lunedì 16 novembre 2020

TUTTE LE STRADE DEL MONDO

 di SandroSerreri


Attese a lungo, fuori dalla porta. Tornò a suonare e questa volta più energicamente. Niente, nessuno venne ad aprire. Sconfortato, si sedette sul primo gradino. 

Nel piccolo giardino, antistante il portico della casa, fiorivano le rose, bellissime. Le odorò con gli occhi. Le aveva piantate, tanti anni prima, quando lui era ancora bambino, la nonna, quella che si divertiva a farlo lavorare, a sporcarsi le mani, durante le ore pomeridiane di giardinaggio. Vide e riconobbe quella che aveva piantato e con la quale ebbe a pungersi. Per questo, pianse facendosi poi medicare dalla nonna che, dopo avergli baciato la piccola ferita, gli disse: “Ecco, vedi: le rose sono bellissime, ma possono far soffrire.”

Queste antiche parole gli giunsero alla memoria come pronunciate in quell’istante. Il suono, il timbro di voce. Sorrise e guardò oltre il muretto di mattoni rossi. Ed ecco, un bambino fermo sulla sua bicicletta con le braccia in conserta, osservava lo scorrere delle automobili e dei passanti.

Era lui. Sì, eccome, era proprio lui, con la sua zazzera di capelli castani spettinati, la camicia celestina fuori dai blue jeans, ai piedi le Converse blu mezze distrutte. La bici era quella che il babbo, a sorpresa, gli aveva comprato in seconda mano dal collega e vicino di casa e che gli regalò per il suo dodicesimo compleanno. I freni a stecca, il portapacchi dietro il sellino di pelle marron scuro. Una meraviglia! L’aveva desiderata, sognata. La chiamò, segretamente, Giselle, come una sua compagna di classe, veramente molto carina, quella che sedeva un banco dopo il suo. Lo incantavano i suoi capelli a coda di cavallo. Con le femmine fu molto precoce. Rise al pensiero delle sue prime avventure amorose. Alla fine di quell’anno scolastico s’innamorò di lei, ma sul serio non per gioco, e quell’estate fu a lei che diede il suo primo vero bacio. Quella sera, tornando a casa, pensò che anche la sua Giselle doveva essere abbastanza precoce. Dopotutto, entrambi avevano solo quasi tredici anni. Dopo quel primo bacio, seguirono le rose che lui, puntualmente, dietro il complice consiglio della nonna, tutte le mattine le faceva trovare sul davanzale della finestra.

Probabilmente, pensò, senza Giselle e quella bicicletta l’intera sua adolescenza sarebbe stata diversa e lui, sicuramente, sarebbe stato un altro uomo. Quella bicicletta gli aveva permesso di esplorare le vie oltre a quelle del suo quartiere, starsene da solo e lontano, bighellonare con i suoi due amici più cari, portare Giselle a mangiare un cono gelato. Eh sì! Giselle che portava Giselle.

Non volle rimpiazzarla con un’altra, nuova e sportiva, quando si presentò l’occasione grazie alla generosità del nonno materno che con quel dono voleva accomiatarsi del nipote. Infatti, di lì a poco morì dopo un intervento chirurgico non riuscito. Lui preferì avere l’equivalente in denaro depositato presso il suo modesto conto bancario. Pensava già all’Università. E Giselle gliene fu grata non lasciandolo mai a piedi e continuando a non costargli nulla.

Ricordò quando, un giorno, all’uscita da scuola, non la ritrovò al suo solito posto. L’agitazione, però, passò presto. L’aveva presa in prestito il suo migliore amico a causa di un’urgenza familiare.

Continuando a vedere sé steisso in quel bambino di fronte a lui, si commosse e piccole lacrime sgorgarono spontaneamente. In quell’istante, il bambino si voltò verso di lui e lo fissò. Quindi, gli sorrise, un bel sorriso, e lo salutò con un cenno della mano. Allora, si sollevò volendolo a sua volta salutare, ma il bambino non attese d’esser ricambiato. Dando alcuni energici giri di pedale, si allontanò e scomparve dalla sua vista.

Da dietro, si sentì tirare la giacca. Si voltò di scatto. Era Giselle. No, non era Giselle, ma era come Giselle. Stesse lentiggini, tessi occhi, stessa bocca, stesso sorriso. “È in casa la mamma?”, le domandò balbettando. La bambina risposte rientrando e chiudendo la porta. In quel momento, il bambino ripassò e frenò la bici davanti a lui.

Signore! Signore! In questa casa non abita più nessuno, da alcuni anni!

E tu, che ne sai?

Lo so, perché prima abitavo qui.

E dicendo così, lo salutò nello stesso modo di prima. Fece, allora, un passo verso il campanello, ma poi ci ripensò e non suonò. Cercò di riordinare i pensieri, ma un improvviso capogiro lo costrinse e risedersi sul primo gradino. Dopo che la vista annebbiate fu tornata a posto, riguardò il piccolo giardino. Le rose, bellissime, erano tutte ancore lì. A circa una decina di metri scorrevano le auto, attraversavano i pedoni e… come per magia, riecco il bambino sulla sua bici e quel bambino era sempre lui. Voleva alzarsi, raggiungerlo, ma sentiva che le forze non lo avrebbero sorretto. Ma, con suo grande stupore, il bambino gli venne incontro dopo aver poggiato la bicicletta e non con la ruota anteriore davanti, ma dietro, avendola girata, esattamente come faceva lui quando parcheggiava la sua amata Giselle. Allora, si aprirono ancor di più i suoi occhi e dalla bocca gli uscì un accorato: “Giselle! Giselle!”.

Giselle è morta!”, gli disse il bambino piazzandosi, braccia in conserte, davanti a lui. Sarà stato alto, più o meno, come qualsiasi altro bambino tra gli undici dodici anni. Aveva occhi come i suoi, molto espressivi. Le dita delle mani erano lunghe e sottili, come le sue, fatte più per suonare un pianoforte che per disegnare di giorno e dipingere nelle prime ore della notte.

È morta?”, domandò. “Sì, è morta!”, rispose. Quindi, il bambino gli si sedette accanto. Si guardarono l’un l’altro e si sorrisero a lungo. “Ma, prima di morire…”, disse indicando la bicicletta con l’indice. Riprese: “Prima di morire, mi ha detto di darti Giselle”. “Di darmi Giselle?”. “Sì, la tua cara Giselle! Ed eccola lì. È tutta tua!”. “Ma, ma, tu chi sei?”, balbettò. Il bambino non rispose. Si alzò in piedi e si diresse verso la bici. Prese, quindi, la bicicletta e si mise davanti al cancelletto. “Scusi signore, ma non ho tutto il giorno a mia disposizione. Per favore, vuole avvicinarsi!”. Allora, ubbidì. Si alzò e pur con passo incerto lo raggiunse. “Io e Giselle sappiamo che non può continuare a vivere, se non ha Giselle. Per questo, Giselle ora è sua. Su, la prenda!”. Avrebbe voluto fargli una domanda, ma temendo di rovinare tutto preferì tacere. L’emozione era più che evidente. Tremante, montò sulla bici e si accomodò. Era proprio la sua cara vecchia Giselle. Se solo avesse avuto il coraggio di chinarsi sulle manopole del manubrio, era sicuro che avrebbe sentito l’odore del suo sudore. “Sono contento per lei. È giusto che Giselle sia sua, solo sua”. E detto questo, scomparve.

Questa volta non tentò di mettere ordine tra i suoi pensieri ma preferì restare confuso, disorientato. Era felice, strafelice. Non si sentiva così da quando… Accanto a lui passavano auto, pedoni, bus, ma i loro rumori gli giungevano ovattati, presenti ma lontani, molto lontani. Si rivide ormai giovane uomo, sulla stessa strada con entrambe le sue Giselle. Con la mano sinistra stringeva quella di Giselle e con la destra spingeva per il centro del manubrio l’altra Giselle.

Al bambino scomparso per sempre, avrebbe voluto domandare: “Dove ho sbagliato?”, ma ormai, questo, non aveva più nessuna importanza. Recise una rosa, l’odorò intensamente, chiuse gli occhi per qualche secondo e una successione velocissima di fotogrammi lo fece barcollare. Vide, come sempre accade in questi casi, molto più di quel che avrebbe voluto vedere. Però, non né restò turbato, ma, stranamente, si sentì leggero, come quando usciva da casa per andare a scuola; leggero, come quando uscendo si ha davanti tutte le strade del mondo. Infilò la rosa nell’occhiello del bavero della giacca. Era bellissima e lui sembrava veramente così eccentrico, pensò.

Piegò gli orli del pantalone, sorrise a una bella signora che lo aveva guardato con compiacimento e visto che ora, con la sua Giselle, poteva andare dove voleva, iniziò a pedalare, come avrebbe fatto qualsiasi altro signore di mezza età.

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