giovedì 25 marzo 2021

Il pifferaio tragico

Recensione in forma di fiaba che cita una fiaba

di Gianpaolo Anderlini

 

 

Se, senza cedere a spinte fondamentaliste ma per puro gioco,  Dio (o semplicemente dio) lo si scrive D-o (o semplicemente d-o), non è più “l’Essere perfettissimo, creatore del cielo e della terra”, il Motore immobile, l’ens nihil quo maius cogitari potest (ed altro ancora come ad ognuno piace), e diviene all’improvviso una delle note della scala musicale.
La prima (dirà qualcuno), ma pur sempre una (dico io) e che è tale solo unita o contrapposta ad altre sei in una scala che sale o che scende a seconda di come si muovono le mani. E per di più una nota da sola non suona o se suona è un monotono rimbombo, un rumore di fondo che disturba.
Il povero Dio che all’improvviso si ritrova D-o e che, per giunta, non sa nemmeno suonare uno strumento o intonare un canto, inizia a lamentarsi e manda come messaggero (D-o in persona non si scomoda più) il buon Guittone (quello d’Arezzo), il quale subito mi apostrofa: «Ma veramente la prima note è UT, “affinché”, la finalità prima e ultima del creato, questo è Dio e non il tuo d-o!»
Ed io, fatto un inchino a mo’ di riverenza al cospetto di cotanta scienza, gli rispondo a tono (e non a nota e, se fosse Dio, invece gli risponderei a tuono): «Veramente Ut divenne D-o quando quel tuo Dio così preciso e onnipotente confuse le carte e si sbagliò , perché , si sa, anche ai migliori capita di sbagliare, e a quanto sembra fu proprio ciò che accadde a Dio (p. 20). Che fece? Dopo avere creato Caino, accingendosi a donargli il fratello che lì per lì pensò potesse tenergli compagnia, nella fretta di consolare in tal modo la sua solitaria creatura fece scorrere talmente in fretta il dito della mano sinistra sulla sua arcaica tastiera che al posto di una B digitò una D: e al posto di un Abele gli nacque una Adele (p.20). E dato che il divino artefice era ancora stordito per il primo (errore) da lui stesso commesso (p. 21) mutò il suo nome da UT a D-o. Ti basta?»
Guittone, per non andare oltre e non venire a conoscenza di cose che mai avrebbe voluto conoscere di quel suo UT tanto perfetto da non ammettere stonatura alcuna, se ne torna da dove era venuto intonando un d-o di petto perfetto e prolungato senza svirgolare di un hertz.
E D-o, che non sappiamo quanto sia intonato perché ha fatto voto di silenzio, sembra quel serpente, aforista come il Principale, che si mangiò la coda sino a scomparire dal “menù” (p. 156), un uroboro autofago, insomma.

E qual è il menù?
La vita?
La storia?
Il non-senso che è l’unico senso?
La parola?

Se la parola è il menù che ci fa uomini, occorre chiedersi da dove viene e dove va, e non c’è dubbio che tutto ciò nasconda un segreto che solo le parole di una fiaba per adulti mai stati bambini (o forse di adulti che si riscoprono bambini, come quel fanciullino di cui ciarlava Pascoli) può rivelare:

«Era muto come una tomba. Ognuno gli confidava il proprio segreto. Sinché un giorno – non avendone mai tradito alcuno – esplose come un palloncino troppo gonfio. Le membra del suo corpo furono pietosamente raccolte da una delle sacerdotesse di Osiride, che per l’occasione le ribattezzò Parole.» (p. 156).

Ecco cosa sono le parole: sono le dilaniate e disperse membra di un nuovo Osiride che dà senso al mondo sul crinale tra la vita e la morte, con entrambi i piedi sul versante nero (o forse bianco o bianco-nero) dell’Aldilà. Fatto sta che a morire non sono solo gli uomini (e gli animali e il mondo) ma anche le parole:

«Due parole stavano, povere e malandate, in completo silenzio a cavalcioni di un muricciolo non meno solitario. Ma a un tratto una si liberò l’animo: “Se nessuno ci pronuncerà entro stasera, saremo spacciate” sentenziò.
“Lo so, lo so” rispose l’altra “lo so bene. Il guaio è che non possiamo essere noi a pronunciarci.”» (Due parole, p. 29).

E le parole per non morire si nascondono e giocano, si danno in forme e in agglomerati (in)usuali e traggono in inganno, come se tutto fosse non in ciò che è detto ma in ciò che non è detto ma lasciato intendere tra parola e parola, nel vuoto che le separa e nelle funi invisibili che le tengono unite, nel segreto che non è in una parola né in un’espressione, ma si cela e s’insinua, tale il serpe benigno del riscatto, fra parola e parola, e al di sotto di ciascuna come un muschio che nemmeno un leopardo oserebbe sfiorare. (Delicato pensiero, p. 25)

L’intoccabile è l’indicibile o ciò che diciamo non dicendolo o dicendo altro o tacendo o sogghignando o nascondendo il mistero e il segreto in un witz, in un motto arguto, in un apologo, tutte cose che nessuno vuole più ascoltare perché teme che una voce nascosta dietro al numero di pagina, sussurrandogli all’orecchio, gli dica: “Fabula de te narratur”. E, quando ciò avviene, il re è nuovamente nudo.
Ed eccomi, per evitare altri incontri e per non parlare a chi ode ma non ascolta, mi sono messo a declamare le fiabe ad una ad una (“Antifiaba”, “Bordeaux”, “Caino e Adele”, e via di seguito dalla prima all’ultima – si legga all’occorrenza l’indice) sotto a un lungo portico popolato di statue di marmo, di erme e di busti. Tutti attenti, nessuno fiata, nessuno se ne va scocciato, tutti sembrano capire tutto, quand’ecco che il busto di un allampanato barbuto, che si palesa per essere un tale Esopo, mi rimbrotta e, borbottando come un pentola colma di fagioli, dice: «Che fiabe sono se non ci sono animali!!»
Ed io subito paro il colpo e con destrezza getto in angolo la palla: «Animali? Eccoti serviti i tuoi esopismi!»
E riprendo a declamare calcando il tono e puntando l’indice a quell’Esopo bello in busto:

«Quando lo scimpanzé discusse la sua tesi di dottorato in antropologia, l’esemplare che aveva portato con sé per addurre una prova definitiva della sua tesi – L’uomo sa parlare ma ancor più tacere – insomma quella bestiola al guinzaglio gli morse la lingua, sicché della sua tesi rimase il titolo proiettato sul muro, e un unico strepitio di infastidito dolore diffuso per tutta la sala: ma nulla si venne a sapere dell’argomentazione destinata a suffragare un titolo tanto inusitato.» (Esopismi, p. 39)

Ne vuoi un’altra ancora?

«Un leone con una sola bocca disse a una cicogna con un solo becco: io ho una bocca ma tu nemmeno una. E la cicogna: e io un becco e tu nessuno. E di lì a breve quella che a chiunque sarebbe parsa un’avvisaglia di tempestosa inimicizia si mutò come per dispetto verso quel chiunque nell’anticamera di un bellissimo appartamentino coniugale.» (Esopismi, p. 43)

Ed ora basta, sono quasi le dieci di sera, siamo in zona rossa e devo rientrare a casa prima che inizi il coprifuoco e, una volta tornato là, in Via Silvio Pellico, vorrei anch’io forgiare una quarantenna (non una quarantenne) e fare della mia prigione il luogo che diviene sempre quel nuovo che perdendo la testa si fa uovo e l’uovo, si sa, si sgretola man mano che si edifica il pulcino, senza indugio tornando a quella polvere cui ogni altro è appena più tardi destinato. (La quarantenna, p. 101).
Seguendo le evoluzioni sinuose della mia quarantenna (ora ce l’ho anch’io!) mi sono perso e non so più a che pagina sono e a che fiaba.
Chiudo il libro, lo ripongo e mi addormento lasciando una lunga bava sul cuscino come una lumaca che cerca di correre ma non ha le zampe.
Dormo contento perché, leggendo e rileggendo, sognando e trasognando, mirando e rimirando, al termine del tutto ho preso due piccioni con una fiaba.
Ed alla fine agli arcigni e paludati recensori, che tutto sembrano capire e che sempre hanno qualcosa da ridire, passo la penna strappata a un pavone che più non si pavoneggia:

stretta la foglia
larga la via
scrivete le vostra
che ho scritto la mia.


Oppure, guardano il mondo dall’altro lato (della pagina s’intende):

La loquela e la favella
fanno l’anima sì bella
che se invece impreca
e rutta
ella stessa si fa brutta.

(Animania, p. 13).



P.S. Preso da tante chiacchiere e da tali incontri ho dimenticato di indicare il libro da cui ho tratto le citazioni e del quale ho scritto come chi ritorna sui suoi passi e in qualche modo e in qualche luogo si ritrova.
Eccolo qua: Roberto Morpurgo, Ondinotte. Fiabe per adulti mai stati bambini, Fara Editore, Rimini, 2020.

Il libro è leggero e se vi cade su un piede vi farà solo sorridere.

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