Alla maestra Agata G. e ai suoi scolari della Classe IV “Plesso Cappuccini”
di Vincenzo D’Alessio
Il popoloso rione dove sono nato era una meraviglia architettonica del periodo Longobardo (circa X secolo): caseggiati alti fino a dodici metri senza nessuna finestra nelle facciate esterne che racchiudevano i vicoli; archi d’ingresso realizzati con travertino locale, robusti e ampi da passarci un carro, rinforzati all’interno, con due anelli di pietra dove si innestava un grosso palo di castagno per chiudere le porte in legno: gli ingressi erano due disposti agli opposti del cortile.
Il vano di accesso aveva la volta piana, realizzata con grandi travi in legno e assi in legno, che completavano quello che dal di sopra era il pavimento delle stanze. Il buio passaggio in terra battuta del vano si apriva in un cortile ampissimo anch’esso in terreno battuto aperto al cielo. Intorno le facciate delle case si aprivano su due o tre livelli abitativi: alla base erano realizzate quasi sempre le stalle per gli animali domestici o depositi per la legna e le provviste per l’Inverno, che da noi dura anche cinque mesi; finestre, scale in pietre, fumaioli per i forni al primo livello e sui tetti per i focolari; strutture in legno ricoprivano i luoghi di passaggio dando vita a luminose verande dove stendere la biancheria ad asciugare; piccole terrazze sui primi livelli dove stendere lana e sostare durante d’Estate, dove mettere ad essiccare “pacchisecche” (pomodori spaccati a metà), “granurignolo” (granturco), fichi, mele, etc., tutte provviste per l’Inverno.
Lungo gli stretti vicoli, sempre pieni delle voci dei miei coetanei che correvano con un vecchio cerchio di una botte spingendolo con un bastone, specialmente nei punti dove c’erano i collegamenti rialzati che univano diverse case, erano disposti dei sedili in pietra locale resi lisci dal tempo dove sedevano le nostre nonne, nella bella stagione a filare la lana, fare calze e maglie con i ferri, per l’Inverno.
Avevo allora sei anni, ero un ragazzino vispo e allegro e mi piaceva correre, correre, nel girotondo tra i vicoli e i muri degli orti che fiancheggiavano le alte mura delle abitazioni sentire il vento sul viso. Spesso insieme agli altri amici salivamo su quei muri convinti di essere sugli spalti di un castello e improvvisare scene di guerra con spade di legno e vecchi coperchi delle pentole come scudi.
C’era un vecchietto piuttosto malmesso, imbottito di abiti con un cappotto lacero fino ai piedi, che portava anche d’estate, il quale reggeva sulle spalle una bisaccia azzurra dove raccoglieva le offerte e nella mano destra reggeva una chitarra dalla quale ricavava una semplice melodia, non ricordo con quali accordi ché allora non li conoscevo, accompagnando la sua voce roca che intonava ‘i riasili*.
Seduto su quelle pietre, con gesti semplicissimi e umili, la testa reclina, recitava questo strano canto che finiva sempre con le parole Requiem Aeterna…
Mia nonna e le altre donne del rione alla fine del canto rientravano in casa e ne uscivano con un po’ di pane, qualche fetta di lardo salato, un po’ di vino che il vecchio metteva in un’unica bottiglia che teneva nella bisaccia, un piatto di pasta e ceci o fagioli che consumava all’istante se era necessario oppure sistemava in una consunta gavetta militare d’alluminio che portava con sé.
Un giorno volli accompagnarlo e mi accorsi che era quasi cieco perché mentre camminava si appoggiava ai muri di cinta degli orti. Portavo la bisaccia e una sola di quelle volte mi permise di portare la sua chitarra: era consunta e le corde quasi logore.
Chiesi a mia nonna cosa significasse il canto che quel vecchietto curvo sotto il peso degli anni che appariva di tanto in tanto nei vicoli e la cui voce si disperdeva nelle assolate giornate di luglio. Mia nonna si sedette accanto a me e seria, come non la vedevo quasi mai mi disse: “Figlio mio, spero che tu non conosca mai il dolore delle madri che hanno perso i figli al fronte, né quello della povera gente morta sotto le bombe degli Americani. Lui canta per tutte le anime dei morti, giovani e meno giovani, che ogni famiglia ha e che aspettano si essere rinfrescate nel fuoco del Purgatorio.”
Ci trasferimmo nelle case popolari, avevo dodici anni.
Per motivi scolastici, per la nuova posizione abitativa, frequentavo meno il rione dove ero nato.
Un giorno chiesi a mia nonna notizie del vecchietto suonatore per il quale intanto avevo anche scritto una poesia. Mia nonna mi rispose che non lo vedeva da diverso tempo, forse era venuto a mancare dalla scena dei vivi per raggiungere quelle anime del Purgatorio per le quali aveva tanto pregato Dio che concedesse loro l’Eterno Riposo.
Negli anni a venire, prima che il terrificante terremoto del 23 novembre 1980 distruggesse quasi completamente il mio rione, che fu poi demolito dalle ruspe, d’estate nelle brevi passeggiate nei vicoli ancora intatti il venticello dolce prima di mezzogiorno portava nella mia anima il canto semplice di quell’uomo.
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