di Vincenzo D’Alessio
Caro Alessandro sono questi i giorni nei quali si respira l’aria del Natale che sta per arrivare. Sai, noi uomini festeggiamo questo giorno per ricordare la nascita di Gesù ma anche perché nel nostro animo c’è una luce antichissima che viene tramandata, contro ogni nostra volontà, nel sangue che ci permette di vivere. Calore che viene dalla luce che non vorremmo finisse nel buio della scomparsa definitiva dalla scena terrena, dai nostri affetti, dai nostri amici sinceri, proprio come te.
Ti scrivo per questo: per rinnovare il calore che ci accomuna nel vivere quotidiano, anche a distanza, che ci permette di vincere la solitudine, la tristezza che ci coglie di sera quando il buio rinnova il suo patto con la finitezza dell’esistenza e ce lo ricorda. Il Natale è per noi e per tanti come noi il momento magico nel quale i ricordi riaffiorano e siedono a tavola, imbandita per il cenone, riportandoci i volti degli affetti persi, dei viaggi superati, delle musiche serene piene di vita.
La nascita dell’amore nell’uomo per l’universo, per l’infinito e durevole gesto dell’attesa di una nuova vita è quasi una staffetta continua per non lasciarci acchiappare dalla Morte. Il ricordo che tante volte ho raccontato ai ragazzi a scuola è legato al Natale dell’anno 1956 e alla grande nevicata che seguì a febbraio. Abitavo allora in una piccola abitazione nel rione della Misericordia, due stanzette: la cucina che fungeva anche da sala da pranzo e la stanza da letto dei miei genitori e sorelle. Come unico maschio dormivo da solo in cucina, in una piccola branda accanto alla stufa di ghisa alimentata a legna. La porta d’ingresso era di legno e dava su di un balcone pianerottolo dove c’era la scala che portava al piano terra rappresentato da alcuni vani adibiti a depositi. Un portone più grande dava sul vicolo a poca distanza dalla chiesa.
Il rione, dove ero nato pochi anni prima, aveva preso quel nome proprio dalla chiesa eretta nel 1673 dalla nobile famiglia Vigilante per ringraziare Maria SS. di avere risparmiato quei superstiti dalla peste del 1656: infatti il rione era stato il più colpito da quella terribile epidemia. La porta d’ingresso alla cucina di casa era in legno con la parte superiore in vetro, le notti d’inverno il vento la faceva traballare ed io, che dormivo proprio di fronte , immaginavo chissà quali demoni potessero spiarmi: per questo dormivo quasi sempre con la testa sotto le coperte.
Il Natale arrivò con la novena suonata dagli zampognari: misteriosi uomini vestiti di un caldo mantello con una cornamusa realizzata con una pelle quasi verdognola: seppi in seguito da mia madre si trattasse di una pelle di lupo. Venivano da Campobasso, dormivano presso una famiglia del rione e si accontentavano di qualche spicciolo o del poco cibo che le famiglie offrivano loro a fine novena. La vigilia di Natale faceva un gran freddo, mia madre era andata alla fontana pubblica a prendere l’acqua che doveva bastare per l’intera giornata. Era tornata intirizzita e con il naso rosso. A mezzogiorno aspettavamo mio padre che tornasse dal lavoro. La cena di Natale la passavamo dai nonni materni che abitavano a poca distanza: da loro c’era un calore più forte a causa del focolare, c’era il baccalà fritto, le caldarroste, il pane fatto in casa da mia nonna e per gli adulti il capitone. Per noi più piccoli i pop corn e qualche dolcetto portato dagli zii e da mio padre.
Verso le undici di quel mattino di vigilia mia madre preparò la pentola grande di alluminio sul fornello a gas con acqua, pane duro dei giorni precedenti, un filo d’olio e una foglia di lauro: il pane cotto! Questo era il pranzo della vigilia. Appena cotto il profumo del pane si spandeva nella cucina, mia madre con il mestolo prelevava dalla grande pentola fumante una parte del contenuto e la versava in un recipiente di alluminio più piccolo munito di solido coperchio. Lo legava in un panno pulito da cucina e me lo affidava: “ – scendi piano le scale, bussa alla porta accanto al nostro portone, entra e porta questo alle sorelle Nicolina e Caterina, lascia lì tutto e torna subito a casa!”
Vivevano accanto alla nostra abitazione due sorelle nubili, anziane, poverissime. Una di queste, Caterina, era un poco ritardata mentalmente, rideva quasi sempre. Uscivano poco in strada e non le vedevo quasi mai a messa: allora ero chierichetto nella vicina chiesa della Misericordia. Mia madre mi raccontò che a Caterina mentre dormiva un topo, di notte, le aveva rosicchiato una parte dell’orecchio. Queste abitavano in un’unica stanza a piano terra con il pavimento in terra battuta. Ripenso spesso a loro.
Quel Natale mi è rimasto particolarmente nel cuore perché la sera del cenone, dai nonni, mentre il vento del Nord faceva rientrare il fumo nel camino, mia madre con la mantella di lana sulle spalle e un fazzoletto colorato a quadroni tra le mani , con dentro delle patate cotte sotto la cenere del camino, sparì dietro l’uscio del portone dei nonni , nel buio del vicolo illuminato dall’unica lampadina posta all’angolo. Tornò dopo poco tempo, sorrise e venne accanto al focolare dov’ero seduto anch’io e rivolto a me sottovoce esclamò: “ È Natale anche per loro!”
Caro Alessandro, a raccontarla questa parte della mia infanzia ai ragazzi a scuola quasi mi vergogno, perché nei loro occhi scorgo la luce fredda dell’incredulità e del benessere.
Con affetto, tuoi Vincenzo e famiglia
24 novembre 2014
2 commenti:
Caro Vincenzo,
ho letto il tuo racconto dal quale traspare la delicatezza e la sensibilità che so essere parte vera della tua personalità.
Essendo nato anch'io in un paese di montagna, ricordo la grande nevicata del 1956, cui sono legati anche miei ricordi particolari di figure per me importanti come quella di mio nonno. Ma mi tioccano anche le cose dette e non dette nel tuo racconto su quella umanità e su quella società ormai scomparse: era il mondo certamente del bisogno, dellla miseria, ma era anche il mondo in cui circolavano valori di cui purtroppo non vi è più traccia.
Ti ricordo sempre con piacere.
un caro saluto
Sebastiano Martelli
Caro Vincenzo,
grazie per aver condiviso la tenera lettera di Natale che mi ha fatto fare delle riflessioni anche sulla mia fanciulezza che per alcuni punti collimano nello spirito.
Un caro saluto. Mario
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Mario B. Mignone, Director
SUNY Distinguished Service Professor
Editor of Forum Italicum
Center for Italian Studies
Stony Brook University
Stony Brook, NY 11794-3358
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