venerdì 20 maggio 2022

Nathan

di Sandro Serreri



Nathan sapeva che piaceva a Susan, ma che piaceva anche a Peter. Però, Nathan voleva fare il filosofo, e un filosofo, pensava, non ha bisogno né di una Susan né di un Peter, né di una ragazza né di un ragazzo. 

Nathan aveva quasi diciassette anni e frequentava il IV anno, anziché il III, perché era entrato un anno prima. Era alto, anche se rientrava nella media, aveva dei bellissimi occhi verdi e un sorriso accattivante. A chi stava un po’ antipatico, era solo perché primeggiava in tutte le materie. Susan era una compagna di classe carina sì, ma soprattutto appariscente per via del suo essere sempre alla moda. Peter, lo sapevano tutti al Liceo, era un gay dichiarato, dopo un coming out su Istagram, ed era il suo migliore amico nonché suo compagno di banco sin dal I anno. Era bello secondo il parere femminile, tanto da far dire ad alcune ragazze, dopo la dichiarazione: Peccato! Sì, veramente un gran peccato! E ad altre: Me lo farei, comunque! 

Susan era stata dietro a Gabriel per quasi tre mesi, ma dopo aver fatto sesso per la terza volta, visto che lui aveva iniziato a farle delle richieste diciamo particolari, lo aveva mollato dalla notte al giorno. Peter viveva la sua diversità in maniera discreta, non ne parlava con orgoglio e nulla, se non lo si sapeva, faceva intuire che fosse gay.


Dopo Gabriel, Susan ci aveva provato anche con Nathan distraendolo dai suoi studi e, soprattutto, dai suoi molti pensieri tra i quale spiccavano quelli sul perché l’attrazione sessuale non avesse un sesso specifico. Una sera, a casa di Nathan, da soli, dopo la pizza, Susan era quasi riuscita a togliergli i blue jeans, quando con uno spostamento del corpo all’indietro, Nathan gli aveva detto: “Sarebbe meglio di no! I miei stanno per rientrare!”. Allora, forse, era gay? 

La settimana successiva, dopo aver cenato insieme con i suoi genitori, al posto di Susan c’era Peter. In camera, sdraiati uno accanto all’altro su un letto da una piazza e mezzo, senza molto entusiasmo giocavano con una playstation 5 dalla grafica molto avvincente. Quando, a un certo punto, Peter tentò di infilargli una mano nella patta dei jeans, Nathan, senza scomporsi più di tanto, gli afferrò la mano e, semplicemente, la portò verso la sua bocca fingendo di volerla mordere. I due si diedero un’occhiata, arrossirono a unisono, sorrisero e tutto finì lì. Dunque, non era gay. 


Nathan non era né etero né gay, non era interessato al sesso, non era attratto né dalle ragazze né dai ragazzi. Non aveva bisogno né dell’una né dell’altro, e questo fece che sì che, presto, al Liceo fu classificato come: sfigato, strano, anormale, extraterrestre, malato.

Aveva compagne e compagni preferiti, amiche e amici, ma non era e non voleva essere il ragazzo di nessuno: né di Susan né di Peter, né di nessuna o di nessun altro. “Voglio fare il filosofo!”, rispondeva alle prese in giro delle compagne e dei compagni di classe, con un tono e una faccia così disarmante che invece di suscitare ilarità raggelava i coetanei rendendoli seri e costringendoli, durante la pausa pranzo, a prendere di mira qualche altro studente ma non lui. “Voglio fare il filosofo!”, era anche la risposta che dava a tutti gli insegnanti che, sin dall’inizio dell’anno scolastico, gli domandavano: “Tra un anno dovrai scegliere. Che cosa sceglierai?”. 


Ma, perché il filosofo?”, gli domandò serio, in auto, mentre lo accompagnava a scuola, il padre, che per numero di anni e aspetto sarebbe stato scambiato più per il nonno. “Perché un filosofo è un uomo senza tempo!”, rispose Nathan fissando lo sguardo verde sul timer del semaforo. Il tempo era uno di quei problemi che non solo lo interessavano moltissimo, ma che anche lo ossessionavano. 

Nell’ultimo anno era cresciuto di dodici centimetri, era spuntata un pochino di peluria che si sarebbe potuta chiamare barba e la sua voce era diventata decisamente maschile. Ovviamente, questi mutamenti erano giustificati a casa, in famiglia, come: frutto della crescita adolescenziale, dello scorrere del tempo. Ma: di quale tempo parlavano? Del loro o del suo? Pensava, ascoltandoli in lontananza. Perché, la percezione del tempo non era uguale e non poteva essere uguale. 

Tutte le mattine, da lunedì a venerdì, in aula, seduto al suo banco, dalla sua prospettiva, osservava e riosservava i suoi compagni costatando quanto fossero cresciuti e cambiati: Susan aveva seni prosperosi – era quasi piatta quando iniziò a frequentare il primo anno –, Peter aveva un volto dai lineamenti marcati – quattro anni prima sembrava un bambino delle Elementari capitato per sbaglio al Liceo –, altri erano ormai quasi irriconoscibili rispetto a quello che era stato il loro aspetto fisico di soli due tre anni prima. Ma: era veramente il tempo che stava passando? appuntò sul suo diario scolastico.


Questa e altre domande del genere lo occupavano così tanto che, qualche volta, nonostante le ripetute sollecitazioni a uscire dalla sua stanza o di venire a cena, rimaneva seduto, a fissare la pagina che, parola dopo parola, si arricchiva di aforismi, brevi riflessioni. 

Gli approcci tentati da ambo i sessi avevano provocato in Nathan una piacevole confusione che l’avevano stimolato a indirizzare i suoi pensieri sulle domande: perché ci innamoriamo? E perché ci innamoriamo di quella ragazza o ragazzo anziché di quell’altra ragazza o ragazzo? È solo frutto della chimica dell’ipotalamo, dell’endorfina e dei feromoni? È possibile che sia tutto qui, non c’è altro? Susan e Peter rientravano nelle normali relazioni adolescenziali o c’era qualcosa in più, oltre? 

Questi problemi aperti, a un certo punto, lo avevano condotto a una conclusione, che Nathan subito giudicò felice, questa: ecco, dunque, perché un filosofo non ha bisogno né di una lei né di un lui. Se ne avesse bisogno, si troverebbe invischiato perdendo libertà, indipendenza, autonomia, volontà. 

Perciò, i tentativi di approccio sessuale andati a vuoto, indussero Susan e Peter a pensare segretamente che Nathan, in fondo, non fosse solo… strano, ma, forse, che aveva veramente trovato una nuova filosofia di vita.


Il filosofo Nathan continuò a comportarsi come un adolescente extraterrestre per tutta la durata dell’anno scolastico. Gli approcci erano ormai più che una storia passata, e le sue riflessioni a voce alta durante le ore di Storia della Filosofia e di Lettere finirono anche per sconcertare qualche professore e irritare qualche compagno. 

Ma Nathan andò per la sua strada sino, un giorno, alla decisione estrema, allo spuntare del sole, di lasciare casa e famiglia e andare ad abitare e vivere nei boschi che furono proprietà del nonno defunto da quasi un anno e lasciati in eredità a lui con la sola clausola di stare da solo per evitare di contagiare con la chimica umana l’abitazione, il giardino e la natura circostante. 

Nathan tenne fede al testamento, e quando prima la madre e poi il padre tentarono di fargli visita, lui non si fece trovare, ma lasciò sulla porta un messaggio che non si prestava a nessuna interpretazione: VOGLIO VIVERE LA MIA VITA DA SOLO. Quando poi, oltre dieci anni dopo, Susan col marito e due bambini insieme a Peter col suo compagno giapponese, andarono a fargli visita portandogli la raccolta stampata degli aforismi da lui scritti durante gli anni di Liceo, lui disse loro, senza neppure sfogliarla, di buttarla via. 


Nathan visse a lungo e felice, dimostrando a se stesso come sia possibile che un sapiens sapiens possa vivere un’intera vita da solo con i suoi pensieri. 

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