mercoledì 23 marzo 2022

La morte dei colori

di Sandro Serreri




Spenta la finestra, l’ombra avvolse la stanza impedendo ai bellissimi quadri, francesi e olandesi, d’essere ammirati. L’ombra, soffice come seta cinese, disegnò i suoi incantevoli giochi chiaro-scuri. Perciò, il padrone di tutti i colori appesi alle pareti sorrise a lungo, seduto di fronte a un paesaggio che lo vedeva bambino con un gattino grigio tra le mani. Aveva trascorso tutta la sua vita a cercar colori e ora era molto stanco e i suoi occhi, da un po’ di tempo, avevano iniziato a non vedere più né i rossi né i verdi, in nessuna loro tonalità, sfumatura. Non lo aveva detto a nessuno: né alla governante né all’unico nipote che, ogni sabato mattino, lo visitava portandogli sempre una scatola di cioccolatini che, immancabilmente, divorava per metà prima di scappare ad agguantare il tram sotto casa delle 12:03. E non lo aveva neppure detto all’unico studente dottorando che gli era rimasto fedele e affezionato. Meglio tacere quell’assurda cecità di colori e far finta che fosse sempre colpa di una luce sbagliata proiettata da un sole capriccioso e dispettoso. Certo, non avrebbe mai immaginato che un giorno non avrebbe più visto i suoi colori preferiti. Per questo, il suo sorriso alla fine risultò una specie di strana smorfia, come un dolore soffocato e nascosto. La finestra spenta ebbe come un battere di tamburo stonato e poi si spalancò mostrando un cielo di un celeste luminoso. 


La moglie, una pianista di successo, era morta qualche anno prima divorata da un tumore che prima di ucciderla le aveva rubato l’udito, le note, le armonie, tutto il suo mondo musicale. La tragedia ebbe delle ripercussioni sulla casa, che divenne silenziosa e triste, e sul suo sonno, che da allora non fu mai più regolare, prolungato, profondo, sereno. Per tanti anni i due, con arte sublime e impareggiabile, avevano abbinato colori e musica, quadri e spartiti, disseminati per tutta la casa come una primavera lussureggiante e molto profumata. Tutti i figli erano cresciuti in un giardino, dove colori e musiche non si spegnevano mai. I pochi amici che avevano il coraggio di visitarli, li trovavano matti, ma erano anche attratti e affascinati da quella mamma sempre al piano a suonare e da quel papà sempre occupato a spostare quadri, ad appenderli, a catalogarli, ad abbinarli a un concerto di Mozart o a un vaso di fiori donati dall’ultimo ammiratore della pianista irraggiungibile e misteriosa. Nella loro casa e famiglia non c’era mai stato posto e ascolto, se non per i colori dei quadri degli impressionisti e per le note di Bach, Mozart e Beethoven. Per questo, uno dopo l’altro, in punta di piedi, nessuno sbattendo la porta, tutti i figli li abbandonarono lasciandoli soli. 


Anche l’ultimo, il più piccolo, aveva lasciato la casa-giardino nel cuore della notte inseguendo il sogno di andare all’altra parte del mondo a fotografare insetti in estinzione. Da questo, è nato l’unico nipote che si sarebbe affezionato nonostante le loro eccentricità, portando una ventata di giovinezza e di disordine tra quadri e spartiti, luci e suoni. Aveva i capelli rossicci, arruffati, e occhi piccoli e verdi, proprio i due colori che il nonno non riusciva più a vedere. Ma gli voleva bene comunque e non gli importava se mangiava cioccolatini mentre toccava i suoi quadri e pasticciava sulla tastiera bianco-nera rimasta orfana, disoccupata. Questo nipote giocherellone, dopo la morte della moglie, era diventato così importante per il suo cuore e per la casa, che qualsiasi cosa facesse e dicesse andava più che bene, lo faceva ridere, gli lasciava attaccato ai polpastrelli delle dita un tale buon gusto per la vita, che evitava di lavarsi le mani col sapone il giorno della sua visita e anche il giorno dopo.


Per il resto dei giorni della lunga settimana, però, restava solo e inattivo. Per ore e ore era capace di star seduto, quasi immobile come una mucca su un prato, davanti a un quadro e sottovoce ripetere, come un mantra, le sue passate lezioni sull’opera contemplata, sul suo autore, sui suoi colori. Qualche volta la governante, spiandolo di nascosto, lo aveva visto mettersi le belle mani davanti agli occhi e piangere. In questi casi, non interveniva mai perché sapeva che erano lacrime di commozione, di gioia. Quando, solitamente, il lunedì all’ora di pranzo, un poco prima dell’una, arrivava con libri, foto, stampe, appunti il dottorando, che considerava geniale perché capace di non vedere quanto l’arte post-contemporanea aveva prodotto d’insensato e di vistosamente orribile, lui lo accoglieva sempre stando seduto davanti a un quadro di Monet che, per chi sa quale incomprensibile ragione, anziché trovarsi in un museo stava invece appeso ad una parte della cucina. “Li vedi tutti i colori tra il giallo e il marrone?”, gli domandava tutte le volte che lo studente entrava dentro il suo cono visivo pronto a sferrare tutte le sue ultime ipotesi sui pigmenti usati da Monet partorite la notte prima.


Ovviamente, il dottorando veniva invitato a fermarsi per il pranzo che veniva prontamente servito, senza troppe cerimonie, sulla scrivania ingombra di libri e carte varie. Durante il pasto lo lasciava parlare a ruota libera senza mai interromperlo anche quando diceva delle stupidaggini. Questo, perché anche le stupidaggini possono risultare interessanti. Aveva imparato a saper ascoltare i fiori dei suoi quadri, il pianoforte della moglie, ma non i figli le cui voci, per chi sa quale deficit acustico, udiva ovattate, come lontane, come un antico, sbiadito ricordo. Non fece mai parola con nessuno di questa sua deficienza che gli causò non poche incomprensioni con i suoi figli che, stanchi di non venir ascoltati, presero, uno dopo l’altro, a non parlare con lui tranne quando era solo strettamente necessario. Alla morte della moglie nessuno di loro gli fu di conforto, ma lui non ne soffrì più di tanto, non ne tenne conto, perché da nessuno di loro si aspettava qualcosa. Il buon udito ora lo conservava tutto solo per il nipote e per il dottorando colpevoli, entrambi, di avere belle voci, musicali, molto gradevoli al tatto e ai colori. 


A chi gli rimproverava l’isolamento, lui rispondeva con le sue uniche vere medaglie: un nipote chiacchierone, un dottorando geniale, una governante tutto fare e i suoi innumerevoli quadri, accesi e palpitanti notte e giorno. E a chi gli rimproverava di non prendersi cura neppure di uno dei suoi figli, rispondeva: che aveva scelto di prendersi cura di colori che non erano destinati alla morte e alla sepoltura. Qualsiasi altro rimprovero, poi, cadeva nel nulla di fronte alla sua proverbiale capacità di buttare giù bocconi amari senza proferir parola, lamentarsi. L’arte della contemplazione delle pennellate lo aveva reso come un monaco afono. “Quest’arte si acquista stando di fronte a un quadro come si sta di fronte agli occhi dell’amata”, diceva lui al dottorando. E solo così era possibile intuire gli stati d’animo che il pittore trasmette alla mano e alle dita. Chi s’intende di opere d’arte pittoriche, sa bene quanto il colore venga impresso sulla tela per trasmissione di un impulso ordinato da tutti i sensi. Insomma, una pennellata non è mai solo un fatto semplicemente meccanico. Lui, perciò, sapeva con esatta interpretazione, con quale stato d’animo Monet aveva dipinto La passeggiata. 


Ma al calar della sera, veniva sempre preso da un torpore dei sensi, specie della vista e dell’udito, che molto lo ottenebrava. Oppresso dal non riuscire a vedere se non delle ombre, delle sfumatura sfuocate, vagava per stanze e corridoi battendo il bastone da passeggio contro il pavimento e le pareti per avere la percezione di dove si stesse incamminando. La governante, dietro suo ordine, lo lasciava solo andando a dormire presto al piano superiore. In queste notti avrebbe voluto saper volare come un pettirosso per poter emigrare lontano, ma le finestre chiuse e le robuste grate glielo avrebbero impedito, oltre il fatto che non si abbandonano tutti i colori lasciandoli alla mercé di dita sporche di cioccolato, di strofinacci, di starnuti molesti all’udito e all’olfatto. Sarebbe stato classificato, pensò, come un criminale, proprio lui che non aveva neppure il coraggio di calpestare una formica. Le tenebre che lo avvolgevano, a metà della notte, lo vincevano e lui, allora, si lasciava cadere spossato sulla sua vecchia poltrona e si addormentava dopo aver trovato la giusta posizione per le sue ossa doloranti. Il sonno, poi, lo trasfigurava in un bambino di nome Pater Pan. 


Un mattino, di buon ora, i due, nipote e dottorando, neanche se si fossero messi d’accordo, insieme bussarono e ribussarono. La governante, strisciando i piedi sul bel parquet, li aprì ansimante. “Che mai ora è questa per presentarsi alla porta!”, disse loro, visibilmente contrariata. Entrambi si precipitarono in cucina, ma lui non c’era. Allora, andarono in soggiorno, ma niente, e poi nel suo studio, ma niente ancora. Agitati, iniziarono a dire: “Ma dov’è, dov’è?”. Lei si sedette e ammutolì. Diede, poi, un’occhiata verso il corridoio di destra e chiuse gli occhi. Lo trovarono con il capo addormentato su un quadro di Manet che, molto probabilmente, aveva accarezzato durante la notte. Aveva così spento la luce permettendo ai pochi colori che gli erano rimasti negli occhi di evaporare come rugiada, di percorrere con lui l’ultimo tratto del sentiero che conduce all’orizzonte del dio Sole. Non aveva voluto disturbare nessuna ora del giorno per non essere fotografato morto sotto un’angolatura sbagliata. Pendente dalle labbra, una margherita gialla. Il Corriere della Sera e Le Figaro insieme, nel necrologio, intitolarono, a caratteri cubitali: LA MORTE DEI COLORI.

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