sabato 6 dicembre 2014
Su Volevo essere Bill Evans di Sergio Pasquadrea
di Marcello Tosi
Godibilissima piccola storia del jazz, rivisitato attraverso le varie epoche e il ricordo di molti dei suoi grandi protagonisti, Volevo essere Bill Evans (opera vincitrice del concorso Faraexcelsior 2014) è un bella swing-parade di flash, emozioni e impressioni colte tra un concerto e un ascolto, tra festival e jam session. “Conversazioni in trio”, per dirla alla maniera dello stesso Evans.
Storie di jazz, narrate in modo appassionato dall’autore, che si occupa d’insegnamento e di giornalismo musicale, buttando, recita la sua biografia, ogni tanto le mani sul pianoforte, ma anche realizzando disegni come quelli che illustrano il volume. In bianco e nero naturalmente, come il jazz. Storie di nomi, di vita, di strane manie e di luoghi, come ha scritto Stefano Martello, perché “il jazz è una questione di feeling – ha aggiunto Ardea Montebelli – non ci sono mezze misure. O ce l’hai o non ce l’hai…”.
Racconto di racconti, pieno quindi di passione, come solo l’amore per la musica sa suscitare, con cui l’autore sa trasmettere perfettamente la corporeità della musica, il suo entrare prepotentemente nella vita scendendone il ritmo. “Feeling e non questione intellettuale”, rimarcava Evans, che, sottolinea Pasquandrea, parla come suona, o per meglio dire suona come parla, come tutti i veri musicisti, che parlano in continuazione della propria vita.
Una musica che torna quindi a catturare di nuovo, che vive altrove, che sa diffondere nell’aria trenta secondi di pura bellezza, come ascoltando un magico assolo che vede insieme le voci supreme di Billie Holiday e il sassofono di Lester Young. Trenta secondi di bellezza abbagliante, a riscattare le loro morti squallide di fronte alla eternità.
Perché Il jazz tutta questione di attimi. Here and now, qui e ora. To be in the moment. Illuminazione fulminea di bellezza che lampeggia e poi svanisce… stato mentale, come quello di Miles Davis in So What, l’inizio del riff in si minore di A Love Supreme, l’introduzione di Louis Armstrong di West End Blues…
Così come la scoperta della musica ha conciso per l’autore con la scoperta del jazz, l’ascolto della musica di Evans si è per lui rivelata “un’esplorazione di territori psichici che non ero del tutto cosciente di possedere”.
“La musica è la tua esperienza, i tuoi pensieri, la tua saggezza. Se non la vivi, non verrà mai fuori dal tuo strumento” (Charlie Parker).
Il percorso di Pasquandrea si dipana come una sfilata di leggende: Petrucciani, il grillo che aveva uno swing micidiale, gli accordi strani che fuoriescono dalla mani di Thelonious, swing a casa di Amstrong per ricordare il suo sorriso vasto enorme e debordante, suo vero volto, o sua maschera. E poi l’essenzialità e il fascino della voce di Nina Simone, l’arcangelo maledetto Chet Baker, la riscoperta del genio multiforme di Ray Charles, il breve sorriso di Errol Gardner, la signorilità del “pianismo ben temperato” di Lionel Hampton, Coltrane che in silenzio apprende la lezione di “Bird”, “l’orso” Ornette Coleman e il contatto che trasmette con la grande bellezza universale che si rivela nei momenti di maggiore ispirazione. Ma anche curiose digressioni, come quella sul ruolo del jazz in capolavori dell’animazione, come Chi ha incastrato Roger Rabbit?, o Gli Aristogatti.
Se devi chiedere cos’è il jazz non lo saprai mai, diceva il grande Satchmo, e Max Roach aggiungeva “io vedo il jazz come un grande fiume in movimento, ogni generazione vi ha appreso qualcosa”. Quando è nato il jazz? È una musica ancora vita e vitale o “manda uno strano odore”, come sogghignava sulfureo Frank Zappa? “Brutta cose le categorie”, risponde l’autore: “Le categorie usano il bisturi, e il bisturi fa male. Perché non proviamo ad ascoltare, e basta? Magari ci divertiamo.”
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