discrezione, si scattava qualche foto cercando di fissare per sempre il colore di un fiore, la forma di una pianta. Qualcuno, furtivamente, osava, con imbarazzo, recidere una rosa o strappare qualche rametto di lavanda selvatica o di rosmarino che, immancabilmente, finiva dentro un taschino o un fazzoletto da naso. E così facendo, i profumi sarebbero rimasti in quelle umane pieghe per parecchio tempo, oltre la naturale essiccazione e il ricordo di quel furto innocente. Qualche più attento visitatore, raccontava di averlo visto nell’uomo del Nord che sogna di vivere nel cuore del Mediterraneo, mentre qualche altro donava alla donna amata una delle sue reliquie più preziose: una piccola piantina di elicriso, che finiva in un vaso di terracotta sul davanzale danese dove gerani variopinti, non curanti del freddo, facevano bella mostra di se.


Poi, un giorno, Samuele partì, lontano, per un lungo viaggio che lo avrebbe portato prima per i giardini esotici dei maharaja indiani, dove brillavano rubini e smeraldi di Birmania, poi nei giardini dell’antichissimo Impero Celeste, quelli nascosti alla vista del popolo-formicaio, e dopo il Mar Giallo, i giardini geometrici e poetici dell’Impero del Crisantemo, dove il sacro rito del tea confondeva, mescolandoli sapientemente, sapori e odori che rasserenavano il cuore dei loro pacifici padroni. 

In questi giardini, Samuele avrebbe visto, stupefatto, il sorgere e il tramonto di un sole mago dei colori e delle ombre, pittore impressionista instancabile, e anche una luna materna posata come seta giapponese sul sonno degli abitanti sempreverdi e sognatori. 

Seduto come un monaco vestito d’arancio o un samurai in meditazione, Samuele annusava le essenze frutto dell’infinita pazienza orientale di chi sa, con assoluta certezza, e vede tutto quello che c’è dentro un piccolo seme color avorio; osservava e fissava, come in una vertigine di verde assenzio, la vita dei colori che mutano dall’alba all’imbrunire, dalla luce alla notte. 

Restava così, immerso, assente dallo scorrere del tempo, col suo bellissimo sorriso di eterno adolescente, finché un petalo, come una calda lacrima, non cadeva posandosi come farfalla sulla sua mano carezzevole. 


Quando, poi, dopo lungo vagare, ospite dei maestri più raffinati nell’arte del giardino-meditazione, un Principe giapponese gli donò dentro una scatoletta laccata un fiore di loto, un Mandarino cinese occhialuto tre semi di ciliegio in un vasetto di giada, un vecchio Maharaja indiano sette radici di tea in un piccolo scrigno d’oro, un Khan di Persia alcune foglie inebrianti dentro un cilindro di vetro e argento e un Pascià di Bagdad del preziosissimo polline contenuto dentro un diamante magico, tornò, navigando prima su per il Tigri e poi giù per l’Eufrate e poi ancora per il Nilo sino ad Alessandria dove s’imbarcò per il Mediterraneo greco e latino, gli anni lo avevano così allontanato che a stento riconobbe…

Ed ecco, il suo giardino non c’era più.

Al suo posto erbacce, incolti cespugli, il muro di cinta diroccato e, unico sopravvissuto, un olivastro che pur tenace nella sua nobiltà era, ormai, agonizzante. Tentò, allora, di ricordare e la memoria lo aiutò: là le rose rosse, là quelle vellutate, là le piante aromatiche, là il rosmarino e l’elicriso e la lavanda, là i tanto amati ciclamini, là la grande camelia, là l’ibisco rosa e rosso, là il mandorlo e il limone e l’arancio. Ah, che tristezza! Di tutti loro non restava nulla. Vagò facendosi spazio con un bastone di ebano col pomo d’avorio, finché sentì sotto i sandali… Erano alcuni ciottoli, sporchi di terra, quelli che erano serviti a decorare il suo giardino adolescenziale. Si chinò e ne raccolse uno che, dopo averlo pulito e accarezzato, mise nella tasca interna della giacca, quella più vicino al cuore sanguinante. 


L’indomani mattina, prima ancora dell’alba, quando il sole si attarda indeciso dietro le colline, Samuele tornò nel luogo della desolazione. Estratto, da una tasca del pantalone in lino, un sacchettino in cotone egiziano, strappò foglie dai cespugli e dal muto olivastro. Quindi, li mise dentro con cura dopo averle annusate. Poi, spostatosi di pochi metri, uno dopo l’altro, scagliò verso il mare, specchio in attesa del dio sole, i ciottoli che aveva calpestato il giorno prima. Non fece altro, perché si commosse e, con le lacrime trattenute a stento dentro i suoi grandi occhi di bambino, in punta di piedi si allontanò.

Quando il sole suonò il mezzodì, tirò su lentamente con suono di ferraglia l’ancora, sciolse l’ormeggio, con un mezzomarinaio spostò adagio la barca dal pontile e sedette dalla parte del timone. La corrente lo sospinse allargo. Quindi, sollevò con abilità la vela che subito acchiappò per la chioma dei capelli il vento caldo che lì passava, come sempre, dopo lo zenit. Afferrata la barra del timone, diede la direzione e, inforcati gli occhiali da sole, si lasciò andare con lo sguardo verso l’infinito. Poi, l’orizzonte e scomparve. 

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