mercoledì 16 maggio 2012

Su Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne


Beppe Sebaste, Panchine. Come uscire dal mondo senza uscirne, Laterza, (2008) 2011, pag. 175, euro 9.50


recensione di Adele Desideri
 
Strano saggio, Panchine. Strano e interessante.
Beppe Sebaste, l’autore, ha cercato, e scovato, panchine in ogni parte d’Italia, d’Europa, e anche oltre oceano. Non le panchine della movida, quelle esterne ai bar, ai ristoranti, o alle panetterie e alle salumerie di lusso. E nemmeno le panchine dei giardini, o di certi “salotti” cittadini che fanno capo alla voce nuovo “arredo urbano”; panchine monoposto, con annessa fioriera e, magari, dotate della presa di corrente per alimentare il PC: “false panchine”, secondo Sebaste.
L’autore, infatti, preferisce riposare – e leggere – accomodato tranquillamente sulle “panchine verdi di una volta”, nei parchi, sui lungofiume, nei conventi. Panchine appartate, che sembrano messe lì per caso, “semplici e spartane”. Panchine vere, “asociali”, e “anarchiche”, simboli della “poetica degli interstizi, delle zone d’ombra o di opacità che si sceglie di guardare e raccontare”.
Ma perché Sebaste prova un amore assoluto - quasi ossessivo - per le panchine?
Perché “leggere un romanzo e stare seduti su una panchina sono attività molto simili (…). Leggere è un atto anarchico (…) non ha né deve avere (…) nessuno scopo da raggiungere né servizio da eseguire. (…), come l’opera d’arte secondo Kant”.
Stare seduti su una panchina, appunto, col naso all’insù, a guardare il cielo, in posizione un po’ rannicchiata, con un libro tra le mani... Così, nel magico incontro tra panchine e letteratura, Sebaste trova l’ispirazione per comporre un’autobiografia culturale, un manifesto di critica militante, e, insieme, di filosofia della lentezza: “fare poesia, fare arte, significa (…) avere cura delle soste (…), al limite fermare il traffico, come nei sit in. Soffermarsi, non appena sia possibile, sulle panchine, isole nel flusso frenetico del mondo”.
Il lettore, allora, scorre le pagine di Panchine - scritte con un ritmo quieto eppure ben scandito, con uno stile fluido e chiaro, appassionato e colto - e si diverte. Esattamente, si diverte: attraversa sentieri colmi di umorismo, strade che evocano affetti antichi e profondi, incroci che fanno convergere la malinconia dell’età adulta con le utopie e la creatività goliardica degli anni della gioventù.
Viaggia, il lettore, e visita Gstaad, Ginevra, il quartiere di Brera a Milano, Bologna, il Parco Ducale di Parma, Lerici, il Golfo dei poeti, il lungomare di Viareggio, Capalbio, Napoli, Capri. E poi, ancora, Venezia, dove le panchine “appaiono in qualche isolato campiello, epifanie al quadrato”, e Padova - i Giardini dell’Arena, la Cappella degli Scrovegni - Monza, il lungolago di Como, Verona,  Genova, Portofino, Santa Margherita, Palermo.
Oppure si reca a New York, si sofferma sulle panchine di Central Park, “descritte nel sempreverde Il giovane Holden di Jerome D. Salinger”. E passa per Lisbona: lì, sulle panchine, si pratica la Saudade, descritta da Antonio Tabucchi – ne I volatili del Beato Angelico – come “un cammino arduo”, durante il quale “le sensazioni non sono immediate, talvolta l’attesa dura persino degli anni. Ma, lo sappiamo, la morte è fatta anche di questo”.
Il lettore va anche a Roma, e fa scorrere il tempo, tra Villa Borghese, Villa Sciarra, il Gianicolo, il Cimitero dei Poeti al Testaccio, Villa Torlonia.
O si rifugia a Biel/Bienne, la città di Robert Walser – “il più disadattato degli scrittori contemporanei”, eppure “anche il campione della libertà narrativa” – che passeggiava senza un fine, senza una meta, per il solo piacere di passeggiare.
Girovagando per Parigi, il lettore penetra nel Jardin du Luxembourg, e si  siede sulla panchina da cui “prende le mosse I miserabili di Victor Hugo”.
E vola a Mosca, nei dintorni degli stagni Patriaršie, per appisolarsi sulla panchina citata nelle pagine iniziali de Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov.
Felice di questo vagabondare, impara a oziare, per riflettere, per meditare: “una buona panchina fa sentire al riparo chi vi si siede, e fa apparire il suo ozio come un’attività non soltanto legittima, ma di qualità superiore, da intenditore (…). Una panchina perfetta è come una piega del mondo, non un luogo nascosto ma una zona franca, liberata o salvata”.
Sebaste regala al lettore un itinerario splendido, ricco di stimoli, che si allunga oltre il tempo e lo spazio, un viaggio dantesco - più purgatoriale e paradisiaco che non infernale - nel quale è possibile dialogare con i personaggi di Henry James, di Jack Kerouac, di Robert L. Stevenson – “che fa accadere su una panchina la trasformazione del dottor Jekyll in mister Hyde”  – o di Thomas Mann, di Dostoevskij, di Flaubert, di Walter Benjamin – “il grande critico e filosofo che ha fatto del vagabondaggio urbano (flânerie) un metodo”.
Si lascia coinvolgere, il lettore, nelle pagine di Maigret e l’uomo della panchina,  il “capolavoro letterario delle panchine” di Georges Simenon. E va a teatro per godersi le opere di Samuel Beckett, che rappresentano “quasi interamente un dare voce, a volte balbettio, a un universo di barboni, reietti, uomini e donne anziane e infermi, spesso immobili su una panchina (…). Se tutta la scrittura di Beckett ha la povertà e l’essenzialità di una panchina, il suo teatro ne è come una grande estensione, anche metaforica”.
E rilegge, il lettore, le “prime apparizioni delle panchine nei romanzi italiani”, dal “sapore verista o scapigliato”, di Verga nelle Novelle rusticane, di Federico Tozzi nel Tre croci. Indugia sui versi di Vladimir Holan, di Rilke, di Baudelaire. Si sofferma sull’L’infinito di Leopardi, “il più bel testo letterario dedicato al «qui e ora» (…), e nello stesso tempo all’oltre, al sogno, all’evasione dall’essere, all’infinito appunto (…). Poiché l’infinito è il desiderio, ed entrambi sono incolmabili, col loro vuoto si può però stringere un patto, dolce come il naufragare”. Assiste, il lettore, alle lezioni di estetica di Luciano Anceschi, e riflette, sui passi dello Zarathustra di Nietzsche, un libro che “non ci sarebbe stato senza una panchina: di fronte al lago di Sils-Maria il filosofo stava infatti «seduto ad attendere/ attendere ma senza attendersi nulla/ al di là del bene e del male»”.
“Scrittori da panchina”, questi sopra citati: nelle loro opere c’è una “descrizione scrupolosa dei gesti ordinari, carichi di una verità e di un’esattezza che solo una voce e uno sguardo appartati, pacificati, estranei alla giostra dei valori dominanti, sanno vedere e dire”.
Ma scopre, infine, il lettore, che ci sono politici attenti e pedissequi nel levarle, le panchine, come è accaduto in passato a Treviso, a Trieste e in molti comuni del Nord amministrati dai leghisti o dal centrodestra: “Sopprimere le panchine è diventato un modo politicamente corretto di rimuovere i poveri (…). I poveri sono ormai gli extracomunitari. Clandestini non sul piano geografico, ma ontologico”.
E incontra, invece, il lettore, cittadini che si ribellano, uomini di cultura che protestano: “in comun i ga la fobia del cul (…); appena uno si siede, gli corrono dietro con la sega”; “Non sono i barboni che danno fastidio. Siamo noi, perché vogliamo sederci gratis. Senza consumare”. Insomma, panchine rimosse perché “di sinistra” e panchine auspicate e pretese, perché è “di destra” rimuoverle.
Il lettore - scorrendo le pagine di questo diario, pensato e redatto “in panchina” - rivede anche le scene esilaranti dei mitici Stan Laurel e Oliver Hardy, che, seduti su una panchina, indicano, nei loro dialoghi surreali - ingenui ma lucidissimi - “il luogo a volte magico di una deriva tragicomica, e (…) la poesia di un nomadismo che resiste, anarchico e irriducibile, all’imperativo dell’ordine e del successo”.
E assiste ai film di Wenders e di Antonioni, ascolta le musiche di Neil Young, di Georges Brassens - struggente, la sua canzone Les amoureux des bancs publics. Infine, si accomoda metaforicamente sulle panchine dipinte o scolpite dagli artisti contemporanei: Costantin Brancusi, George Segal, Kan Yasuda, Massimo Bertolini, Christian Boltanski, Alberto Garutti.
Sebaste ha scritto Panchine per restituire al mondo la gioia di una lettura che si oppone alla noiosa precettistica della pedagogia scolastica, capace solo di allontanare i giovani dal piacere della fruizione dell’opera d’arte, in particolare di quella letteraria.
Per celebrare il carattere festivo della lettura, e della panchina: “La panchina è domenicale. Ma la panchina è sempre vacanza - domenica - anche quando vacanza non c’è, e anche di lunedì”.
Per rivendicare il diritto al riposo, al godimento gratuito dell’oggetto estetico: “oggi stare in panchina è un’anomalia sociale (…). Se non si è anziani, donne incinte o con carrozzina, se si è maschi o femmine adulti, chi sta seduto su una panchina è poco raccomandabile. Nel migliore dei casi è un disoccupato, uno sfaccendato, vita di riserva da ignorare”.
Ha scritto, Sebaste, un omaggio alla rêverie, al fantasticare trasognato che si profila come quiete, appagamento, comunione con la vita, contemplazione in zazen: “essere seduti intensamente, osservando senza oggetto. Senza scopo (…). Nessun finalismo, pura gratuità”.
Ha scritto, Sebaste, un libro che indica la libertà, la leggerezza, il buon gusto. Un atlante della letteratura, le cui singole mappe – segnate con un tratto delicato – sono state studiate con raffinata ponderatezza. Un libro necessario, un libro felice.

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