lunedì 5 novembre 2007
L'altra metà
di Renzo Cremona
(l'illustrazione di Mauro Cicarè si ispira al Visconte dimezzato di Calvino e si trova ne Il caffè illustrato)
I
quando si rese conto che erano in troppi dentro di lui e che tante erano le cose che lungo il cammino aveva preso dal mondo, lo spazio già scarseggiava da tempo. le pile di libri accatastati negli angoli della memoria, le scatole sigillate con i ricordi mai scartati, le impronte lasciate libere di percorrere le piastrelle della cucina erano diventate una mappa di strade intasate in cui qualsiasi viaggiatore sarebbe stato di troppo. perché la stanza che lo abitava non soffocasse, decise allora che avrebbe intrattenuto rapporti soltanto con mezze persone alla volta.
e fu questo che fece il giorno in cui conobbe caio: lo creò a sua immagine e somiglianza, ci parlò, ci dormì assieme, ci fece anche qualche escursione, visto che era estate e i boschi offrivano molta ombra, e prese poi di lui quello che gli sembrava andar meglio. una cosa la teneva, l’altra la lasciava, un’altra ancora la spuntava ed altre, infine, le amputò. fu così che ne rimase fuori metà. dopo di che decise di farlo entrare nella propria vita, che era una casa male illuminata con finestre che alla notte guardavano verso l’esterno e porte che sbattevano ad ogni corrente d’aria.
in questo modo passarono per tizio i giorni e le settimane. passarono mentre ascoltava musiche provenire dalle soffitte del suo cervello: mai che arrivassero attutite, sempre troppo vicine, sempre troppo forti, come se avesse delle cuffiette. passarono anche i mesi, senza che tizio si accorgesse che non era caio quello che gli dormiva accanto. non si voltava mai a vedere che quello riposava solo su un fianco, e che il profilo visibile era sempre lo stesso. l’altra metà gliel’aveva fatta lasciare fuori, dove il giardino cominciava a coprirsi lentamente di neve e le impronte si perdevano sempre di più, giorno dopo giorno.
ma ci sono delle notti in cui, nei sogni, tizio è libero di girare per la casa. è allora che sente, passando per il corridoio, che qualcuno bussa alla porta. sa che è l’altra metà che reclama di entrare: per questo da anni ha fatto murare l’ingresso e potete ancora vedere, se ci passate davanti, l’erba crescere a dismisura fino a coprire il nome sul campanello. è lì che in genere suona la sveglia e tizio si alza, coricato sull’unico lato che non gli è di troppo, il lato al quale ha concesso di rimanere con lui, mentre l’altro è da anni sepolto in cantina. anche lì non c’è più molto spazio, del resto, ma non importa: tanto è buio e non si vede niente.
II
sul biglietto da visita il tempo, così come ci si presenta, si spaccia per chirurgo dal bisturi infallibile. si tratta in realtà di uno studente di medicina che ha mollato a metà i corsi e gli esami, di quelli, tanto per capirci, che se arrivano a completare il gioco prescrivono solo antibiotici e psicofarmaci quasi senza far visite e, di tanto in tanto, rattoppano con pezze le ferite aperte.
III
già durante l’ultima guerra si era posto il problema, quando i partigiani di quel paese dalle consonanti per molti versi impronunciabili avevano preso l’abitudine di chiedere agli invasori infiltrati un nome: quello di una città di confine che, in fatto di consonanti, era più intricata di un cespuglio di rovi. seguiva, a seconda dell’esito – rapido, tra l’altro – del breve esame orale, la fucilata o l’abbraccio. per passare l’esame, quindi, non bastava cavarsela brillantemente solo in geografia: la giusta media richiesta dagli standard di sopravvivenza quotidiana prevedeva che anche la parte di lingua dovesse come minimo raggiungere la sufficienza. in caso di sospetti, perciò, si procedeva a ripetere l’interrogazione. traditi dalla pronuncia, dunque, da quell’insopprimibile colore di cui si tingono le parole quando più sono esposte al sole.
anche noi, come quegli infiltrati, siamo spesso traditi dalla pronuncia che ci portiamo appresso, anche noi non di rado abbiamo una consonante che ci rimane inceppata tra la lingua e i denti, dove, pure in stato di non belligeranza, il pensiero alle volte si ferma e le parole escono nude, con gli abiti impigliati in trincea un secondo più indietro.
IV
passa le notti a cucire e a scucire, a mettere e a togliere rattoppi, costante de’ cosimi, commerciante inquieto con l’ossessione della sartoria, convinto com’è che la vita che ci portiamo addosso sia come un abito della taglia sbagliata sempre un po’ più largo o sempre un po’ più stretto il quale, forse, solo con il tempo e a costo di pieghe, scuciture e tagli riusciremo a fare aderire a quello che siamo. solo a costo di tagli, è stato detto infatti, e di rammendi, bisognerebbe aggiungere, e di tanti, tantissimi strappi.
V
non conosce riposo né di giorno né di notte, ora che ha trovato il modo per dare inizio al suo tanto atteso progetto. pazzo, folle, delirante lo chiamavano i colleghi, volevano persino farlo radiare dall’albo, rinchiuderlo e buttar via la chiave, addirittura, ma arturo fabbri, architetto di matematica precisione e comprovata abilità, non ha tempo da perdere con le chiacchiere e, senza dare ascolto a nessuno se non alla propria voce, ha con tenace costanza messo mano al piano che lo condurrà alla progettazione di un edificio perfetto dalle fondamenta fino all’ultima tegola. è così che costruirà il palazzo maiuscolo tanto agognato, quello che chiunque ritiene impossibile ma che lui sogna tutte le notti, tutte le ore e ad ogni minuto: la struttura impeccabile che regga, finalmente, tutti i pesi della vita.
il sito dell'autore www.renzocremona.it
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