Beppe Sebaste, Panchine. Come uscire dal mondo
senza uscirne, Laterza, (2008) 2011, pag. 175, euro 9.50
recensione di Adele Desideri
Strano saggio, Panchine.
Strano e interessante.
Beppe Sebaste, l’autore, ha cercato, e scovato,
panchine in ogni parte d’Italia, d’Europa, e anche oltre oceano. Non le
panchine della movida, quelle esterne
ai bar, ai ristoranti, o alle panetterie e alle salumerie di lusso. E nemmeno
le panchine dei giardini, o di certi “salotti” cittadini che fanno capo alla
voce nuovo “arredo urbano”; panchine monoposto, con annessa fioriera e, magari,
dotate della presa di corrente per alimentare il PC: “false panchine”, secondo
Sebaste.
L’autore, infatti, preferisce riposare – e leggere – accomodato tranquillamente sulle “panchine verdi di una volta”, nei parchi, sui
lungofiume, nei conventi. Panchine appartate,
che sembrano messe lì per caso, “semplici e spartane”. Panchine vere,
“asociali”, e “anarchiche”, simboli della “poetica degli interstizi, delle zone
d’ombra o di opacità che si sceglie di guardare e raccontare”.
Ma perché Sebaste prova un
amore assoluto - quasi ossessivo - per le panchine?
Perché “leggere un romanzo e
stare seduti su una panchina sono attività molto simili (…). Leggere è un atto
anarchico (…) non ha né deve avere (…)
nessuno scopo da raggiungere né servizio da eseguire. (…), come l’opera d’arte
secondo Kant”.
Stare seduti su una panchina,
appunto, col naso all’insù, a guardare il cielo, in posizione un po’ rannicchiata,
con un libro tra le mani... Così, nel magico incontro tra panchine e letteratura,
Sebaste trova l’ispirazione per comporre un’autobiografia culturale, un
manifesto di critica militante, e, insieme, di filosofia della lentezza: “fare poesia, fare arte, significa (…)
avere cura delle soste (…), al limite fermare il traffico, come nei sit in. Soffermarsi, non appena sia
possibile, sulle panchine, isole nel flusso frenetico del mondo”.
Il lettore, allora, scorre le
pagine di Panchine - scritte con un
ritmo quieto eppure ben scandito, con uno stile fluido e chiaro, appassionato e
colto - e si diverte. Esattamente, si diverte: attraversa sentieri colmi di
umorismo, strade che evocano affetti antichi e profondi, incroci che fanno convergere la malinconia dell’età adulta con
le utopie e la creatività goliardica degli anni della gioventù.
Viaggia, il lettore, e visita
Gstaad, Ginevra, il quartiere di Brera a Milano, Bologna, il Parco Ducale di
Parma, Lerici, il Golfo dei poeti,
il lungomare di Viareggio, Capalbio, Napoli, Capri. E poi, ancora, Venezia, dove
le panchine “appaiono in qualche isolato campiello, epifanie al quadrato”, e
Padova - i Giardini dell’Arena, la
Cappella degli Scrovegni - Monza, il
lungolago di Como, Verona, Genova, Portofino, Santa Margherita,
Palermo.
Oppure si reca a New York, si sofferma sulle panchine di Central Park, “descritte nel
sempreverde Il giovane Holden di
Jerome D. Salinger”. E passa per Lisbona: lì, sulle panchine, si pratica la Saudade,
descritta da Antonio Tabucchi – ne I volatili del Beato Angelico – come “un
cammino arduo”, durante il quale “le sensazioni non sono immediate, talvolta
l’attesa dura persino degli anni. Ma, lo sappiamo, la morte è fatta anche di
questo”.
Il lettore va anche a Roma, e fa
scorrere il tempo, tra Villa Borghese, Villa Sciarra, il Gianicolo, il Cimitero
dei Poeti al Testaccio, Villa Torlonia.
O si rifugia a Biel/Bienne, la città di Robert Walser – “il più disadattato degli scrittori contemporanei”,
eppure “anche il campione della libertà narrativa” – che passeggiava senza un
fine, senza una meta, per il solo piacere di passeggiare.
Girovagando per Parigi, il
lettore penetra nel Jardin du Luxembourg, e si siede sulla panchina da cui “prende le mosse I miserabili di Victor Hugo”.
E vola a Mosca, nei dintorni
degli stagni Patriaršie, per
appisolarsi sulla panchina citata nelle pagine iniziali de Il maestro e Margherita
di Michail Bulgakov.
Felice di questo vagabondare,
impara a oziare, per riflettere, per meditare: “una buona panchina fa sentire
al riparo chi vi si siede, e fa apparire il suo ozio come un’attività non
soltanto legittima, ma di qualità superiore, da intenditore (…). Una panchina
perfetta è come una piega del mondo,
non un luogo nascosto ma una zona franca, liberata o salvata”.
Sebaste regala al lettore un
itinerario splendido, ricco di stimoli, che si allunga oltre il tempo e lo
spazio, un viaggio dantesco - più purgatoriale e paradisiaco che non infernale
- nel quale è possibile dialogare con i personaggi di Henry James, di Jack
Kerouac, di Robert L. Stevenson – “che fa accadere su una panchina la
trasformazione del dottor Jekyll in mister Hyde” – o di Thomas Mann, di Dostoevskij, di Flaubert, di Walter
Benjamin – “il grande critico e filosofo che ha fatto del vagabondaggio urbano
(flânerie) un
metodo”.
Si lascia coinvolgere, il
lettore, nelle pagine di Maigret e l’uomo della panchina, il “capolavoro letterario delle panchine”
di Georges Simenon. E va a teatro per godersi le opere di Samuel Beckett, che rappresentano
“quasi interamente un dare voce, a volte balbettio, a un universo di barboni,
reietti, uomini e donne anziane e infermi, spesso immobili su una panchina (…).
Se tutta la scrittura di Beckett ha la povertà e l’essenzialità di una
panchina, il suo teatro ne è come una grande estensione, anche metaforica”.
E rilegge, il lettore, le
“prime apparizioni delle panchine nei romanzi italiani”, dal “sapore verista o
scapigliato”, di Verga nelle Novelle
rusticane, di Federico Tozzi nel Tre
croci. Indugia sui versi di Vladimir Holan, di Rilke, di Baudelaire.
Si sofferma sull’L’infinito di
Leopardi, “il più bel testo letterario dedicato al «qui e ora» (…), e nello
stesso tempo all’oltre, al sogno, all’evasione dall’essere, all’infinito
appunto (…). Poiché l’infinito è il desiderio, ed entrambi sono incolmabili,
col loro vuoto si può però stringere un patto, dolce come il naufragare”. Assiste,
il lettore, alle lezioni di estetica di Luciano Anceschi, e riflette, sui passi
dello Zarathustra di Nietzsche, un
libro che “non ci sarebbe stato senza una panchina: di fronte al lago di
Sils-Maria il filosofo stava infatti «seduto ad attendere/ attendere ma senza
attendersi nulla/ al di là del bene e del male»”.
“Scrittori da panchina”, questi
sopra citati: nelle loro opere c’è una “descrizione scrupolosa dei gesti
ordinari, carichi di una verità e di un’esattezza che solo una voce e uno
sguardo appartati, pacificati, estranei alla giostra dei valori dominanti,
sanno vedere e dire”.
Ma scopre, infine, il lettore,
che ci sono politici attenti e pedissequi nel levarle, le panchine, come è
accaduto in passato a Treviso, a
Trieste e in molti comuni del Nord
amministrati dai leghisti o dal
centrodestra: “Sopprimere le panchine è diventato un modo politicamente
corretto di rimuovere i poveri (…). I poveri sono ormai gli extracomunitari.
Clandestini non sul piano geografico, ma ontologico”.
E incontra, invece, il lettore,
cittadini che si ribellano, uomini di cultura che protestano: “in comun i ga la
fobia del cul (…); appena uno si siede, gli corrono dietro con la sega”; “Non
sono i barboni che danno fastidio. Siamo noi, perché vogliamo sederci gratis.
Senza consumare”. Insomma, panchine rimosse perché “di sinistra” e panchine
auspicate e pretese, perché è “di destra” rimuoverle.
Il lettore - scorrendo le
pagine di questo diario, pensato e redatto “in panchina” - rivede anche le scene
esilaranti dei mitici Stan Laurel e
Oliver Hardy, che, seduti su una panchina, indicano, nei loro dialoghi surreali
- ingenui ma lucidissimi - “il luogo
a volte magico di una deriva tragicomica, e (…) la poesia di un nomadismo che
resiste, anarchico e irriducibile, all’imperativo dell’ordine e del successo”.
E assiste ai film di Wenders e di Antonioni, ascolta le
musiche di Neil Young, di Georges Brassens - struggente, la sua canzone Les amoureux des bancs publics. Infine,
si accomoda metaforicamente sulle panchine dipinte o scolpite dagli artisti
contemporanei: Costantin Brancusi, George
Segal, Kan Yasuda, Massimo
Bertolini, Christian Boltanski, Alberto Garutti.
Sebaste ha scritto Panchine per restituire al mondo la
gioia di una lettura che si oppone alla noiosa precettistica della pedagogia
scolastica, capace solo di allontanare i giovani dal piacere della fruizione
dell’opera d’arte, in particolare di quella letteraria.
Per celebrare il carattere
festivo della lettura, e della panchina: “La panchina è domenicale. Ma la
panchina è sempre vacanza - domenica - anche quando vacanza non c’è, e anche di
lunedì”.
Per rivendicare il diritto al
riposo, al godimento gratuito dell’oggetto estetico: “oggi stare in panchina è
un’anomalia sociale (…). Se non si è anziani, donne incinte o con carrozzina,
se si è maschi o femmine adulti, chi sta seduto su una panchina è poco
raccomandabile. Nel migliore dei casi è un disoccupato, uno sfaccendato, vita
di riserva da ignorare”.
Ha scritto, Sebaste, un omaggio
alla rêverie, al fantasticare trasognato che si profila come quiete,
appagamento, comunione con la vita, contemplazione in zazen: “essere seduti
intensamente, osservando senza oggetto. Senza scopo (…). Nessun finalismo, pura
gratuità”.
Ha scritto, Sebaste, un libro che
indica la libertà, la leggerezza, il buon gusto. Un atlante della letteratura,
le cui singole mappe – segnate con un tratto delicato – sono state studiate con
raffinata ponderatezza. Un libro necessario, un libro felice.
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