mercoledì 12 dicembre 2018

Una parola poetica ironica e attenta che ci cattura

Marco Mastromauro, Cronache sparse, FaraEditore 2018 

recensione di Vincenzo D’Alessio




FaraEditore di Rimini ha molti pregi. Uno di questi è l’attenzione nello scegliere dei Giurati preparati ad accogliere il coro di voci poetiche che, da tutte le regioni della penisola e anche dall’estero, partecipano ai concorsi banditi.
Non è compito facile se si pensa alla lezione dettata dal Novecento e alle profezie che annunciavano la fine della vera Poesia.
I libri dei poeti e scrittori pubblicati gratuitamente da Fara, per la partecipazione ai concorsi, stanno mostrando i cambiamenti che la versatilità della parola ha assunto nella scrittura contemporanea.
Appartiene a questo clima di cambiamenti l’ultimo prodotto poetico di Marco Mastromauro: penna abilissima, amante della buona poesia attinta alle voci del Novecento fatte migrare nella sua poetica. Cito: Willem van Toorn e Antonia Pozzi.
Aprire questo libro intitolato Cronache sparse, classificato al secondo posto nel concorso nazionale Faraexcelsior 2018, è simile alla porta aperta dagli occhi del lettore in una stanza dalle molte finestre: la luce rivela oggetti, figure, ombre sparse, che dialogano con il silenzio remoto precedente.
Dal silenzio al suono della parola: letta, amata, compresa.
Le cronache alle quali siamo stati abituati dai media si compongono quotidianamente di fatti, persone, luoghi, in modo impersonale, secondo una successione cronologica.
La metafora scelta dal Nostro nel titolo è la sana ironia che il poeta adotta per descrivere il percorso durevole del verso/vita nel trascorrere del tempo.
Cattura l’attenzione di chi legge l’evoluzione filosofica assunta dal Nostro sulle fasi dell’esistenza che parte dal mondo primitivo: “degli altri, / distanti” (pag. 11), per giungere alla contemplazione del viaggio quale forza propulsiva del vivere: “Il bambino si volta / le dita strette al dorso del bufalo / mentre la tunica bianca ondeggia / nel verde piegato dalla pioggia” (pag. 49).
Il viaggio passa nello specchio profondo dell’Io e del fuori di sé perché l’umanità riconosce nel poeta la ferita del sole che trapassa le membra del buio sul finire della vita.
Il poeta, i suoi versi, sono una delle vie per non perdere la rotta: “(…) Poco ci si svela / dentro questo teatro autunnale, / com’eravamo e come diventeremo / confondendoci con le ore, i giorni, / le indistinte stagioni” (pag. 48).
Le insidie del viaggio noi qui ritroviamo come fu per Ulisse nel confronto con le Sirene e la Maga Circe, metafora dell’iter seguito dai bisogni umani e gli alisei che animano le vele del pensiero che compone: “Se immagino i continenti i mari / deserti senza tracce umane / penso un silenzio immenso che perenne / anima l’erba alta le foreste attraversate da animali al pascolo quieti / sotto il tepore di un tempo ignoto” (pag. 46).
Noi questo vorremmo: certezze sulla linea di confine prima di attraversarlo.
Le cronache sparse nella stanza poetica di Mastromauro irrompono dalle vicende personali ai valori universali dell’Ars poetica.
L’uso attento delle rime collocate nei vari corpi poetici, tra inizio e fine capoversi, mostrano la padronanza del linguaggio e l’uso delle figure retoriche come l’anafora, la similitudine e principalmente le metafore.
Molti sono i richiami alle opere dei grandi Autori del Novecento, non solo italiano, assimilati da lunghe e meditate letture.
Dettato testamentario dell’eterno conflitto interiore tra fede nella scrittura e durezza della violenza umana chiude lo scrigno dei versi offerti dall’autore in questa raccolta: “(…) Tu soltanto ripeti: «Resta, riposa in te stesso.» / In te l’assenza d’ogni ombra / la sfolgorante bellezza.” (pag. 13, Ancora ETTY HILLESUM).

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