Fara Editore e i giurati
Angelo Leva, Francesco Di Sibio, Laura Grassiccia,
Marco Fratta, Massimiliano Bardotti e Nino Di Paolo
sono lieti di proclamare vincitori della XV edizione
del concorso Pubblica con noi (2016) per la sezione Racconto
i seguenti autori: complimenti vivissimi a loro, e un grande grazie ai giurati e a tutti i partecipanti.
Per la sezione Poesia v. qui
Marco Fratta, Massimiliano Bardotti e Nino Di Paolo
sono lieti di proclamare vincitori della XV edizione
del concorso Pubblica con noi (2016) per la sezione Racconto
i seguenti autori: complimenti vivissimi a loro, e un grande grazie ai giurati e a tutti i partecipanti.
Per la sezione Poesia v. qui
opere 1^ classificate ex aequo
Eterogenesi dei fini
di Corrado
Giamboni (Porto Mantovano, MN)
Corrado
Giamboni ha
pubblicato da poco Il
Porsche a metano (romanzo balneare, Fara 2015). Nasce nella seconda metà
del secolo scorso e muore presumibilmente nella prima di questo / per snobismo
o timidezza o vigliaccheria difficilmente è diretto / diciamo che preferisce
essere capito / diciamo pure di nicchia / ha molto da dire o meglio qualcosa o
perlomeno ne è convinto // nasci, muori. Cosa c'è in mezzo sta anche a te / per
questo stai attento, non vivere disattento / non sai neanche cos'è il coltan / dove
vivi è meno importante / quando e quanto è meno importante / paga per il
silenzio / per avere meno / per essere.
L'espressione
eterogenesi dei fini, in tedesco Heterogonie der Zwecke, fu coniata dal filosofo e psicologo
empirico Wilhelm Wundt. Con essa si fa riferimento a un campo di fenomeni i cui
contorni e caratteri trovano più chiara descrizione nell'espressione «conseguenze non intenzionali di
azioni intenzionali».
La mia carica sessuale era altissima. Mi feci uno shampoo. Non
avevo ancora completato il primo risciacquo quando qualcuno suonò dal citofono,
una lunga scampanellata alla quale ne seguì un’altra altrettanto lunga. Che
fretta. Uscii e andai istintivamente nella tromba delle scale per
vedere chi fosse - il citofono era rotto. Non capivo, non si vedeva nessuno di
sotto, la luce delle scale era sempre così fioca. Un forte colpo secco alle mie
spalle mi fece sobbalzare. La porta di casa si era richiusa. Succedeva sempre
così, si formava una corrente d'aria con il portone di sotto e la porta si
chiudeva sbattendo. Tubo di Venturi lo chiamano in fisica. Fatto sta che adesso
per colpa di questo tubo di Venturi ero chiuso fuori. Lo sapevo per esperienza
di quella porta, nonostante i miei pochi giorni di permanenza lì. Mi era già
successo il primo giorno, ma quella volta per fortuna mi avevano aperto da
dentro. Ora era diverso, ero solo.
Mi resi conto della situazione. Ero in canottiera e mutande, le
chiavi rimaste dentro casa, io rimasto fuori, era inverno e avevo la testa
bagnata e insaponata, era circa mezzanotte, mezzanotte e un quarto. Non avevo
idee precise sul da farsi. Tanto più che quella non era casa mia, ero ospite di
un amico del circuito Operazione Ratto. Amico, meglio dire contatto.
Operazione Ratto era il nome in codice di un’attività segreta
legata a un'azione internazionale congiunta che seguiva una pista più o meno
legale di commercio di coltan congolese via Transnistria destinazione Europa
centrale, e ho già detto troppo. Strano giro, ma nulla è strano quando ci sono
i soldi, nulla è strano quando è segreto. Prova a pensare ai giri che fanno le
armi o a quelli che fanno gli organi espiantati ai prigionieri cinesi.
La nostra organizzazione faceva riferimento ai servizi segreti
per così dire ufficiali, ma godeva di una certa autonomia organizzativa,
soprattutto economica. Per tenerci operativi ci facevano fare anche delle
operazioncine di basso profilo, ma ci pagavano sempre bene. Io lo facevo un po’
per convinzione - ero sinceramente terrorizzato dal fatto che i comunisti
potessero prendere il potere – e un po’ per arrotondare il mio magro stipendio
da bibliotecario part-time alternato ad attività di catsitter, che non mi
permettevano di uscire dallo status di bamboccione mio malgrado. Metà dei miei
coetanei italiani erano all'estero e io sinceramente non volevo sentirmi da
meno. Era anche un modo per viaggiare, cambiare ambiente, conoscere gente,
abitudini diverse. Una volta ho potuto anche vedere da vicino Putin. Certo non
era sempre così, di solito non vedevi molto, eri in missione mica in gita, ma
comunque la seratina o l’uscitina al localino ci scappavano sempre. Io ero
approdato all’organizzazione quasi per caso, per vie traverse e in definitiva
fortuite, conoscenze di conoscenze, ma non mi era dispiaciuto e avevo deciso di
rimanerci. Ma ho già detto troppo. (…)
Giudizi
«È un racconto che suscita una aspettativa ad ogni
riga. Mai ripetitivo, rispetta i canoni della scrittura creativa: sintesi,
ritmo, aspettativa, sorpresa, ampio vocabolario. Credibile in quanto reale
negli eventi e nelle prospettive. Soggetto interessante e intrigante.» (Angelo
Leva)
«Un agente segreto a cavallo tra Mr. Bean e
l’ispettore Coliandro. Potrebbe aprire la strada a una serialità.» (Francesco
Di Sibio)
«Scorrevole e godibile, si
ha l'impressione che non ci sia una parola di troppo nella narrazione. La
storia è avvincente e ilare, intelligenti i suoi risvolti e, dunque, anche le
sue intenzioni. È una scrittura che ha stile ma non desidera ostentarlo.» (Lucia
Grassiccia)
«Godibile e originale, riesce a catturare
fino alla fine, grazie al clima di attesa e di suspance “rallentata” al limite
del grottesco (tecniche dosate e ben calibrate in tutto il racconto).» (Maria
Pina Ciancio)
Daniele Rublev Elmo nasce
a Castellamonte il 26/12/1977 da due professori di lettere. Si appassiona in
età giovanile a mitologia psicologia e filosofia seguendo le orme e i consigli
del padre filosofo-scrittore-pittore e maestro di yoga. A queste passioni si
aggiunge subito quella della musica che lo porterà a suonare (come bassista) in
molti locali del torinese e in Italia col gruppo L’Inferno di Orfeo. Padre di due
bambini nati nel 2008 e 2012 prosegue lo studio delle proprie passioni alla
ricerca di una “vita altrove”.
Mio zio Lucio mi descrisse il suo paradiso, il Paradiso facile.
Mio zio Lucio mi descrisse il suo paradiso, il Paradiso facile.
Mi diede una serie di istruzioni per utilizzare la
sua vasca magica e raggiungere questo posto e quanto segue è ciò che vidi
all’inizio del mio viaggio.
L'incontro
e l'amore folle
E
quindi ancora sul corso di Taormina.
Mi
perdo tra le maioliche e le ceramiche. I loro grappoli di malvasia sono tanto
gravidi da sentirne l’afrore che si mischia con l’aria di mare, con gli
spaghetti ai ricci, con le bouganville dei balconi dei tanti signori del posto.
L’immancabile trinacria in tutte le sue versioni. Semplice d’argilla, colorata
o antropomorfizzata. Lo sguardo è sempre sornione, di chi sta bene e la sa
lunga o forse di chi ha mangiato sì bene, ma decisamente troppo.
Ci sono
altre persone insieme a me.
In
questa passeggiata per il corso, si possono fare incontri molto particolari
oltre a quelli che normalmente ci si aspetterebbe, s’intende. Un continuo
brusio di sottofondo portato forse dalle sagome confuse che, come meteore
spaziali, riempiono il Paradiso Facile di presenze e suoni confusi. Queste sono
le anime che vagano per questa dimensione per giungere là dove consumeranno
l’ultima ombra d’identità che gli appartiene, il cimitero delle anime o la
rampa di lancio per un percorso di reincarnazione, se possibile – anche se ci
credo meno, ma qui pare che se te lo puoi immaginare… – ma l’importante è
capire che questa è una cornice che qui è presente ovunque, queste scie
contengono sì altre persone ma non si fermeranno e non mi parleranno, stanno
andando altrove, anime di passaggio.
Ci sono
invece altri che, come me, hanno per un motivo o per l’altro, Taormina come
sede della deriva del loro io, come
base di partenza del loro caleidoscopico e iperbolico ultimo sogno.
Mi
rendo conto che, aver a che fare col prossimo qui, vuole dire avere a che fare
non solo con persone felici e serene che ritornano in un posto a loro caro, ma
anche con altre meno gioiose in un’estasi quasi carnevalesca se non da tragedia
greca.
Mi
trovo a ripercorrere i luoghi belli della mia vita ma incontrando solo gente
che si ritrova a giocarsi le sue ultime sinapsi in questo posto, nel proprio
paradiso, il più delle volte, ma anche purgatorio o inferno a seconda dei casi.
Improvvisamente vedo un uomo che passeggia non a piedi ma in groppa ad un
elefante seguito da un orda folle e festosa con un altro individuo che inveisce
con forza a tutto il mio quadretto. Manda maledizioni, sputa e bestemmia, fino
a che una scia scende e lo divora; forse comincio a riconoscerli questi
Elementi fagocitatori delle ultime volontà umane. Questo è il fascio della
Rabbia, se esiste, in ogni caso è sempre quello che si porta via gli
oltraggiosi, i violenti e i derelitti che sfogano le loro pene con invettive
piuttosto che con apologie. È rosso, si intravedono le scaglie della sua pelle
sinuosa che, della freddezza dei rettili, non pare aver nulla; questo è più un
fuoco, ma lascia lunghe bave appiccicose da cui è impossibile liberarsi, almeno
fino a che questo mostro da libro fantasy non svanisce e con lui il suo
tremendo furore viscoso. Ma la
parola tremendo, pur ben rispecchiando la tensione emotiva che
umanamente sarebbe più naturale provare al loro cospetto, non basta perché
questa visione provoca meraviglia e a volte anche giubilo; le parole sono
sempre troppo umane ed i pensieri quasi mai e non solo in questo posto.
Come il
corpo si decompone negli elementi essenziali, allo stesso modo fa l’anima. (…)
Giudizi
«Una prosa dallo
stile onirico e dai connotati poetici guida il lettore nel viaggio verso il Paradiso
facile, un luogo (più luoghi in verità) che l'autore raggiunge mediante un
tragitto dal profumo dantesco grazie ai consigli di un personale Virgilio: lo
zio Lucio. Dall'incontro con una donna ai toccanti momenti condivisi con i
genitori, dai luoghi di mare alle serpeggianti catene montuose dell'anima, il
tutto condito da un'ispirazione pura e da postulati a dir poco affascinanti:
“se mai esistesse una verità, non potrebbe che nascere da una finzione”.
Decisamente efficace anche la scelta di arricchire la narrazione con degli
autentici capolavori della musica, dai brani dei Motorpsycho a quelli dei Pink
Floyd. (Marco
Fratta)
«Che senso ha amare se poi
non puoi soffrire? Questa
frase già in sé per me ha un interessante valore, ma il modo in cui viene posta
all'interno del racconto la rende fondamentale. Ci sono storie che colpiscono o
possono colpire per innumerevoli ragioni. Tra l'altro in Paradiso Facile ce ne
sarebbero di caratteristiche: L'atmosfera onirica, gli incontri familiari
eppure sorprendenti, i viaggi da un luogo all'altro dell'anima eppure sempre a
Taormina!, i risvolti interiori, inconsci, spirituali, la filosofia che trova
spazio nella mente di una ragazzina durante le lezioni di danza... A me hanno
colpito piccoli dettagli come la frase che ho citato. Forse mi scopro, e non lo
sapevo, amante di certi discorsi intorno all'amore, trovo nelle parole che
seguono uno struggimento degno di nota: lì dove riesco a trovarti che ci si
baci o che ci si ammazzi non riesco a non farmi rapire voluttuosamente dal tuo
pensiero... Così come ho trovato struggente il capitolo intitolato La
Mamma. Complimenti.» (Massimiliano
Bardotti)
«Per
questo passaggio: Che
senso ha amare se poi non puoi soffrire? Mi ha sempre dato fastidio vedere come
le persone si adoperano per scansare il dolore, come se non fosse figlio di
tanto piacere. Io, invece, non aspettavo altro che crogiolarmi nel delirio del
nostro amore, del nostro dolore e del nostro piacere.»
(Nino
Di Paolo)
«Paradiso
Facile è
sognante e reale al tempo stesso, una narrazione dotata di gambe su cui
sostenersi, che porta con sé il lettore senza costrizioni. Sa raccontare scene
molto specifiche ma anche sentimenti comuni, schivando la retorica. I frammenti
si intrecciano tra loro armonicamente.» (Lucia
Grassiccia)
opera 2^ classificata
Giacomo Ruggeri (1969). È stato ordinato sacerdote diocesano nel 1994 a Fano, dove ha svolto a lungo il ministero di parroco, occupandosi anche di comunicazione. Da alcuni anni è impegnato nell’approfondimento di tematiche formative in ambito pastorale (per laici, sacerdoti, religiose), con particolare attenzione alla pedagogia degli Esercizi spirituali secondo il metodo di sant’Ignazio di Loyola.
«Non siamo dei santi». Appunti di un rifugiato per un rifugiato
Premessa
Quando inizi un viaggio,
hai ben chiara la meta che vuoi raggiungere. Non parti tanto per viaggiare,
senza una destinazione cui approdare. Così è lo spirito che anima questo libro:
non scrivo tanto per scrivere, ma perché io stesso mi sono ritrovato a vivere
in un lungo corridoio sotterraneo denominato "Centro Astalli". La
meta è raggiungere sempre più in profondità la trasparenza e la verità della
coscienza, dell'animo. In questo percorso incontri la persona – l'uomo, la
donna – all'interno di stanze, ambienti, luoghi che non sono mai quello che in
apparenza sembrano. Persone e luoghi ti rimandano sempre oltre, altrove, più in
là rispetto a dove avevi deciso di fermarti.
Questo libro non è un
viaggio che spiega che cosa sia o non sia il Centro Astalli, a Roma. Non è un
sussidio informativo sulle attività che il Centro svolge. Piuttosto, è un
diario, con l'unico desiderio di bussare alla porta del Centro così come fanno
tante persone ogni giorno: rifugiati, richiedenti asilo politico. Bussare alla porta, attendere il mio
turno, ricevere una carta gialla e azzurra, scendere le scale, ricevere un
bicchierino da caffè con dentro il sapone per la doccia, caricare il mio
vassoio con il pasto quotidiano, prendere le medicine per curarmi, parlare con
chi mi può aiutare per il permesso di soggiorno, la carta di identità, il
codice fiscale, un corso per imparare la lingua italiana…
Nelle pagine che seguono
cerco di annotare quale tipo di grammatica sia alla base del linguaggio usato,
e quale “lingua” – che non ha bisogno di traduzioni – venga parlata al Centro
Astalli. È la lingua della dignità. Quando bussi al portone verde scuro del Centro
entri in un anagramma: secondo il dizionario italiano, l’anagramma è il
risultato della permutazione delle lettere di una o più parole compiuta in modo
tale da creare altre parole o frasi di senso compiuto.
Ci vuole umiltà per bussare
al portone verde del Centro, entrarvi e camminarvi in silenzio e con occhio
attento, non curioso. È la frequentazione di una persona che mette in moto il
cambiamento, in un luogo che innesca il passo nuovo della conversione. È la
frequentazione di una lingua, e di chi la parla, che fa sentire meno isolati e
muti verso l'altro. Per entrare al Centro Astalli non è sufficiente passare per
il portone verde scuro: è necessario penetrare nel suo anagramma, lettera dopo
lettera.
Per sei mesi ho servito in
cucina al fianco del cuoco pieno di tatuaggi; ho tagliato polli, cucinato riso,
scrostato tegami, lavato pavimenti con il sale grosso. La mia anima è stata
tatuata dalla dignità di queste persone, per sempre. Ecco perché parlo di loro.
E fa bene all’anima.
n. 18
Sono i gradini che mi trovo
a scendere – e a salire – al Centro Astalli. Ad una lettura in superficie, mi
appaiono come un mezzo per raggiungere una stanza, un luogo. Comprendo che cosa
invece siano realmente quando li consumo, li vivo, li sento: a volte più
pesanti, altre volte più leggeri. Mi parlano se non sono sordo, mi accolgono se
non scappo, mi guariscono nelle mie ferite se non le nascondo. I 18 gradini del
Centro Astalli sono vissuti, ogni giorno, da tante persone che hanno fame,
sete, paura, rabbia, rassegnazione, stupore, delusione, pazienza. Scendono quei
gradini con tanta fame nello stomaco da riempire: uno stomaco vuoto, ma ancora
più vuoto è il senso di solitudine ed emarginazione dal quale ogni giorno
devono difendersi. Risalgono quei 18 gradini con lo stomaco pieno, almeno per
un giorno, ma con l'attesa di un dopo e di un domani che non sai che cosa
riserverà. Nessun gradino è anonimo: ha un nome ben preciso. (…)
Giudizi
«Fragilità, debolezza, contraddizioni, ma soprattutto grande
ascolto e umanità arricchiscono questi appunti in prosa di un rifugiato. Di chi
parte lasciandosi tutto alle sue spalle, in cerca di un aiuto, un
"rifugio" in un paese straniero, che letteralmente vuol dire riparo,
ricovero, asilo, protezione, ma anche pace, serenità, difesa. Sono parole a cui
l'autore ne aggiunge altre, come ascolto, abbraccio, libertà, dignità. E
riconoscimento. Ed è ciò che emerge dalle tracce di questi appunti, nel
descrivere l'impegno e l’umanità del Centro Astalli per rifugiati di Roma, che
dal 2000 ha l’obiettivo di promuovere una cultura dell’accoglienza e
della solidarietà, a partire dalla tutela dei diritti umani.» (Maria
Pina Ciancio)
«Mi ha colpito fin dalla prima riga.
Scrittura sobria, essenziale e drammaticamente incisiva. Sono stato catapultato
nel Centro Astalli immediatamente, pur ignorando cosa fosse. E il primo termine
che ho sentito gridare più forte dentro di me, fra i vari importanti usati, è
stato: dignità. Chi ha scritto questo racconto ne trabocca e mi inchino
umilmente di fronte a tale prova letteraria ma soprattutto al contenuto umano e
spirituale. Credo sia una lettura importante che mi sento di consigliare a
chiunque. Mi ha costretto continuamente a un rigoroso esame di coscienza. Una
delle parole con le quali si chiude questo lavoro è: gratitudine. È con
gratitudine che mi rivolgo a chi ha scritto questo testo, lo reputo davvero un
ottimo lavoro.» (Massimiliano
Bardotti)
«È un racconto che sembra un resoconto
giornalistico da reportage. Ma descrivendo la realtα ne porta la forza della
verità e innesca nei ricordi del lettore un'assonanza con vere esperienze
personali in un momento, questo, dove il tema dei migranti ci colpisce nel
profondo per i significati e i carichi di umanità. (Angelo
Leva)
«L'approccio è diaristico e
a tratti racconto e riflessioni saggistico-filosofiche si compenetrano.
L'attualità del tema, la delicata concretezza con cui questo è affrontato, ne
fanno a mio avviso una lettura da consigliare. Il rischio è che a momenti possa
apparire buonista nei contenuti.» (Lucia
Grassiccia)
opera 3^ classificata
Simone Mazza è nato e vive a
Parma; coniugato, con due figli. Insegnante, esperto di ITC, provider di
servizi web, formatore, la scrittura è la sua grande passione. Dal 2006 a oggi
ha pubblicato cinque ebook di didattica, quattro raccolte di racconti (una per Fara) e altri
suoi racconti sono presenti in sei antologie.
PORTOS, OVVERO DELLA NOSTALGIA
Sembrava un moschettiere in pensione. Fondamentali, un antico taglio lungo
alla paggetto e baffi, naturalmente.
Ma l’occhio, all’inverso, era prima di ogni cosa colpito
dai piedi, piccoli e tracagnotti, con dita ben tornite e a rincalzare la
pianta, come se vi cercassero un riparo; infilati poi in sandali di sughero con
una banda verde, ingiustificabili, se non fosse stato per il gran caldo.
Però la canicola non
impediva al nostro di consumare un piatto di cannelloni fumanti, con la calma e
la circospezione di uno stagionato epicureo (ma che preferisce comunque il
barbecue di casa propria).
A salire, due gambe corte, leggermente da fantino, sostenevano una pancia
che un tempo doveva essere d’atleta. Il tono degli
abiti era dimesso e blu. La maglietta popolare ma pulita.
Un po’ di peluria, sul petto,
si faceva largo attraverso i discreti varchi della t-shirt. Sulle spalle si
appoggiava subito il mento, perché il collo pareva quasi inesistente, a dire la verità.
E finalmente il viso, meraviglioso. Un Portos di sessant’anni passati da poco. La bocca piccola,
che intanto ruminava (e mai trangugiava, perché ci dev’essere dignità anche nella
soddisfazione degli istinti primari), era di quelle che parlava poco e
preferibilmente a bassa voce, ma sempre per dire cose che valeva la pena
ascoltare. Difficile il sorriso, come di chi deve mostrare di aver vissuto tali
esperienze che ormai pare impossibile sorprendersi. Ma, per amicizia, quello
sì, tutta la testa poteva annuire lentamente, posatamente, se un commensale
chiedeva la sua attenzione ad un aneddoto fuori programma; o l’opinione su una diatriba di paese, come ad
un Mosè di seconda categoria.
I baffetti, non “di primo pelo”, aiutavano la bocca a curvarsi in un
disegno, se non triste, diciamo serioso. Chi ha vissuto deve mostrare un po’ di disincanto, che diamine! Anche le ampie
gote, assecondate dalla gravità, ispiravano la giusta rassegnazione, ma al tempo stesso
ammonivano che, in mezzo a tante battaglie, Portos se l’era goduta, la vita. E infatti, in quel momento, non
disdegnava la bistecca. Se la gustava anche per posa, a dire il vero, giacché il locale l’aveva scelto lui: il silenzio d’oro di chi esprime retti giudizi, quella
parvenza di filosofo del borgo, di Trimalcione dei poveri, in certi contesti,
ce la si può permettere solo dopo il teatrino dell’ospite privilegiato che saluta il proprietario e ottiene
(per finta) il tavolo migliore. Erano le guance, un po' da criceto, a
raccontare tutto questo. E gli occhi.
Gli occhi, minuscoli, tondi e grigi, avrebbero anche ispirato una vaga idea
di arguzia, di fiera resistenza (ancorché non troppo ribelle) alla vecchiaia. Ma erano circondati,
ahimè,
dalle due più incipienti occhiaia mai viste. Quei due sacchi di mangime, quelle
due altalene per bambole, quei due cuscini abusati, sembravano fare a gara con
le guance a chi trasformava per prime la faccia in un grosso culo. Va bene aver
vissuto, Portos, ma perdio! cosa ci vuoi dire? Che postura dobbiamo assumere? qual è il protocollo? il
rito? Di fronte a quelle due palpebre branchiali, a quei due clamidi, a quelle
estroflessioni che i polli hanno sotto il becco e tu sopra, cosa possiamo
effettivamente dire? Quali verità ci nascondi, dentro? Non hai ancora svelato tutti i
misteri, Portos, tutti i duelli, le conquiste, le fatiche che ti hanno portato
ad essere ciò che sei, a permetterti di salutare l’oste come un complice d’alcova o di discettare sul tempo atmosferico come un
augure! (…)
Giudizi
«Per la vastità di osservazione dell'interiorità
delle persone, la limpidezza della lingua e la sintetica espressione delle
immagini.» (Nino Di
Paolo)
«Un elegante ma
severo collage di personaggi dai risvolti loschi, ambigui e subdoli. L'autore
offre un'interessante retrospettiva dell'animo umano e nel farlo,
consapevolmente, sceglie individui di tutti giorni, nei quali ciascuno di noi
si è sicuramente imbattuto nel corso della vita. Ne emergono ritratti infelici
sui quali, però, è doveroso fermarsi a riflettere. Voto positivo anche per la
prosa scorrevole: il ritmo di lettura è straordinariamente coerente con le
storie raccontate, un'abilità non facile da maturare.» (Marco
Fratta)
«Non tutti i brevissimi racconti sono degni di
nota: aspetto una spiegazione sulla fobia narrata ne I piedi lunghi. Full di donne,
invece, incita un ignorante di poker come me a studiarlo.» (Francesco
Di Sibio)
opera 4^ classificata
William
Protti, nato nel 1965 a San Marino, vive a Santarcangelo di Romagna.
Appassionato di fumetti, ha ideato innumerevoli strisce e tavole a livello
locale; ha disegnato la copertina di Poesie
in soffitta e l’illustrazione a corredo del racconto conclusivo de Le Favole dello zio Oliviero (Ed. La
Sfera Celeste, Riccione). Sua la traduzione visiva di Filastrocche piccole così (Danilo Montanari Editore, Ravenna). Il
suo impegno in ambito culturale e artistico lo ha portato a collaborare
all’impaginazione di alcuni libri, tra cui spicca Terre Splendenti - La Via Crucis di Giulio Liverani (Ed. Il Ponte,
Rimini). Nel 2015, con il racconto Un
giorno di follia, lasciato a stagionare per ben trentaquattro anni in un
cassetto, si è classificato quarto ex aequo nel concorso Rapida.mente inserito
da Fara Editore nell’omonimo volume.
Era un
paesino del quale s’è perso ormai il ricordo, adagiato ai piedi di un colle, in
una qualche vallata remota della Francia.
Quel
giorno l’aria era calda ma tutto sommato sopportabile; neanche una nube
oscurava il cielo e una sottile brezza, insinuandosi a cicli regolari fra le
querce, le accarezzava, accompagnando così l’interminabile cantilenare delle
cicale.
La
piccola Geneviève, incurante di quanto le accadeva all’intorno, si trastullava
con una bambola di pezza, mentre se ne stava seduta sul retro del carretto del
babbo. Canticchiava un motivetto allegro insegnatole dalla nonna Clara e,
agitando su e giù le gambe oltre il bordo del mezzo, ne scandiva il ritmo.
Ogni
qualvolta che le ruote incontravano un grosso sasso o una buca, il carro
sobbalzava e la piccola, esile come un fuscello, rischiava di volare per aria e
ruzzolare a terra, lungo il sentiero, che, simile a un fiumiciattolo bianco, si
snodava fra i colori rigogliosi della campagna.
Giunti
che furono nei pressi di una fonte, papà Antoine fermò i buoi; sceso dal carro,
prese quindi la figlia fra le sue robuste e sicure braccia di contadino e la
pose a terra.
«Siamo
ormai arrivati» le disse, «ma è meglio fare una breve sosta per dissetarci e
riposare un poco, le bestie e noi. Sgranchisciti pure le gambe, ma non ti
allontanare troppo» si raccomandò, quindi si sedette sull’erba e, asciugatosi
il sudore, bagnò il fazzoletto nell’acqua trasparente, lo strizzò e se lo passò
prima sulla fronte e poi sulle guance e sul collo.
Geneviève
intanto inseguiva con lo sguardo e con le sue manine piccole e tozze le
farfalle dalle ali rossicce che danzavano sui fiori di campo.
A un
certo punto scoppiò a piangere.
«Ah,
sciocchina! Per badare alle farfalle non ti sei accorta d’aver posato le mani
sull’ortica. Non ti preoccupare: vieni qua, vedrai che tra poco il bruciore
passa» le disse Antoine, e intanto con una mano le accarezzava i lunghi capelli
biondi raccolti in trecce, mentre con l’altra le sfiorava le dita con il
fazzoletto inumidito.
La
piccola si distrasse e rimase incantata nell’osservare quelle mani tanto enormi
rispetto alle sue. Per completare l’opera e strapparle un sorriso, Antoine si
mise a suonare un’antica ballata popolare con la sua fedele armonica.
Trascorse
così una mezz’oretta; stavano per rimettersi in viaggio quando udirono un
lamento agghiacciante.
Antoine
si portò di scatto verso il sentiero e scorse il suo vicino André con le mani
appoggiate dietro la nuca, intento a rimirare, incredulo, con gli occhi che gli
parevano schizzare fuori dalle orbite, il suo toro, stramazzato improvvisamente
al suolo.
«Che
cosa è successo, André?» chiese Antoine.
«Lo sa
il cielo!» rispose quello, non riuscendo a capacitarsi dell’improvvisa morte
della bestia.
«Chissà,
forse questo caldo...» replicò Antoine.
«Non è
possibile: era un animale sanissimo, robusto come pochi... no, no, non è
possibile! Sto sognando!» insistette André.
«Non
resta che chiamare il veterinario: lui saprà certo trovare una spiegazione»
disse Antoine. (…)
Giudizi
«Una metafora delle nostre paure, quanto mai
attuale. Lo schema classico del racconto aiuta la lettura.» (Francesco
Di Sibio)
«Una domanda che non si riesce a
fare, una domanda che fa tremare la voce. E una risposta: Il male esiste,
figliolo, com’è vero che esiste il mondo… E a rispondere è un prete… Della
storia non rivelo altro, è tutta da leggere! Grande prova di scrittura, a mio
modestissimo avviso. Avvincente, scritto in maniera impeccabile. Mi ha molto
coinvolto fino alla fine, non ha mai cadute di ritmo né di tensione. Si rimane
sempre avvolti in un fitto mistero e non si può non sentirsi minacciati. E il
finale, il finale è un piccolo capolavoro, secondo me, e dà un importante
significato all'opera. Riuscitissimo racconto.» (Massimiliano
Bardotti)
opera 5^ classificata
Lorenzo Piscopiello
(foto Mirko Pucci) è nato a Pesaro nel 1975. Attualmente divide la sua vita tra famiglia (una
moglie e due figli), lavoro (architetto) e una serie di attività amatoriali che
spaziano dalla musica alla scrittura, dal fumetto
al teatro
e altro ancora. Non sarebbe male se le passioni diventassero prima o poi il
vero lavoro: forse un giorno, su Marte...
NEL BOSCO
Giulia è sparita nel bosco.
Nel bosco.
Dio è misericordia infinita, è bontà infinita, e forse è per questo che non capisco la sua misericordia, la sua bontà… perché io sono finito e non posso concepire i meccanismi dell’infinito.
Giulia.
Le strade del Signore sono innumerevoli, ma quella dell’uomo rimane una, e così si soffre.
E non si comprende… ma si accetta.
Io ero la tua strada, Giulia, la strada che passava tra i ruderi di una famiglia distrutta e le nebbie di un futuro incerto.
Ed io riuscii a portarti lontano da quelle paludi di una solitudine mai affrontata e dai temporali di una paura immensa.
O almeno lo credetti.
Infatti, col tempo, un secondo sentiero si staccò dal mio, da me, e tu rimanesti incerta sulla direzione in cui proseguire.
E decidesti.
Ti vidi allontanarti sempre più, sprofondare in quell’abisso di ipocrisie, di felicità illusoria, di gioia chimica.
Poi ti vidi tentare di ritornare a me, ma ormai il baratro in cui eri finita andava oltre il mio braccio teso verso di te, e così ti vidi perderti, osservavo la strada che stavi percorrendo sciogliersi attorno ai tuoi piedi, alla tua anima.
E così rimanesti sola.
Nel bosco.
E oggi sei morta. Morta di solitudine, di rimpianti, di dolori soffocati e mai battuti.
Di me, impotente a guardarti mentre morivi.
Sono stato la tua incerta strada, lo sghembo percorso della tua vita, della tua morte.
Sarei dovuto essere più forte, più deciso.
Non saremmo giunti a questo punto. Non sarei giunto a questo punto.
Perché come lo fui io, anche tu eri strada, la strada che io percorrevo.
E adesso mi ritrovo perso, senza nessun sentiero, senza una strada battuta.
Nel bosco.
Come lo sei stata tu.
E il bosco fa paura, e so di non essere così forte da poterlo affrontare. Tu hai sperato di trovare un alleato di battaglia nelle tue droghe, ma mi hai insegnato che queste non bastano. Con la tua vita me lo hai insegnato.
E allora penso che il piombo sia la soluzione migliore…
E sono sicuro che da qualche parte ritroverò un sentiero che porta il tuo nome. (…)
Giudizi
«È un racconto denso, da meditazione, sembra la
poesia in prosa di Cesare Pavese. La scansione in quarti fa eco alla metrica in
quartine delle poesie e alla tetraggine del buio e della morte, filo conduttore
avvincente per i legami che rivela. Da rileggere più volte, sembra quasi un
progetto ingegneristico che svela una nuova abilità, prima nascosta, ad ogni
ripasso.» (Angelo
Leva)
«Una raccolta di
eventi scanditi dai versi di una poesia: nel bosco / appena in tempo / stella
cadente / di notte. Un esperimento che risulta senza dubbio originale,
attraverso il quale l'autore non ostenta l'espressività del flusso di coscienza
ma, per fortuna del lettore, si limita a carezzare ed esternare con genuinità
le sensazioni che lo travolgono. Per quanto le esperienze narrate siano del
tutto slegate tra loro, un filo rosso di inquietudini sfiora tematiche di pari
delicatezza: la morte, l'abbandono, la tristezza e la scoperta della propria
malattia letale. Forse acerbo nella forma, ma sicuramente adeguato nel binomio
stile-emozioni.» (Marco
Fratta)
opera 6^ classificata
Alessandro Chiarini,
bresciano, classe 1978. Coniugato, con figli, libero professionista, 173 cm,
numericamente molti meno i chilogrammi... Segni particolari: nessuno. Interpellato
dalla scrittura,
in particolare modo da quella sacra, con la scrittura ad essa risponde. Un
azzardo necessario in primis per sé. Quanto raccolto in queste pagine trova
spazio anche on-line, in Facebook
alla voce il pane
della domenica. Un azzardo che spinge al confronto quindi, perché la
domanda: “Adamo, dove sei?” non resti senza risposta.
In principio
In quel tempo, a Betlemme,
l'amministrazione neoeletta non aveva ancora approntato il piano di
illuminazione pubblica, un buio oleoso e assoluto invischiava la terra da sera
a mattina.
Conoscevano bene quel buio i
pastori, il nero vestiva a perfezione certe loro non proprio limpide azioni.
Al buio là fuori si sommava per
Maria la percezione di un buio interiore, a intermittenza, nero assoluto in
corrispondenza di ogni contrazione e a seguire una breve pausa di luce, fioca
debole, il tempo del respiro e poi una nuova spinta.
Non da meno Giuseppe, inquieto e
irritato, misurava tutta la sua inutilità con passi nervosi e lo sguardo fisso
sul niente, un niente nero perfettamente indifferente.
E fu in quella notte che venne
alla luce la luce.
LUCE urlò Dio in faccia
all'abisso e la parola fu così potente che si ruppe il buio, si aprirono le acque
e subito ne uscì un bimbo -Cristo- che segnò il principio.
Molti anni dopo
Cristo ho la netta sensazione che
tu sia passato, bussando all'ingresso della mia abitazione, senza che alcuno
dalla casa si sia affacciato.
Ero via o ero troppo impegnato,
il lavoro, la scuola, il centro giovanile, sono sopraffatto.
Hai forse lasciato un biglietto?
Sai, Bartolini lascia sempre l'avviso con scritto: "effettuato
un tentativo di consegna". Io poi chiamo e mi accordo.
Potresti prendere esempio, passi
e non mi trovi, lasci un biglietto, io ti chiamo e fissiamo un appuntamento,
funziona così.
Ricorda: via Marconi 17 in quel
di Mazzano, ti aspetto.
A presto, con stima ed affetto,
Marco.
Qualche giorno dopo
Bzz, suona il citofono. Io: «Chi è?»
Dall'altra parte:«Sono Giovanni
dalla Palestina».
Io:« No, non serve niente,
grazie, ciao».
Bzz, il suono del citofono ancora
una volta. Io: «Chi è? »
Si sente: « Sono Giovanni, il
figlio di Elisabetta, il precursore.
Voce che gracchia al citofono e
annuncia il Signore».
Io:« No scusa, sono preso, non ho
tempo, ripassa in un altro momento».
Bzz. Bzzzzz.
Io esasperato:« Basta! Chi sei e
che vuoi? Sappi che sono cattolico, frequento. Vero, non sempre, ma tutto
sommato frequento. Conosco la storia di Gesù, ricordo ancora i comandamenti!»
Lui:«È fra voi. È fra voi. Ma chi
lo riconosce? Chi si converte? Da tempo percorro le strade al di qua del
Giordano, ma temo a volte di camminare invano».
Ciò detto se ne andò mesto. (…)
Giudizio
«Perché è sempre un bell'azzardo riaggiornare
quei fatti.» (Nino Di
Paolo)
Fara Editore
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