Emilia Dente, L’arte perduta, Il Terebinto Edizioni, Avellino, 2018.
La parte buona della gente del SUD non si arrende allo spopolamento delle piccole realtà montane ma con fede salda nelle radici del luogo d’origine dà corpo al passato lasciandolo divenire energia del presente.
Ecco come si presenta l’ultimo, in ordine di tempo, il libro della scrittrice Emilia DENTE che reca il titolo: L’Arte perduta, e come sottotitolo Faenzari, cretai e rovagnari a Montefusco, pubblicato presso Il Terebinto Edizioni di Avellino, quest’anno.
La città di Montefusco, oggi in provincia di Avellino, ha un glorioso passato per essere stata scelta quale luogo della Regia Udienza in periodo Aragonese; capoluogo del Principato Ultra nella divisione avvenuta in epoca longobarda e sede del Reale Carcere conosciuto in seguito come “Carcere borbonico” dove furono reclusi gli uomini che contribuirono all’Unità della nostra penisola.
Ricordiamo i nomi di Michele PIRONTI, Pirro Giovanni DE LUCA, Nicola NISCO, Sigismondo CASTROMEDIANO e Carlo POERIO, per citarne solo alcuni i quali sono stati commemorati nel bellissimo film del regista Mario Martone: “ Noi credevamo” in uscita sugli schermi nel 2010.
Sulla scia delle tradizioni l’autrice ha riportato alla ribalta l’attività dei “faenzari” (etimo derivato dalla più famosa città di FAENZA, oggi in provincia Ravenna, dove l’attività dei ceramisti continua ancora oggi), delle fornaci/officine sorte nella città dove vive con la dinamica tipica degli storici: ricerche incrociate in Atti civili, Ecclesiastici e Notarili.
I lunghi anni di ricerca, trascorsi a maneggiare con cura gli antichi documenti, sono stati ostacolati sovente dall’insensibilità di chi vedeva nella giovane ricercatrice l’orgoglio montefuscano oltre all’accuratezza della storica.
Lo cita più volte la Nostra a testimonianza che questo primo volume, che comprende gli Atti dal 1631 al 1865, sono solo una parte del lavoro che seguirà:
“A quanti hanno invece cercato di ostacolare questa mia libera e disinteressata ricerca, lascio l’indifferenza e la serena consapevolezza che il tempo, sempre galantuomo, saprà distinguere sempre i veri figli di questa terra.” (pag. 63)
La ceramica made in Montefusco si distingueva nella produzione per la sobrietà, la solidità, la scelta e la lavorazione della “creta”; per l’uso della vetrina per lo più bianca, con decorazioni di colore turchino, come viene riportato dalla Nostra a pag. 62:
“La produzione ceramica montefuscana dei secoli XVII e XVIII era molto varia e prevedeva forme vascolari tipiche e diverse. Vi erano vasi di creta chiara con piccole anse e caratteristico collo strombato, ma pure vasi a bottiglia ovoidali, anfore, idrie ed anche alzatine e piatti variamente decorati, fino poi alle ammole e ai cicini, i contenitori per l’acqua e il vino della produzione tardo ottocentesca.”
Sono ancora da segnalare nella ricca produzione ceramica le bornie (contenitori per il miele), vasi per le farmacie e per gli speziali, infine i pitali per le esigenze corporali.
Un passaggio di grande valore per i “faenzari ” montefuscani proviene dal contributo femminile dato a quest’arte: vengono fuori dalle antiche carte nomi di donne dedite a queste imprese e il contributo trasmesso alle proprie discendenze come nel caso riportato a pag.44 di questo lavoro:
“(…) Nel 1707 una esponente della famiglia DENTE, Candida, sposerà uno dei maggiori ceramisti campani del tempo, Donato MASSA di Pietrastornina (AV), che realizzò, insieme al fratello Giuseppe, il famoso Chiostro di Santa Chiara a Napoli.”
Le lunghe biografie familiari scandite, fedelmente dalla ricerca, portano agli occhi dei lettori le dinastie dei “faenzari” (cretai, rovagnari, fornaciari) montefuscani attraverso i cognomi: famiglia DENTE (che offre il maggiore contributo di addetti); famiglia MANZO; famiglia MOLONE o MELONE; famiglia LOMBARDI e Gennaro LEGGIERO.
L’autrice si avvale di tutte le fonti storiche degli Autori che l’hanno preceduta analizzando i libri conservati negli Archivi pubblici e privati, riportando anche reperti di quell’archeologia artigianale che alcune famiglie conservano gelosamente nelle foto annesse al presente lavoro.
Due note personali vorrei aggiungere alla buona ricerca effettuata dalla Nostra.
La prima riguarda la copertina del presente libro: riproduce la lunetta in ceramica montefuscana sormontante l’ingresso dell’antica chiesetta di San Bartolomeo sec. XIII (protettore dei conciatori per il martirio subito) attività che si allaccia alla produzione di embrici e corie, di grande importanza nella non lontana Solofra (AV) la quale incrementava l’artigianato attivo delle cittadine campane fornitrici di conventi (in Montefusco gli ecclesiastici erano tanti come riportato nei Catasti Onciari delle varie epoche), librai, notai, ecc.
La seconda riguarda la mia personale esperienza, frutto dei ricordi d’infanzia, quando nei vicoli della cittadina dove vivevo girava “il ruvagnaro” (rovagnaro) che cuciva letteralmente i recipienti di argilla di varia grandezza con un trapano a mano e del filo (non saprei oggi dire la qualità di quest’ultimo) ricomponendo la rottura e restituendo all’uso quotidiano l’oggetto che serviva per le conserve da essiccare al sole. Figura scomparsa nel corso del tempo come quasi tutti gli artigiani di strada: l’arrotino e l’ombrellaio.
Non poteva mancare nel presente lavoro storico/genealogico la vena poetica che ha distinto l’autrice nei suoi precedenti lavori e che denota il grande amore per questa terra irpina che anima la sua penna:
“(…) di questa vetta rocciosa che dalla sua altura è parte del respiro inquieto ed immenso del cielo e il verde, il verde vivo dei boschi, che incorniciano l’orizzonte; il verde brillante delle vigne e delle valli in cui i contadini seminavano grano e speranze, e infine il giallo, il giallo luminoso del sole che rischiara le eleganti strade di pietra e i vicoli ambrati in cui l’esistenza è fremito di dolore e di desiderio. I colori della speranza e della fatica, i colori della vita nell’umile borgo dove il calore della famiglia accarezzava il cuore e si rifletteva nell’umiltà delle terrecotte e nel chiarore della maiolica.” (pag. 63).
Qui sembra rivivere la eco dell’ “Addio ai monti” del capolavoro di Alessandro MANZONI: I promessi sposi.
Emilia DENTE segna, con questo nuovo contributo alla città dei suoi antenati, una tappa mediana che aspira a completarsi con le future ricerche, possibilmente senza ostacoli, tese a riportare all’attualità le bellezze di un Capoluogo di provincia divenuto oggi troppo silenzioso.
di Vincenzo D’Alessio & G.C.F.Guarini
La parte buona della gente del SUD non si arrende allo spopolamento delle piccole realtà montane ma con fede salda nelle radici del luogo d’origine dà corpo al passato lasciandolo divenire energia del presente.
Ecco come si presenta l’ultimo, in ordine di tempo, il libro della scrittrice Emilia DENTE che reca il titolo: L’Arte perduta, e come sottotitolo Faenzari, cretai e rovagnari a Montefusco, pubblicato presso Il Terebinto Edizioni di Avellino, quest’anno.
La città di Montefusco, oggi in provincia di Avellino, ha un glorioso passato per essere stata scelta quale luogo della Regia Udienza in periodo Aragonese; capoluogo del Principato Ultra nella divisione avvenuta in epoca longobarda e sede del Reale Carcere conosciuto in seguito come “Carcere borbonico” dove furono reclusi gli uomini che contribuirono all’Unità della nostra penisola.
Ricordiamo i nomi di Michele PIRONTI, Pirro Giovanni DE LUCA, Nicola NISCO, Sigismondo CASTROMEDIANO e Carlo POERIO, per citarne solo alcuni i quali sono stati commemorati nel bellissimo film del regista Mario Martone: “ Noi credevamo” in uscita sugli schermi nel 2010.
Sulla scia delle tradizioni l’autrice ha riportato alla ribalta l’attività dei “faenzari” (etimo derivato dalla più famosa città di FAENZA, oggi in provincia Ravenna, dove l’attività dei ceramisti continua ancora oggi), delle fornaci/officine sorte nella città dove vive con la dinamica tipica degli storici: ricerche incrociate in Atti civili, Ecclesiastici e Notarili.
I lunghi anni di ricerca, trascorsi a maneggiare con cura gli antichi documenti, sono stati ostacolati sovente dall’insensibilità di chi vedeva nella giovane ricercatrice l’orgoglio montefuscano oltre all’accuratezza della storica.
Lo cita più volte la Nostra a testimonianza che questo primo volume, che comprende gli Atti dal 1631 al 1865, sono solo una parte del lavoro che seguirà:
“A quanti hanno invece cercato di ostacolare questa mia libera e disinteressata ricerca, lascio l’indifferenza e la serena consapevolezza che il tempo, sempre galantuomo, saprà distinguere sempre i veri figli di questa terra.” (pag. 63)
La ceramica made in Montefusco si distingueva nella produzione per la sobrietà, la solidità, la scelta e la lavorazione della “creta”; per l’uso della vetrina per lo più bianca, con decorazioni di colore turchino, come viene riportato dalla Nostra a pag. 62:
“La produzione ceramica montefuscana dei secoli XVII e XVIII era molto varia e prevedeva forme vascolari tipiche e diverse. Vi erano vasi di creta chiara con piccole anse e caratteristico collo strombato, ma pure vasi a bottiglia ovoidali, anfore, idrie ed anche alzatine e piatti variamente decorati, fino poi alle ammole e ai cicini, i contenitori per l’acqua e il vino della produzione tardo ottocentesca.”
Sono ancora da segnalare nella ricca produzione ceramica le bornie (contenitori per il miele), vasi per le farmacie e per gli speziali, infine i pitali per le esigenze corporali.
Un passaggio di grande valore per i “faenzari ” montefuscani proviene dal contributo femminile dato a quest’arte: vengono fuori dalle antiche carte nomi di donne dedite a queste imprese e il contributo trasmesso alle proprie discendenze come nel caso riportato a pag.44 di questo lavoro:
“(…) Nel 1707 una esponente della famiglia DENTE, Candida, sposerà uno dei maggiori ceramisti campani del tempo, Donato MASSA di Pietrastornina (AV), che realizzò, insieme al fratello Giuseppe, il famoso Chiostro di Santa Chiara a Napoli.”
Le lunghe biografie familiari scandite, fedelmente dalla ricerca, portano agli occhi dei lettori le dinastie dei “faenzari” (cretai, rovagnari, fornaciari) montefuscani attraverso i cognomi: famiglia DENTE (che offre il maggiore contributo di addetti); famiglia MANZO; famiglia MOLONE o MELONE; famiglia LOMBARDI e Gennaro LEGGIERO.
L’autrice si avvale di tutte le fonti storiche degli Autori che l’hanno preceduta analizzando i libri conservati negli Archivi pubblici e privati, riportando anche reperti di quell’archeologia artigianale che alcune famiglie conservano gelosamente nelle foto annesse al presente lavoro.
Due note personali vorrei aggiungere alla buona ricerca effettuata dalla Nostra.
La prima riguarda la copertina del presente libro: riproduce la lunetta in ceramica montefuscana sormontante l’ingresso dell’antica chiesetta di San Bartolomeo sec. XIII (protettore dei conciatori per il martirio subito) attività che si allaccia alla produzione di embrici e corie, di grande importanza nella non lontana Solofra (AV) la quale incrementava l’artigianato attivo delle cittadine campane fornitrici di conventi (in Montefusco gli ecclesiastici erano tanti come riportato nei Catasti Onciari delle varie epoche), librai, notai, ecc.
La seconda riguarda la mia personale esperienza, frutto dei ricordi d’infanzia, quando nei vicoli della cittadina dove vivevo girava “il ruvagnaro” (rovagnaro) che cuciva letteralmente i recipienti di argilla di varia grandezza con un trapano a mano e del filo (non saprei oggi dire la qualità di quest’ultimo) ricomponendo la rottura e restituendo all’uso quotidiano l’oggetto che serviva per le conserve da essiccare al sole. Figura scomparsa nel corso del tempo come quasi tutti gli artigiani di strada: l’arrotino e l’ombrellaio.
Non poteva mancare nel presente lavoro storico/genealogico la vena poetica che ha distinto l’autrice nei suoi precedenti lavori e che denota il grande amore per questa terra irpina che anima la sua penna:
“(…) di questa vetta rocciosa che dalla sua altura è parte del respiro inquieto ed immenso del cielo e il verde, il verde vivo dei boschi, che incorniciano l’orizzonte; il verde brillante delle vigne e delle valli in cui i contadini seminavano grano e speranze, e infine il giallo, il giallo luminoso del sole che rischiara le eleganti strade di pietra e i vicoli ambrati in cui l’esistenza è fremito di dolore e di desiderio. I colori della speranza e della fatica, i colori della vita nell’umile borgo dove il calore della famiglia accarezzava il cuore e si rifletteva nell’umiltà delle terrecotte e nel chiarore della maiolica.” (pag. 63).
Qui sembra rivivere la eco dell’ “Addio ai monti” del capolavoro di Alessandro MANZONI: I promessi sposi.
Emilia DENTE segna, con questo nuovo contributo alla città dei suoi antenati, una tappa mediana che aspira a completarsi con le future ricerche, possibilmente senza ostacoli, tese a riportare all’attualità le bellezze di un Capoluogo di provincia divenuto oggi troppo silenzioso.
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