lunedì 15 dicembre 2025

IL NATALE NELLA TRADIZIONE POPOLARE



Il Natale nella tradizione popolare rappresenta una festività princeps, vuoi per la fortissima attrazione cristiana, vuoi per le reminiscenze legate al Dies Solis. “Soli Deo Honor” scolpito in Chiesa poteva significare “Onore a Dio solo”, ma anche “Onore al dio Sole”. Ricordiamo almeno tre momenti legati a questa festa, così intrisa di tenerezza e di nostalgia:

1) Il primo è la “notte bianca”, il 29 novembre. È la notte che precede la festività di Sant’Andrea apostolo. La croce di Sant’Andrea a livello equinoziale indica la via di mezzo trai grandi equinozi di autunno e di primavera. Ha un significato astrale notevolissimo, che si perde nella notte dei tempi e il cui significato profondo forse si è smarrito. Questo momento fisico è legato tra l’altro da un lato all’estate di san Martino e dall’altro a Santa Lucia, altra santa legata al forte significato della luce. Nella tradizione san Martino che taglia il manto per donarlo al povero viene premiato da Dio con una piccola estate. Nel calendario cosmico dei contadini che io avevo riportato trai saggi del Museo, il giorno di Santa Lucia, il 13 dicembre era descritto così:

A santa Lucia è tanda a notti e longa a ria
quantu u passu ra gaddina mia.


Un altro recita:

A sanda Lucia a jurnata s’allonga hi nu passu hi gaddina,
a sandu Aniello, hi nu passu hi picuriello.



Cioè nell’immaginario junghiano collettivo c’è assoluta parità tra giorno e notte, o un piccolo aumento del giorno rispetto alla notte. Prima di santa Lucia non si raccoglievano le olive, perché, si diceva:

– A sanda Lucia scenni l’ogghio inta l’alìa.

– A santa Lucia scende l’olio nell’oliva.

Nella notte bianca, cioè la notte della vigilia di Sant’Andrea, ci si dedicava ai preparativi del “presepio” in casa, oltre che dell’albero. La tradizione dell’albero non era legata tanto al Natale, quanto ai culti arborei estivi, in occasione della celebrazione della memoria di Sant’Antonio di Padova, il 13 di giugno, quindi al solstizio d’estate. Si procedeva all’accoppiamento dell’albero del faggio con quello del pino ed all’innalzamento. Sull’albero inizialmente erano appesi dei doni, trai quali povere vittime di animali che venivano colpite dal basso. Poi alla fine gli scalatori salivano cospargendosi di pece a ritirare i doni che erano rimasti. Per evitare il cruore degli strepiti degli animali ultimamente appendevano dei tacchetti di legno con dei doni scritti. L’albero di Natale della tradizione antica era legato pertanto più ai culti arborei estivi.

2) L’altro giorno importante legato alla tradizione natalizia è la memoria di San Nicola il 6 dicembre. Anche qui siamo in prossimità della festa dell’Immacolata, l’8 dicembre, legata alla natività di Maria, l’8 settembre. San Nicola è importantissimo perché rappresenta l’idealtipo di quello che nell’immaginario collettivo è babbo Natale, non a caso chiamato nei paesi nordici Santa Claus. Molte sono le leggende legate a questo santo, molto venerato a Bari, tra cui quella del padre che voleva far prostituire le figlie. San Nicola di notte lancia nella casa di quest’uomo un panno con avvolto il denaro, in cui era contenuta la dote per il matrimonio delle figlie. San Nicola donava ai poveri, portava i regali ai poveri, ecco perché è equiparabile a questa figura ancestrale del vecchio babbo Natale. Interessante perché anche in questa sera si lasciavano le porte aperte la notte, perché veniva qualcuno a portare i doni e si accendevano le candele di cera d’api che si lasciavano accese tutta la notte. Era un momento di forte condivisione in cui si donavano gli alimenti e le derrate alle famiglie più bisognose. Questa memoria di san Nicola poi va rapportata a quella della Befana, questa vecchia che va in giro lo stesso a portare i doni, o i carboni, dopo il Natale. I doni erano racchiusi in queste calze, dove si riponevano noci, frutta secca, qualche soldo. La sera, di solito, veniva tirato il travetto e chiusa la porta. Lasciavano poi in cambio un piattino col cibo, perché babbo Natale, o la Befana, avevano fame e dovevano mangiare.

Ricordo un canto popolare molto intenso di Avigliano che riporta questa figura della vedova, che la sera non chiude la porta aspettando il marito, ma c’è anche il doppio senso della sessualità - il travetto, infatti, rappresenta il fallo:

La pena ri la virua eglia è la sera,
tutti li mariti s’arritirinu,
e lu miu no, e lu miu no.

Lu mengo o nu lu mengo stu travetto
inta la mascatura.



E un’altra canzone faceva:

A voilì, a voilà,
li femmini senza menni nun si ponnu marità.


Reminiscenza delle dominazioni francesi nelle parole. E poi.

La via ri lu Ponciu iè scuruta,
ra quannu la figlia mia s’è maritata.

Lasciare aperta la porta significava aspettare i mariti che tornavano la sera dalle bettole, dove andavano a condividere qualche bicchier di vino. Spesso tornavano ubriachi. Un fatto racconta di una moglie che era arrabbiata col marito e teneva una tenzone, proprio come nella canzone “Lu maritiello” di Toni Santagata:

– E quedda votte nun avirria caccia mancu na stidda.
– E quedda stidda ca avirria esse iumara.


3) Infine si arriva alla sera di Natale: momento veramente forte e molto intenso. I preparativi al Natale erano notevoli, duravano giorni. Tra le specialità culinarie legate al Natale vi erano le zeppole di Natale, fatte con impasti di farina ed uva passa. Le zeppole di Natale erano differenti da quelle di San Giuseppe, che erano solo a base di farina e zucchero ed erano fritte, o al forno, o condite con crema. Altri erano i “canestri”, fatti a base di ceci e di miele. Altri erano i “cavuzuni” ripieni di varie cose, sia dolci che salate, come salsiccia e uova. Ricordiamo anche la “cuccìa” di Santa Lucia, a base di grano e ricotta. Dalle nostre parti la “cuccìa” si faceva anche con crema di castagne ed era buonissima: simbolo del grano nascente, quando il grano valeva come l’oro. Naturalmente non mancava l’agnello arrosto sul fuoco e i “maccaruni”, cioè i fusilli, i “rascateddi”, o cavatelli; come piatto popolare del carnevale erano “li maccaruni cu u rafanu”, una radice piccante che veniva grattugiata. I maccheroni cotti e conditi poi venivano scaldati sul fuoco. Sul coperchio di rame si poneva la brace. E che sapore! La pignatta e la “caldara” bollivano sempre con qualcosa accanto al focolare. Il sapore della “ruscedda” con l’acqua dei fagioli, ad esempio, era strepitoso. Erano piatti semplici, ma gustosi. Le zeppole di Natale poi si indurivano, ma scaldate si potevano mangiare anche a distanza di giorni.

La notte di Natale era straordinaria. Nella vigilia non si toccava niente, era sempre digiuno, o si mangiavano solo verdure, questa norma era valida per tutte le solennità, anche a Pasqua. La sera si andava ad assistere la funzione in Chiesa fino alla mezzanotte, si attendeva la nascita di Gesù Bambino. Quando non c’erano ancora le illuminazioni si accendevano tutte le candele dei lampadari ed era uno spettacolo. Quando arrivò la luce, infatti, don Giuseppe Iacovino ebbe ad esclamare: – Addio lucerne! Addio candele!

Poi cantavano tutti i canti natalizi, soprattutto quelli di Sant’Alfonso, come il “Tu scendi dalle stelle” e “Quannu nascette Ninnu”, ma anche altri canti popolari. Solo dopo la messa e la veglia di Natale festeggiavano e mangiavano. La cosa bella è quando celebravano la messa in latino, allora la gente ci capiva poco e più delle volte accomodava al dialetto. Ad esempio, il canto “Tantum ergo sacramentum” lo sentivi trasformato in

Quantu è granni stu cummentu,
è du mille e setticentu…


E durante la messa succedevano cose strane. Una volta un prete che aveva mandato a rubare degli agnelli, vide i complici che arrivarono in Chiesa e cominciò a cantare in latinorum:

– Avit purtatu li mbè mbè!
– Li mbè mbè so fusciute!


Dopo la messa tornavano a casa a mangiare e bere, come se avessero fatto un ramadan. E poi partiva la processione di Natale. Anche questa, come tutte le processioni religiose e laiche era particolarissima. Innanzitutto soffermiamoci su alcuni aspetti:

I falò di Natale. In tutti i vicinati si accendevano dei falò, col significato di dover scaldare Gesù bambino. Attorno a questi falò era sempre gran festa. Arrostivano carne, patate, cipolle sotto la cenere. Questi falò erano significativi e ve ne erano alcuni durante l’anno che sempre si facevano: quelli di San Giuseppe, il 19 marzo a sera con le ginestre che scoppiettavano. Bellissimo! E i fuochi di San Giovanni, il 24 giugno. Corrispondevano generalmente ai solstizi: primavera 21 marzo; estate 21 giugno; autunno 21 settembre e inverno 21 dicembre. Il solstizio autunnale spesso veniva anticipato agli inizi di settembre, prima della transumanza dei pastori nelle marine, con una festa mariana. A San Fele, ad esempio, il falò acceso la vigilia resta acceso fino alla notte di Natale, a Nemoli fino all’Epifania.

Il presepe vivente. In realtà era una processione lungo le vie del paese. Avanti passavano san Giuseppe e Maria col bambinello, seguivano i tre re magi, Melchiorre, Baldassarre e Gaspare con i doni, poi una fila di zampognari e i pastori. Non era raro trovare qualche animale che veniva portato in processione. Seguivano i preti con l’asinello che raccoglievano i doni e li riponevano nei cofani fatti di giunchi. I preti poi giravano anche le campagne e si fermavano a dormire la notte, magari presso qualche vedova. Queste processioni si facevano ogni tanto per ricorrenze festive. Ricordiamo quelle religiose, tra cui i santi patroni, come san Rocco, sant’Antonio, o Maria, la Madonna del Carmine e la Madonna del Rosario. Tra le processioni religiose particolarissima era quella del venerdì santo: i maschi seguivano Gesù morto nella parte alta del paese e le donne, invece, seguivano Maria addolorata nella parte bassa. Poi si riunivano tutti in piazza e tornavano in Chiesa. Tra le processioni laiche ve ne erano tante. Una piccola banda di musicisti, detta “arrivotapopolo” si avviava per le vie del borgo in un clima festoso. Una processione laica importante che si faceva era quella di Carnevale: si portavano due asini, su di uno riponevano un pupazzo che era “carnuvaro” e sull’altro “quaremma”. Seguivano la fila delle “farze”, o maschere, che giravano per le vie del borgo e cantavano col “cupi cupi”, uno strano strumento fatto in pelli di capra, simile ad un tamburello che reca un astuccio nella sommità. Questa processione girava il paese e raccoglieva i doni che poi venivano consumati nella festa. Anche qui veniva accompagnata dai canti in dialetto:

Aggiu saputo che hai acciso u porcu,
dammi la parti ri lu vuccularu.

Alla fine poi andavano a seppellire i due pupazzi, Carnevale e Quaresima, insieme a delle uova.
Poi lungo le strade si udiva l’eco dei canti popolari, tra cui il “Padre Nostro di Natale”, la ninna nanna, che riportiamo dalla raccolta curata da Antonietta Santo:

Gisù Bambinu nasci,
senza fasciatura, né fasci.

San Giseppu vecchiareddu
Stai assittatu a lu scanniteddu
E faciha u fochiceddu,
pi ‘mbucà li panniceddi.

E a Maronna u mira,
li teni li suspiri.
Ndù munnu è natu Gisù
U mali non ci sia cchiù.


Sottolineiamo naturalmente che tutti i bimbi venivano fasciati con queste bande e tenuti stretti per tanto tempo. Essere senza fasce significava essere in estrema povertà. Lo rimarca anche don Giuseppe Iacovino, che aveva composto o riportato tutti i canti delle novene degli antichi arcipreti della Parrocchia S. Spirito, sia i carmi che gli accompagnamenti musicali, tra cui la novena natalizia:

L’eterno, l’immenso nel tempo che nasce,
tra povere fasce avvolto ne sta.

O bambino mio divino, io ti voglio sempre amar,
io ti voglio sempre amar.


Molte erano le “razioni”, canti particolari in dialetto, legate alla vita dei santi che avevano tutto un significato particolare, tra cui quella di santa Barbara, di santa Lucrezia e di san Rocco.

Per concludere ricordiamo i presepi viventi celebrati in tutta la Lucania, in particolare a Matera, a Muro Lucano, a Filiano e un po’ dappertutto. Poi c’è una forte tradizione di produzione di presepi scolpiti, soprattutto a Matera, ricca di materiale tufaceo, quindi facile da modellare. A Castronuovo ci sono tante grotte scavate nella roccia, sede dei presepi, e rappresentazioni sacre. A Terranova sono noti i “Piperi”, traslitterazione di pifferi che incantano le notti della novena di Natale. A Montescaglioso particolare era la processione dei “cucibocca”, personaggi misteriosi vestiti di grossi mati scuri e con barbe bianche e lunghe, simili a Babbo Natale. Questi personaggi girano per le strade a chiedere offerte, che poi venivano raccolte dalla befana e distribuite ai poverelli. C’è un’evidente allusione ad un ordine di maghi, che rievocano Merlino, colla catena ai piedi, fanno rumore quando passano. Questi maghi assistevano le streghe al Sabba, che era la festa della befana. C’è anche un’allusione alla festa dei morti. In effetti anche qui l’antica tradizione vuole che Gesù concedesse ai morti di uscire la notte di Natale e delle feste comandate. Vivi e morti convivevano in queste occasioni.

Reminiscenza di questi maghi erano i “Cerauni”, o maghi tempestari. Questi anche vivevano di elemosina. Una leggenda vuole che una volta i contadini del Piano dei Campi negassero loro l’offerta ed essi scatenarono una tempesta così forte che provocò una frana che si portò va tutta l’antica città di Planula. Si aveva paura di loro, perché, dicevano che mangiassero i bambini, o li rubassero per portarli alle loro compagne streghe, che li usavano per fare rituali magici. Ecco perché dicevano che se Natale cadesse di venerdì erano protetti dalle catastrofi naturali. Per respingere le tempeste dei maghi usavano strani rituali, come i “tredici punti di verità”, che sono riportati nel saggio “Il chicco d’oro” nel Museo del folklore. Tagliavano la terra col coltello e vi facevano scorrere un po’ di sangue: e la tempesta cambiava rotta. Una volta un prete scatenò una violenta tempesta contro il campo del suo vicino, che era suo fratello, il quale la respinse e la tempesta distrusse tutta la tenuta del prete e l’uccise. Quando il fratello vide chi era rimase esterrefatto: – Come hanno il manto così hanno la coscienza.

Entro Natale poi si dovevano concludere gli affari, pagare gli operai, apparare i debiti. I garzoni a Natale dovevano portare il gallo, o l’agnello ai “mastri” di qualunque grado. A Natale Pasqua era vietato fare attività di qualunque genere, portava male. Non si poteva fare il pane, né lavorare al lievito. A san Sebastiano, a san Fabiano e a sant’Antonio abate era vietato fare i salumi: era malaugurio. A Varese, ad esempio la notte di sant’Antonio abate si fa un gran falò e si buttano sulle fiamme delle letterine coi desideri e le preghiere, un po’ come quel prete di cui raccontava uno del Museo del Folklore che bruciava sulle candele le letterine che recavano le offerte.
Riprendiamo anche il “Padre Nostro di Natale” raccolto nei “Canti” di Antonietta Santo:

Pi li vii vozi andari,
pi li vivi e pi li morti,
e pi li sand pilligrini,
sanda Vrotica e sandu Runatu.

Veddiru na camicedda caricata.
Piglieru na preticedda
e la vulihinu minà.

Lassatili hi ca quisti
so li tririci cambani,
ca soninu a Pasca e a Natali.

Mbera ci stia a Virgini Maria,
na proffici d’oru mmanu tiniha.
Tagliava e cusìa.

Pi nnandi ci stia lu figliu soiu.
    – Nun vogliu chiangi, figliu meiu bellu,
    ca stanotti aggiu fattu nu mali sonnu.

    M’aggiu sunnatu ca li Iurei,
    t’avihinu pigliatu e a lu Calivariu
    t’avihinu purtatu.

    A curona d’oru t’avihinu livatu
    e na curona hi spini t’avihinu
    chiantatu.

    – Cittu, mamma mia, ca questa
    è a sorti ch’aggia fa hè,
    pi salivà l’animicedda vosta.



Maria qui viene equiparata ad una parca, o moira, che tesse i destini. Sui lupi mannari poi c’è tutta una reminiscenza di fatti e di saghe. Venivano chiamati anche i lupi “mainardi”, o “minardi”. Questi uscivano nelle notti di luna piena e bisognava stare attenti. Con la luna piena era sconsigliato infatti travasare il vino, piantare, fare gli innesti. Uscivano soprattutto nel periodo tra Natale e Capodanno, ma anche in altri periodi. C’è un collegamento certamente ai Lupercali latini. Molte contrade portano ancora il nome di siti romani, come Ruspagano (rus pagana), o Feroni (Feronia). C’era un tabu fortissimo: non bisognava mai mangiare la “carne allupata”, cioè toccata dai lupi “minardi”, o dai lupi in generale.

Chi mangia a carni allupata nu s’abbotta mai.

Chi mangia la carne toccata dai lupi non si mai sazia.


Cioè è preso da una brama insaziabile. I minardi erano esseri fantastici, come tanti altri della mitologia antica, fatti per metà uomo e metà lupo. Abitavano nelle grotte che conducevano al centro del mondo, al regno dei morti ed uscivano. Comparivano nelle notti di luna piena e divoravano le pecore, ma anche gli esseri umani. Non bisognava mai uscire nelle notti di luna piena e soprattutto avventurarsi fuori del paese.

Una volta una signora ignara, vedendo una luna che le pareva un sole, si sbagliò a vedere l’orologio. Erano le tre di notte e le parevano le tre di giorno. Si avviò in campagna. Vide i lupi minardi che la azzannarono e anche ella fu trasformata in una di loro. Non tornò più a casa. E i figli l’aspettavano. In una notte di luna piena si presentò innanzi la finestra e chiamo i figlioletti con un ululato. Poi li ammonì di non aprirla mai, perché sennò li avrebbe mangiati. Ma con l’aiuto di un mago, le fu concesso di vedere i figli fino al tramonto. Di giorno era una donna normale, ma al tramonto doveva uscire, perché si trasformava in una strega, o lupa mainarda. Una notte i cacciatori volevano uccidere la lupa, perché la consideravano portatrice di sventura, ed essa fuggì a casa. I figli e il marito impietositi la fecero entrare e per salvarla si fecero azzannare e furono tutti trasformati in lupi mannari. Entrati i cacciatori in casa li assalirono e li azzannarono ed anche essi furono trasformati in mezzi uomini e mezzi lupi. In poco tempo tutto il villaggio fu infettato da quel morbo che trasformava gli uomini in lupi. Nessuno più andava lì per secoli. Fu abbandonato e fu chiamato “Lupania”. Fu solo quando san Domenico Lentini di Lauria che si recò da quelle parti e fece una preghiera e tutti gli uomini-lupi tornarono ad essere umani, dopo tanti secoli e fecero una grande festa.

Somigliavano molto alle stilizzazioni del dio egizio Anubi: un uomo dalla testa di sciacallo, perciò erano collegati al mondo dei morti, anzi ne erano i guardiani. Non bisognava mai aprire la porta nelle notti di luna piena quando qualcuno bussava: potevano essere loro. Il lupo, ad esempio, presente in tante leggende, come in “cappuccetto rosso” forse rimanda a questo essere fantasmagorico. La lupa che allattò Romolo e Remo probabilmente era una di queste sacerdotesse, o una “minarda”. D'altronde è possibile che nelle saghe del Sabba, i sacerdoti delle streghe indossavano forse maschere con totem di animali, come i lupi, quindi questi “minardi” potevano essere, come i “cucibocca” e i “cerauni” antichi ordini sacerdotali pagani. Nella toponomastica, come nei soprannomi ci sono moltissime reminiscenze pagane. Citiamo solo, ad esempio, i “Ianari”, famiglie di stregoni. La Janara era la mamma delle streghe. Ma “ianara” ricorda Dianara, la sacerdotessa di Diana. Una di queste maghe potentissime era Rosa di Lampone, che faceva fatture a morte. Gli affatturati, come gli allupati, dovevano liberarsi ed andare dai maghi buoni per farsi togliere la fattura. Una volta un affatturato si gettava nelle ortiche e si grattava tutto il corpo. Buon Natale!

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