Maria Lenti, Apologhi in fotofinish
recensione di Gualtiero De Santi
Perdita e rigenerazione, come è stato osservato recentemente o meglio ancora rinvenimento. Le impronte e i segni di ciò che pensiamo aver perduto, o che semplicemente rimane alle nostre spalle, sopravvivono in una qualche misura imprimendosi nel nostro habitus. Nulla, nel pensiero estetico del Novecento ma anche del passato e di oggi, si vanifica sul piano simbolico tanto quanto su quello materiale.
L’interrogativo – prospettato o almeno implicitamente avanzato anche in Apologhi in fotofinish. Racconti e altri scritti di Maria Lenti (FaraEditore, Rimini 2023, prefazione di Manuel Cohen, una musicale e ben colorata copertina con illustrazione di Dante Zamperini) - è quale sia il mondo che è stato creato e che ci si è trovati a percorrere. Prospettiva da cui anche una materia leggera, liricamente trattata come in questo volume, si carica di significati che non lasciano innotate le questioni di maggior rilievo.
Il sottotitolo del libro di Lenti, accolto nella collana “Narrabilando” della Fara e che è agilmente risolto sul piano grafico, rinvia alla definizione di ‘Racconti e scritti’. In numero di 25 i primi, seguiti da 11 ‘Dintorni’, non divagazioni ma bensì escursioni in territorio marchigiano ma altresì nel passato recente e remoto, e poi 18 ‘Scritti diversi’.
In totale: 6 inediti e, tutti gli altri, interventi già apparsi sotto l’egida di diverse testate, tra cui la rivista «Il Segnale» dove nel giugno 2018, per la prima volta – almeno così direi - figurano i lemmi del titolo di cui sopra giusto nell’intestazione dell’intervento allora proposto: Apologhi sull’invidia in fotofinish. È il brano da cui viene aperto lo spazio dei Racconti e che qui, un po’ al modo di operette morali del nostro quotidiano, affronta l’Invidia e la paura (e poi nello scritto successivo la Gelosia) in forma di narrazioni autobiografiche. Del resto l’Apologo è un breve racconto che, con fini di esemplarità formativa, affonda nella realtà anche se lascia parlare animali e piante che però in Lenti tacciono.
Il libro, prezioso e sorprendente e comunque di godibile lettura, appare tutt’insieme molte cose: o meglio si presenta con una struttura che è sì il risultato di un accorpamento di articoli e saggi diversi ma divenendo prestamente narrazione autobiografica e ancor più scrittura di formazione che chiami a raccolta le numerose tessere del passato in uno specchio del presente. Nel quale specchio la modalità del fotofinish indica la sveltezza e la concisione dei singoli testi ma soprattutto quel qualcerto loro fantasiarsi in meraviglia e stupore e ugualmente in apparizioni e rivelazioni (ecco gli Angeli e le Amalassunte di liciniana memoria e su un livello più prosaico, il resoconto di ciò che avviene nell’agone letterario, si vada a leggere Concorso).
Oltre a ciò, una qualificazione non sottaciuta di tono morale, trattata con levità né troppo marcata o accentuata su un tasto grave, incontra una propria consecuzione sul piano reale, ma dopo che tutto è stato filtrato in memoria soggettiva che trasformi la forma in emozione e filo interiore. La stessa scrittura dell’autrice, concentrata ma appunto con accorto giudizio e luce mentale e conoscenza, anche corporea (al modo femminile) ma insieme quadrata e icastica, fratturata e dolorosa, avvia le frasi verso uno spazio dove si realizza in una maniera naturale l’unità tra le varie partizioni. Tutte aggettivabili e rubricabili nell’oscillazione tra passato e presente, tra le memorie di un veduto/vissuto nell’infanzia e nella prima giovinezza (e poi in un’età più compiuta) e una forma di immaginazione che non cessa di accendersi in bagliori e mappe affettive.
E che si lascia volta a volta investire dalla pregnanza di lemmi e nomi («Mi intriga il nome tenero, Olivuccio»), come altrettanto dalla dimensione orale (importante sul piano della poesia dialettale che la nostra autrice pratica e che anche qui fa capolino) e dalle evocazioni nel raccordo di sillabe e lettere: ad esempio nei richiami sonori tra Montelparo che è una località geografica e Elpenore, compagno di avventure di Ulisse, a riprova che scrittura e pensiero risalgono da faglie inconosciute e imprevedibili. Per cui ogni labilità e ogni possibile arbitrarietà cedono alle cose che nascono quasi per miracolo, ad esempio gli “alberini dell’infanzia” o i mille aerei rilievi del paesaggio marchigiano.
In definitiva, come è desumibile da alcuni passaggi della terza sezione, un libro che si nutre di ciò che ogni singolo autore rinviene in sé ma anche all’intorno, nelle cose e negli altri. Per cui anche una naturale costellazione di testi, come è nel caso di questi Apologhi, è così integrabile alla storia culturale e storica da farsi scrittura collettiva. «Se produce pensiero, l’Io-io assume il paradigma dell’io-noi». G
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