lunedì 4 marzo 2019

Iconogrammi: dipinti alfabeti* (Roma, 7-8 marzo 2019)





Non sappiamo di quanta memoria disponga il nostro cervello, quale capienza possa reggere e quale siano i limiti del ricordare, ma sono convinto, almeno per quel che mi riguarda, che la maggior parte di quell'archivio, sensoriale e razionale, sia occupata da immagini e da parole, dalle tracce prodotte dal senso che ho certamente più usato nella mia vita e da un lascito di pensieri e libri, di letture e discorsi ascoltati, raccolti.
Dunque da una parte concetti depositati in forma idiomatica e dall'altra percetti fissati in immagini o in visioni cinetiche. Sempre che di parti diverse si tratti, come fossero stanze separate di conviventi.
Il nostro corpo sarà anche costituito per più della metà di acqua, ma i liquidi amniotici della mia persona sono composti soprattutto da immagini e parole.
Tutto questo impasto tra verbo e visione, tra la vita e l’arte, ha qualcosa a che vedere con la sintesi coniata da Quinto Orazio Flacco: Ut pictura poesis. Soprattutto quando approfondisce quel parallelismo sostenendo vi siano poesie che vengono comprese meglio se viste da lontano come un grande quadro, mentre altre andrebbero osservate da una postazione prossima, quasi interna. Così anche nel campo della pittura vi sono immagini immediatamente accessibili, limpide, mentre altre sono destinate a rilasciare enigmi simili a certi passaggi poetici, a certi scorci della vita.
Al concetto di giusta distanza ho più volte cercato di anteporre una giusta vicinanza nelle esperienze esistenziali, convinto che tutto il vissuto sia un’opera, sia l’opera.

Sono tornato di recente a frequentare il mio primo mondo di stili, che negli ultimi anni avevo conservato ma messo da parte, come una valigia di ricordi nel ripostiglio. Ho provato a declinare quelle forme, quei gesti alla lingua, alle parole usate e sono nati degli alfabeti quasi in modo spontaneo. Dopo averne portato a compimento uno, quello d’uso, mi sono rivolto a idiomi e caratteri differenti, misteriosi dalla mia postazione. Dal Latino sono passato al Greco, poi all’Ebraico e all’Arabo, le quattro colonne alfabetiche che sostengono la parte di mondo in cui sono nato e vissuto.
Alla stessa maniera ho visto nei generi pittorici, del nudo, del ritratto, del paesaggio o della natura morta, una sintesi del nostro repertorio visivo. Le radici grammaticali della visione.





I gesti abituali della pittura sono divenuti lettere, eloquenti e mute, come una luce mossa nel buio, che lascia una scia sfumata, da cometa, dove i caratteri alfabetici diventano i simboli di una chimica del linguaggio, che lega insieme pensieri e persone.
Allora una lettera si trasforma in una figura in posa e può contenere già tutta la parola, l’azione; un intero racconto, prima ancora di averlo letto.
Così come le immagini di un volto o di un corpo hanno talvolta il potere di evocare una vita intera.
Accostate insieme, queste complessità condensate, queste cellule di senso, assumono la forma di un enigma, quasi di un rebus da due soldi, costruito per gioco.


* alla memoria di Gilles Deleuze e al suo alfabeto.

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