domenica 13 ottobre 2024

Un libro prezioso e soprendente

Maria Lenti, Apologhi in fotofinish

recensione di Gualtiero De Santi


Perdita e rigenerazione, come è stato osservato recentemente o meglio ancora  rinvenimento. Le impronte e i segni di ciò che pensiamo aver  perduto, o che semplicemente rimane alle nostre spalle, sopravvivono in una qualche misura imprimendosi nel nostro habitus. Nulla, nel pensiero estetico del Novecento ma anche del passato e di oggi, si vanifica  sul piano simbolico  tanto quanto  su quello  materiale.

L’interrogativo – prospettato o almeno implicitamente avanzato   anche in  Apologhi in fotofinish. Racconti e altri scritti di Maria Lenti (FaraEditore, Rimini 2023, prefazione di Manuel Cohen, una musicale  e ben colorata  copertina con illustrazione di Dante Zamperini) -  è  quale sia il mondo che è stato  creato e che ci si è trovati a percorrere. Prospettiva da cui anche una materia leggera, liricamente trattata  come in questo volume, si carica di significati che non lasciano innotate le   questioni di maggior rilievo.

Il sottotitolo del libro di Lenti,   accolto nella collana “Narrabilando” della Fara e che è agilmente risolto sul piano grafico, rinvia alla definizione  di ‘Racconti e scritti’. In numero di 25 i primi, seguiti da 11 ‘Dintorni’, non divagazioni ma bensì  escursioni in territorio marchigiano ma altresì nel passato recente e remoto,  e poi   18 ‘Scritti diversi’.

In totale: 6 inediti e, tutti gli altri, interventi già apparsi sotto l’egida di diverse testate, tra cui la rivista «Il Segnale» dove nel giugno 2018, per la prima volta – almeno così direi - figurano i lemmi del titolo di cui sopra giusto nell’intestazione  dell’intervento allora proposto:  Apologhi sull’invidia in fotofinish.  È il brano da cui viene aperto lo spazio dei Racconti e che qui, un po’ al modo di operette morali del nostro quotidiano, affronta l’Invidia  e la  paura (e poi nello scritto successivo la Gelosia) in forma di narrazioni autobiografiche. Del  resto l’Apologo è un breve racconto che, con fini di esemplarità formativa, affonda nella realtà anche se lascia parlare animali e piante che però in Lenti tacciono.

Il libro, prezioso e sorprendente e comunque di  godibile lettura, appare  tutt’insieme molte cose: o meglio si presenta con una struttura che è sì il risultato di un accorpamento di articoli e saggi diversi ma divenendo  prestamente  narrazione autobiografica e ancor più scrittura di formazione che chiami a raccolta le numerose tessere del passato in uno specchio del presente. Nel quale specchio  la modalità del fotofinish indica la sveltezza e la concisione dei singoli testi  ma soprattutto quel qualcerto loro fantasiarsi in meraviglia e stupore e ugualmente in apparizioni e rivelazioni (ecco gli Angeli e le Amalassunte di liciniana memoria e su un  livello più prosaico, il resoconto di ciò che avviene nell’agone letterario, si vada a leggere Concorso). 

Oltre a ciò, una  qualificazione  non sottaciuta  di tono morale, trattata con levità né troppo marcata o accentuata su un tasto grave, incontra una propria consecuzione sul piano reale, ma dopo che tutto è stato filtrato in memoria soggettiva che trasformi la forma in emozione e filo interiore. La stessa scrittura dell’autrice, concentrata ma appunto con accorto giudizio e luce mentale  e conoscenza,   anche corporea (al modo femminile) ma insieme quadrata e icastica, fratturata e dolorosa, avvia le frasi verso uno spazio dove si realizza  in una maniera naturale l’unità tra le varie partizioni. Tutte  aggettivabili e rubricabili nell’oscillazione tra passato e presente, tra le memorie di un veduto/vissuto nell’infanzia e nella prima giovinezza (e poi in un’età più compiuta) e una forma di immaginazione che non cessa  di accendersi in bagliori e mappe affettive.

E che si lascia  volta a volta investire  dalla pregnanza di lemmi e nomi («Mi intriga il nome tenero, Olivuccio»), come altrettanto dalla dimensione orale (importante sul piano della poesia dialettale che la nostra autrice pratica e che anche qui fa capolino) e dalle evocazioni  nel raccordo di sillabe e lettere: ad esempio nei richiami sonori  tra Montelparo  che è una località geografica  e Elpenore, compagno di avventure di Ulisse, a riprova che scrittura e pensiero risalgono da faglie inconosciute e imprevedibili. Per cui ogni labilità e ogni possibile arbitrarietà cedono alle cose che nascono quasi per miracolo, ad esempio gli “alberini dell’infanzia” o i mille aerei rilievi del paesaggio marchigiano.

In definitiva, come è desumibile da alcuni  passaggi della terza sezione, un libro che  si nutre di ciò che ogni singolo autore rinviene in sé  ma anche all’intorno, nelle cose e negli altri. Per cui anche una naturale costellazione di testi, come è nel caso di questi Apologhi, è  così integrabile alla storia culturale e storica da farsi scrittura collettiva. «Se produce pensiero, l’Io-io assume il paradigma dell’io-noi». G

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