E fu ad un passo
da te la confidenza col silenzio.
Non l’udisti il tempo ladro entrare
Battista Trapuzzano, Giorni d’indizi
Eravamo nati nello stesso anno, Mimmo aveva soltanto qualche mese in più di me. Lui è morto in un non remoto luglio. All’alba di quell’estate mediterranea Mimmo aveva visto sorgere il sole dal mare, in una spiaggia solitaria dello Ionio. Il mio amico Mimmo. Negli anni, e ne sono trascorsi tanti da un primo incontro tra i banchi di scuola, siamo sempre rimasti in contatto. Distanze di luoghi e di scelte non ci hanno mai separato.
Adesso che per lui il tempo si è fermato, chissà se siamo ancora coetanei. È un pensiero inutile che mi è venuto in mente in questa primavera. Una bizzarria. Al computer dove scrivo, ascolto Louis Armstrong.
Ah, il tempo. Settembre del 1971. Il nostro primo viaggio per conto nostro, io e Mimmo. Non avevo ancora 16 anni. Dalla Calabria raggiungemmo in treno Roma dove mia sorella frequentava l’università. Una improvvisa libertà ci travolse. Niente genitori, niente ore precisamente previste per il rientro a casa, i pasti, il sonno, lo studio. Spalancavamo gli occhi davanti alle ragazze che indossavano striminziti pantaloncini di moda, era l’esordio scandaloso degli hot pants nelle grandi città. Talvolta Mimmo veniva scambiato per un turista straniero. Si rivolgevano a lui in inglese e noi due non capivamo granché, col nostro povero inglese mai parlato al di fuori di un’aula scolastica. Ci addormentavamo sul bus che di notte ci portava in periferia, su un colle, dopo una intera giornata trascorsa in giro per Roma. E rischiavamo di perdere la fermata per Monte Antenne, nel luogo del nostro campeggio.
Già allora, nei miei spostamenti, mi faceva compagnia un libro. Nel viaggio a Roma avevo nello zaino Le due facce del tempo di Robert Silverberg. Un romanzo di fantascienza che parlava di viaggi nello spazio percorsi a una velocità prossima a quella della luce. Nell’avventura narrata da Silverberg scoprii il cosiddetto “paradosso dei gemelli”. Se un gemello rimane sulla Terra e l’altro viaggia su una astronave alla velocità prossima a quella della luce, al ritorno sulla Terra l’astronauta troverà suo fratello più vecchio di lui.
Già, il tempo. Da quel settembre trascorse meno di un anno. Il tempo tornò a Roma nel 1972. La statua della Pietà sparì momentaneamente e riapparve nel marzo del 1973, rinata ma imprigionata nel tempo. “Non fatta di marmo da mano mortale ma discesa divinamente dal Paradiso” scrisse il letterato Benedetto Varchi in occasione dell’orazione funebre in onore di Michelangelo.
Vidi la Pietà a San Pietro nel 1970, quando giunsi per la prima volta a Roma, accompagnato da mio padre in una sorta di rito di iniziazione. La seconda volta fu con Mimmo, varcata ormai la “linea d’ombra” che mi divideva dall’infanzia.
Fino al 1971 si poteva contemplare la Pietà da pochi metri, senza alcuna reale separazione fisica o ostacolo alla visione. C’era soltanto una piccola balaustra che indicava gentilmente il confine tra il profano e il sacro. Nelle due visite, rimasi a contemplare la Pietà dissolto nello spazio indicibile non corrotto dal tempo. Di recente mi sono reso conto di una specie di ulteriore “paradosso dei gemelli” rappresentato da quella statua sublime. La Madonna ha l’età di una ragazzina, forse non supera i 15 anni, mentre il figlio morto, il Cristo deposto tra le sue braccia, ne ha 33.
In un giorno di primavera del 1972, un giovane uomo scavalcò facilmente la balaustra e colpì per 15 volte, con un martello da geologo, la statua della Madonna. Le frantumò il naso, le spezzò l’avambraccio sinistro, danneggiò un occhio e parte della guancia. Dopo l’arduo restauro, nella primavera del 1973 la Pietà fu di nuovo visibile, posta nello stesso spazio di San Pietro. Venne però rinchiusa nella gabbia di un vetro antiproiettile. Era giunto il verme del tempo.
Negli anni, sono tornato centinaia di volte a Roma. Oltrepassare l’ingresso della chiesa di San Pietro e giungere nello spazio riservato alla Pietà sembra adesso una impresa da percorso bellico, talmente tanti sono i controlli a cui vengono sottoposti i visitatori. Ricordo quando con Mimmo entravamo in chiesa dalla porta centrale, senza controlli e file estenuanti. L’unica attenzione era rivolta agli abiti indossati dai visitatori, che dovevano essere consoni al luogo sacro. Potevamo contemplare l’opera di Michelangelo senza il filtro di una lastra di vetro.
Forse l’aggressione alla Pietà ha sancito simbolicamente la fine del periodo di pace a Roma, che perdurava dalla conclusione dei massacri della Seconda Guerra Mondiale. Da allora sono progressivamente aumentati la vigilanza poliziesca e militare e i relativi divieti, ovunque, in ogni zona della città e della vita pubblica. E il mondo sembra adesso in soporosa attesa di una catastrofe bellica globale. La caduta nell’abisso del tempo.
Nel 2025, all’inizio di aprile, l’esercito tedesco, per la prima volta dopo il 1945, ha schierato le proprie truppe armate al di fuori dei limiti nazionali, vicino al confine della Bielorussia, preparandosi a un potenziale conflitto nei prossimi anni.
Mi incammino ogni giorno su un sentiero tortuoso tra oscurità e luce. E ritrovo ancora la Pietà, nell’ineffabile spaziotempo che non ha né inizio né fine.
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