venerdì 30 settembre 2022

I promontori dei destini incrociati

Quasi una recensione a Palinuro di Roberto Morpurgo, Il Convivio 2022

di Gianpaolo Anderlini





“Siamo indigeni o avventizi?”

(Battuta di Totò alla prima di Palinuro)



1. Tra la “sinossi” e “in calce”



“Palinuro” è un testo difficile (o per litote: non facile).

Da leggere e da rileggere.

Da soppesare parola per parola. Pausa per pausa.

Da digerire lentamente e magari a dosi omeopatiche.

Da meditare con lunghe pause magari sorseggiando un Johnny Walker (io preferisco l’Armagnac) o, per chi fuma, sniffando una Philip Morris o una Senior Service o un Virginia (ahimè, non fumo!). 

Da collocare in una topografia mentale che faccia meta nei due poli opposti e (forse) coincidenti, due promontori: il Conero e Palinuro.

Da lasciare fluire come se si trattasse di uno stream of consciousness di quattro voci distinte e sovrapposte. Un monologo a quattro voci o forse un soliloquio. Quattro silenzi che parlano e si perdono in una parossia (o forse parresia) locutoria che sfianca e, comunque, trae in inganno o dice per non dire o non dice per dire.

Da non chiedersi mai chi stia parlando e dove voglia condurci cosa mai quella fosse l’intenzione di quell’apparente vaniloquio (non oso dire parlare a vanvera perché le dramatis personae mai volgono le terga).

Da gettare dalla finestra, con alfieriana insofferente protervia, già a partire dalla seconda riga: “sottotitolo in calce”.

Ionesco?

Beckett?

James Joyce?

Italo Svevo?

No! Semplicemente (e arditamente) Roberto Morpurgo, che fa capolino ovunque col sorriso del ben noto tentatore (o ingannatore?)!


E in calce che sta scritto (lascio all’abilità dell’eventuale regista il mostrarvelo)?

“Madrigale per due estinti e due astanti”.

Estinti e astanti come scelta dirimente può andare, ma madrigale sa di musica cortese e di forme se non rigide almeno obbligate e scandite secondo schemi che sanno di una qualche tradizione.

Io direi piuttosto (se non me lo impedisse in questo oggi un diffuso ostracismo a tutto ciò che sa di russo) “Memorie dal sottosuolo”.


Per aprire, allora, le danze di questo (e sia!) madrigale, diamo voce alla sinossi (come ben si sa, roba più da concorso letterario che da pubblicazione):


“Presso i due luoghi rappresentati a sinistra e a destra dello spettatore – rispettivamente il Belvedere del Monte Conero e uno scoglio del promontorio di Palinuro – risiedono due persone, rispettivamente una giovane e un giovane (gli Indigeni), morti in quei paraggi molto tempo fa. Nella solitudine della strana eternità loro concessa e inflitta affabulano più o meno coerenti ricordi, immaginazioni, ipotesi sulla propria e altrui condizione, echeggiando molto spesso i dettagli principali del loro ultimo giorno: il sole, e il mare. In un tempo indefinitamente successivo si trovano a passeggiare dalle loro parti due persone meno giovani, un po’ antiquate ma esuberanti e un po’ demodè (gli Avventizi), che a loro volta, profittando della solitudine di quei due romitaggi naturali, si abbandonano a un’allocuzione personalissima e via via somigliante a quella degli Indigeni. Il sottotitolo posto in calce chiarisce la dimensione mai esplicita nel testo, cioè la possibilità di identificare gli Indigeni come estinti, e gli Avventizi come astanti.”  


L’ho letta all’inizio.

L’ho letta di nuovo alla fine.

L’ho riletta un’altra volta e un’altra ancora e, giuro, l’ho trovata fuorviante.

Roberto, (passami l’adagio popolare) ci vuoi forse far prendere lucciole per lanterne!

Ehi! Non si fa!


Abbandono la sinossi al suo destino e cerco altrove tracce e indizi e tu, dall’alto del tuo promontorio (o dei tuoi promontori) autorale, non mi dire sogghignando, da estinto o da astante, da Indigeno o da Avventizio: “Elementary, my dear Watson!”


Nota inserita a margine


Le parole di cui sopra (ed anche quelle di cui sotto) le ho scritte quando ancora Palinuro era un manoscritto, ed ora, a pubblicazione avvenuta, alla sinossi aggiungo le parole della prefazione di Angelo Manitta:


“Tutto ciò conduce a una indagine sull’uomo contemporaneo, sulla sua resistenza e fragilità che si esprime non solo nel lessico umbratile e onirico, a cui abbiamo accennato, ma anche nel concetto di solitudine. Un regno tra l’esser vivi e non più vivi, esser morti e non più morti, che però guarda all’esistenza, alla possibilità di conoscere e riconoscersi, al dramma-fortuna della solitudine. In pratica, si rivela un processo di riacquisizione di se stessi e della topografia, la condizione del limite, tra consistenza e inconsistenza, lo specchio dell’Io e del suo possibile sgretolamento.”


Belle parole in linea con la Sinossi e con il testo, ma non con il lettore!

Io, che mi qualifico come lettore, ho come l’impressione che Autore e prefatore si siano lasciati trascinare dal gioco della trama e dell’ordito o, da altro punto di vista, da ciò che in potenza e da ciò che è in atto.

A me pare che si punti troppo sull’ordito, cioè su ciò che appare alla superficie, e non si insegua la trama, ciò che è sotteso al testo e che emerge da qualche indizio rivelatore, quei motti di spirito che tanto intrigavano Freud o forse solo quelle immagini che lo specchio non riflette perché lo sguardo punta ad altro.

O forse è solo un fatto di topografia perché il lettore è nel suo altrove e non nel Conero/Palinuro, recto e verso della stessa medaglia?

Agli astanti/estinti l’ardua sentenza!



2. Dammi due parole (e due luoghi)


Indigeno e avventizio, perché?

Tra tante parole, sinonimi e non, perché proprio quelle due?


Le due parole, quasi un segno invisibile che definisce i quattro personaggi a due a due, sono così decrittate dall’Autore:


Le dramatis personae. Identificate e ‘esaurite’ nelle rispettive denominazioni, che ne riassumono le funzioni essenziali: risiedere (Indigena e Indigeno) e transitare (Avventizia e Avventizio). Nessuno di loro è presente agli altri, né perciò con altri interagisce se non sé stesso.”


Questo (forse) non basta. 

Metto la maschera e mi vesto anch’io da dramatis persona e parlo e parlo per portarvi altrove e non so dove.

Al Conero?

A Palinuro?

Un mio amico un po’ strano direbbe: “Altrove, comunque”.

Indigeno.

Prendiamoci una bella definizione di quelle articolate da vocabolario serio e paludato:


indigeno agg. [dal lat. indigĕna, comp. di ĭndu (= in-) e -gena (v. -geno)]. – 1. Che è nativo e originario del luogo. Comunem. si dice di popolazione (o dei singoli individui che la compongono) che, a quanto è noto, risulta essere sempre esistita in un dato territorio e non immigrata: quindi sinon. di aborigenoautoctononativo. Il termine è stato usato spec. con riferimento alla colonizzazione europea, per indicare i nativi dei luoghi occupati, in opposizione ai colonizzatori e conquistatori europei: le popolazioni idell’America Meridionale (spesso sostantivato: gli i., i nativi); truppe i., reclutate nelle colonie (in opposizione alle truppe metropolitane). 2. a. Analogam., in zoologia, di specie animale non importata; in botanica, di pianta che cresce spontanea, cioè non coltivata né importata, in un dato territorio. b. Per estens., di cose prodotte, fabbricate nel luogo e dalle genti del luogo: i prodotti d’importazione fanno forte concorrenza a quelli indigeni; e più genericam., di tutto ciò che è originario di un luogo: la lingua i.; parole i.; i costumi indigeni.”


Indigeno, col suo carico etimologico e storico-culturale, non è autoctono (sa troppo di terra), non è aborigeno (sa troppo di studio etnologico), non è nativo (sa troppo di occupazione di terra altrui), non è locale (sa troppo di bar).

Per me che (per fare il verso a Carducci) “so legger di greco e di latino”, quella parola suona come un’eccezione studiata in quarta ginnasio (o forse in terza media): i nomi della prima declinazione in -cola e -gena al genitivo plurale fanno -um.

Indigeno, pertanto, è qualcosa che non segue il normale volgersi delle cose di questo mondo (e lo vedremo meglio dopo) e, poi, (ironia delle parole!) deriva da una radice latina che significa “generare” e che quindi ha a che fare con la vita e non con la morte.


Avventizio.

Se indigeno è ambiguo, avventizio è problematico e doppiamente ambiguo.

Affidiamoci di nuovo al vocabolario serio e paludato:


“avventìzio (ant. avventìccio o avvenitìzio o avvenitìccio) agg. [dal lat. adventicius, der. Di advenire «arrivare»]. – 1. Venuto da fuori: gente a.; la borghesia più piccola e l’avventizia del contado (Carducci); vocaboli a. (Machiavelli). In partic.: peculio a., in diritto romano, quel complesso di beni (bona adventicia o peculium adventicium) che il filius familias acquistava per eredità o per donazione; nella filosofia cartesiana, idee a. (in contrapposizione alle idee innate e alle idee fattizie), quelle che ci vengono fornite dai sensi. 2. Per estens., instabile, incerto, provvisorio, detto di persone e di cose. a. Impiegato a. (o avventizio s. m.), nell’impiego pubblico, impiegato assunto al di fuori dei posti previsti in organico e di regola con lo scopo di provvedere a necessità straordinarie e transitorie della pubblica amministrazione. b. Di cose: guadagni a., incerti, occasionali. In tipografia, lavori a. (o d’occasione), piccoli lavori per il commercio o per privati, come fatture, circolari, biglietti da visita, partecipazioni di nozze o di morte, ecc. […].”

Se indigeno, in qualche modo, indica stabilità e continuità, avventizio sta per instabilità e discontinuità; indigeno bianco e avventizio nero; indigeno yin e avventizio yang; presenti e assenti l’uno all’altro; necessari e allo stesso tempo non utili per comprendere sia l’uno sia l’altro.

Non so se vado errando per strade solo mie, ma avventizio, dal latino advenīre “giungere”, mi porta altrove perché ognuno è figlio della propria storia, dei propri studi, delle proprie letture, dei propri sogni, delle proprie solitudini e, aggiungo, dei propri fallimenti.

Avventizio mi conduce a Catullo (e a Foscolo, s’intende!):


Multas per gentes et multa per aequora vectus

advenio has miseras, frater, ad inferias

ut te postremo donarem munere mortis 

et mutam nequiquam alloquerer cinerem


“Dopo aver viaggiato per molte genti e per molti mari

sono giunto, o fratello, a questi tristi riti funebri,

per darti l'ultima offerta di morte

e dire parole invano alla muta cenere.”

(Catullo, Carme 101, 1-4)


Avventizio è colui che giunge (Catullo) o che non giunge (Foscolo) alla tomba o al luogo di morte di colui di cui si vuole fare memoria o di colui che ritorna alla memoria o che la memoria non abbandona mai. Là (e in ogni altrove) il parlare è vano perché la cenere (forse) non ascolta. Ma l’avventizio, chiunque egli sia, comunque, non sa che la cenere in qualche modo parla inascoltata in quell’altrove che è solo dell’indigeno e a cui l’avventizio accedere (per ora) non può; quando, poi, l’avventizio raggiungerà il suo altrove e si farà indigeno, il suo parlare muto sarà rivolto a se stesso o a chi, comunque, non ascolta e non può ascoltare, indigeno o avventizio che sia.

Non è vero (John Donne non me ne voglia) che nessun uomo è un’isola; non siamo parte di nessun continente, siamo scogli dispersi in mezzo al mare della vita/morte, sbattuti dalla onde e devastati dal sole, e ci illudiamo di vivere e di sopravvivere.

Non sappiamo, fino a che non lo sperimentiamo, che la morte è la sola verità. Ma quando apprendiamo quella verità tutto diventa inutilmente chiaro e luminoso e si è solo estinti o astanti (in quell’altrove) in modo definitivo.

Per dirla con le parole di Fabrizio de Andrè: “questo ricordo non vi consoli / quando si muore si muore soli”. E aggiungo: (forse anche) quando si vive si vive soli (ma non ce ne accorgiamo).


Quello che è strano è che, alla fine di tutto, trattandosi di una pièce teatrale e non di un dialogo di leopardiana memoria, queste due parole, indigeno e avventizio, restino nel copione e compaiano solo di straforo nelle battute sceniche senza mai definire e individuare in modo certo (lo dico per gli eventuali spettatori) i personaggi; pertanto sono una sorta di trama invisibile su cui si costruisce l’ordito delle parole che si intrecciano inconsapevolmente e in absentia con altre parole di altri, estinti o astanti che siano.


E i luoghi?

Il Conero è luogo famigliare, battuto e ribattuto. È l’alba.

È detto nelle note di regia:


“Il luogo rappresenta uno dei belvedere del Monte Conero, e precisamente quello che si affaccia a strapiombo sulla spiaggia delle Due Sorelle.”


E l’Indigena così ne fa memoria:


“orbene come lo chiamava colui, codesto posto? È un monte, stando al nome. Ma quale? Dio. Come se non bastasse la memoria, ora ci si mette anche l’amnesia! E sia. Ah, Monte - Conero. Che strano nome, più che a un monte sembra cucito su misura alla gobba di un anziano medico condotto. (Pausa) O di un sarto yiddish avvizzito alla candela. (Pausa) Di un maestro di scuola eventualmente giubilato.”


Al Conero è la consuetudine a farla da padrone. Tutto respira e si muove in modo conosciuto.

Non c’è (forse) nulla da scoprire e tutto sembra essere quello che è o quello che è stato o quello che, nonostante tutto, estinto e astante, sarà.

Palinuro, invece, è luogo di un mare altro, volto altrove. 

Da scoprire e in cui perdersi. È il tramonto.

È il mito che si oppone alla realtà (o che forse si confonde con la realtà).

Di questo luogo è detto nelle note di regia:


“Il luogo rappresenta una delle propaggini scogliose della rocca-promontorio di Palinuro, e idealmente quella su cui fece naufragio il mitico Palinuro, il nocchiero di Enea tratto in fraudolento inganno dal dio del Sonno.”


E l’Indigeno così lo descrive:


“non risponde, eh? Lo sapevo, c’era altresì da giurarlo. Né una Senior Service né una Aston Martin, in questo miserando angolino di mediterraneo. Lui, le sue maledette curve e le loro maledettissime grotte. Ma che splendore infine. Prima le terrestri e i loro cupi rupestri disegni rossi, poi Palinuro, con le sue verdi spelonche submarine e i suoi tramonti a rasoio radente su quell’ultimo scoglio. Fu là che dovetti a mia volta smarrirmi?”


A Palinuro è il mito (e, quindi, il simbolo) a prevalere.

Inganno (la vita è un inganno? È il dio che ci inganna?).

Sonno (la vita è sonno e la morte il risveglio?).

Morte (l’ultima svolta o un nuovo inizio? Iniziare a tacere o a parlare davvero?).


Dove si è indigeni e dove si è avventizi?

Al Conero come a Palinuro

In ogni luogo.

In nessun luogo.

Nei luoghi, infatti, ci si perde e non ci si ritrova mai anche quando ci si incontra.

Tutti tendiamo a Palinuro anche se abbia le braccia appoggiate al parapetto del Belvedere del Conero.

Tutti tendiamo al tramonto là dove il sole affoga e si spegne.

Gli antichi egizi, che la sapevano lunga sulla morte e sull’aldilà, chiamano i morti “gli occidentali” (amentyu) e forse è vero che ad oriente/Conero si nasce e ad occidente/Palinuro si muore o si vive il sonno altro.

Chi sa / mi yodé‘a? 

(Direbbe Qohèlet).




3. Così è (se vi pare e anche no)


Provo a dare una soluzione (una delle tante) agli enigmi.

[Nota di regia aggiunta: i personaggi mentre parlano tengono in mano la Settimana enigmistica e la sfogliano, lentamente gli Indigeni, concitatamente gli Avventizi.]


Due Indigeni/estinti: Indigena (che è anche stinta) e Indigeno.

Due avventizi/astanti: (Avven)tizia e (Avven)tizio.


Due (non)/(post)incontri.

Indigena e Avventizio.

Indigeno e Avventizia.


Due metatopie (mi si perdoni il neologismo).

Dal Conero a Palinuro (Indigeno)

Da Palinuro al Conero (Avventizio)


Due sintopie (mi si perdoni di nuovo il neologismo).

Indigena al Conero.

Avventizia a Palinuro.


Quattro attori e quattro attanti.

Indigena è la terra.

Avventizio è il cielo/aria.

Indigeno è il mare/acqua.

Avventizia è il fuoco (e che fuoco! A sentire lei!).

Quattro elementi.

Il mondo intero.


E poi, quasi all’improvviso e dalle viscere profonde, sorge un dubbio e s’insinua come un porcellino tra le righe e le parole: Indigeni e Avventizi, estinti e astanti sono le stesse figure a parti invertite o che progressivamente si invertono?

Siamo come in un cerchio e, se ti muovi, non sai dove sia e chi sia Indigena, chi Indigeno, chi Avventizia, chi Avventizio?

Per aprire il cerchio chiuso bisognerebbe disporre su quattro colonne diverse le battute dei quattro personaggi in ordine di apparizione: Indigena, Indigeno, Avventizio, Avventizia (è un chiasmo di genere!). Così facendo avremmo il castello dei destini paralleli e non il castello dei destini incrociati, avremmo quattro storie ma non “la” storia, quella che non c’è e che non può esserci.

Se non è così, Roberto mi smentirai ed io sorriderò dicendo: “Ci ho provato!”. Ma anche se mi smentirai, forse è così lo stesso!

In fondo, lector in fabula!



4. Vita e morte sono solo un gioco (?) – Catalogo provvisorio dei motti di spirito e dei calembours


Con una certa frequenza le parole si fanno gioco di parole (motti di spirito, direbbe Freud) e mostrano, come in una galleria di specchi deformanti, le diverse facce dei personaggi (nascoste ed evidenti) e le nostre (quella mia di lettore e quella tua di autore) evidenti e nascoste. 

Facciamo qualche passo in questo percorso alternativo tra motti di spirito e calembours che caratterizzano i personaggi e proviamo a tracciarne un catalogo (provvisorio).


“Indigena: correvi dietro a ogni ragazza come per riprenderti qualcosa che ti avesse rubato. Come fosse una ra-gazza la-dra. Ah ah! Ti è piaciuta vero? Ma perché solo adesso poi.”


Indigeno: […] E non è strano dover ammettere di trovarsi infine in riva a un – deserto? Io che ne ricordavo le acque - debbo dunque essermi lasciato trarre in inganno. Forse un riflesso, forse un’onda, diciamo quindi: una duna anomala. “


“Avventizio: quanto al futuro, vai a sapere. Certo è che il vento a questa media altitudine non è più raffica né ancora turbinio. (Quasi compitando le sillabe) Non più bleso come brezza né ancor teso da dare ebbrezza! L’ideale, per noi aviatori: un simulatore naturale come se ne trovano ormai pochi nei paraggi. E anzi: se non ho inteso male, giù a valle la chiamano garbino, questa brezza, e alcuni addirittura Garbì – troncato ma con tanto di accento sul moncherino. Da non dirsi! Un vento con un soprannome da bastardino - e dunque un bastardì! Ah ah!”


“Avventizia (Mano a visiera e occhi strizzati all’orizzonte): e tu! Come sei bello, però. Col tuo fascino rosso – potresti anche persuadermi a rinunciare alla sua bella barchetta, alle sue eventuali fuoriserie e a tutti gli annessi d’une vie vraiment à la plage (Errore del personaggio).”


“Avventizia: ma per fortuna che di quando in quando ci è concessa un po’ di sacrosanta solitudine. Certe volte fa bene parlare un po’ fra sé e sé, così tanto per svagarsi. Per ingannare il tempo: l’unico individuo di razza maschile al quale non puoi mai farla, mai, nemmeno se pregassi Iside in corna e ossa. (Pausa) Certo, come negare che si ha sempre bisogno di qualcuno, e al diavolo il pudore, diciamo pure di un lui. Svergognata? Sincera. (Pausa)”


“Avventizia: […] Dunque chi mi vieta di pensarmi e già che ci sono di sapermi nei tuoi sogni di allora? La bella che non ti riuscì di conquistare, l'unica, l'intangibile. Ma ora posso darmi a te anima e corpo, amor mio, mio bel – insomma come preferisci che ti chiami, mio bel… boh? Oibò, proprio beau – bello, e già perfetto. Beau – Philip – ti va? Tanto per fare un saltino oltremanica. (Pausa) Ma perché allora te ne andasti tanto in fretta? Non ti andavano a genio le mie maniere, un po’ spicce, è vero, ma in fondo abbastanza ingenue da poter passare per semplici spavalderie.”


“Avventizio: […] E l’altitudine è perfetta, la brezza accarezza gli alettoni e accelera la combustione, sicché atterri sempre un attimo prima del previsto. E anche dell’imprevisto – ah ah! – mi è piaciuta questa, buffo che mi sia uscita di bocca proprio adesso che ho smesso di volare.”



Forse ho esagerato con le citazioni e forse, saltando di pagina in pagina, mi sono perso qualche battuta ma è giunta ora di tirare i temi in barca ( ti è piaciuta questa?).

Facciamolo con le parole di Indigeno:


“Indigeno: vuoi vedere allora che sia questa, la beatitudine: esserne parte e non poterne mettere a parte alcuno? (Pausa) Del resto è proprio vero quel che da più parti si sente dire e che solo i pappagalli si rifiutano di ripetere: la vita è un sogno da cui non ci sveglia il giorno.”


Se la vita è un sogno da cui non ci si sveglia il giorno, forse tutti viviamo in una sorta di Matrix (bello il film!) che ci ottunde e ci confonde.

Ma forse è altrove che si deve guardare.

La vita e la morte sono solo un gioco di carte e può darsi che l’ultima mano non sia l’ultima, come la prima potrebbe non essere la prima.

Forse.

O meglio con le parole che chiudono questo monologo a quattro voci:


“Avventizia: ma dico io ci deve ben essere un posto da qualche parte dove qualcuno in qualche modo pur ti aspetta, o se non altro aspetta qualcun altro, e se non sei tu peggio per te. Vorrà dire che avrai perso l’ennesimo treno. E pensa se invece fosse stato l’unico! L’ultimo? Chi può dire ormai.”


E così (almeno mi pare) nell’ossessione del senso di ciò che è ultimo, Avventizia è Indigena, è Indigeno, è Avventizio. 

È, allo stesso tempo, astante e estinta.

È la coincidentia oppositorum. Ciò che inizia con Indigena termina con Avventizia e in lei tutto si fa complicatio, tutto si ripiega e si sovrappone.

O forse è solo l’illusione della parola ultima e lo stesso discorso vale per Avventizio, per Indigena e per Indigena.

O forse è solo un riflesso del sole che tramonta e che non ci lascia vedere le cose come sono (o come ci illudiamo che siano).


E qui mi taccio.

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