giovedì 6 marzo 2014

Una bella mail su “La Pleiade”


http://www.nuovepagine.it/2014/05/la-pleiade-franco-santangelo/
Carissimo Gianni,

ho dedicato a La Pleiade l'attenzione e l'interesse che il tuo lavoro merita.
La lettura è stata occasione di riflessione e divertimento insieme. Indubbiamente si è davvero fortunati quando accade di poter vivere queste due fonti di diletto dello spirito in una medesima esperienza.
Per questo, anzitutto ti ringrazio.
Se fossi in grado di utilizzare l'emisfero sinistro del mio cervello così come faccio uso del destro – incapacità che evidenzia solo la mia estrema pigrizia nel ragionamento analitico -, avrei sicuramente potuto apprezzare e comprendere meglio lo schema iniziale, in cui ritengo sia una delle chiavi essenziali di questo racconto, così come nel rapporto tra la prima e la seconda ne ho avvertita un'altra non meno rilevante.
Ho avuto anch'io esperienza di come la dignità umana venga volentieri sacrificata alla bassezza, appena si ha la possibilità di nascondersi dietro uno schermo, che dà la certezza – non importa quanto illusoria – dell'impunità. La crudeltà e la superficialità stringono spesso, in tali circostanze, un patto osceno, in cui lo spirito viene soppresso per asfissia, a cominciare ovviamente, come sempre accade, dall'arte e dalla poesia.
Leggendo La Pleiade, c'è seriamente da meditare sul modo in cui dalle amare esperienze e riflessioni della prima parte possa sortire un giallo.
Ho ripensato spesso, prima e dopo la lettura, alla tua voce che sceglieva il termine "terapeutico" per definire la scrittura, proprio mentre perfezionavi questo scritto. C'è senz'altro qualcosa di estremamente profondo, che viene espresso attraverso una forma quasi ludica. E questa profondità, con i suoi risvolti opachi, permane.
La terapia è senz'altro efficace, ma non si guarisce mai del tutto, com'è giusto che sia. Chi affronta davvero le avversità trova infine il modo giusto per curare ogni male, ma non guarisce mai del tutto. Non a caso, a far da immagine piena del processo terapeutico della scrittura non c'è solo il Luca raggirato e inguaiato, ma anche il cadavere di Julius.
Se ipotizziamo che entrambi siano personaggi nati dai sentimenti provati dal narratore della prima parte di fronte al trattamento subito nei circoli letterari online, vi troveremo senza fatica l'intero spettro esistenziale in forma di giallo: lo slancio emotivo e necessariamente ingenuo che ogni atto artistico di per sé implica (in Luca), la problematicità del puro e semplice condividere in gruppo questo slancio, il cadavere di Julius, a suggerire come non propriamente di difficoltà si tratti, quanto piuttosto di impossibilità.
Tra i vari livelli di lettura, il più profondo che mi è stato possibile identificare è forse quello che vede in questa trama la rappresentazione stessa della creazione artistica. Luca crede fortemente in Caccini e, nella possibilità stessa che quell'incontro si realizzi, è perfino “posseduto” da quel pensiero, nell'attesa di poter conseguire il proprio sogno.
In quel luogo, però, come sempre accade in ogni creazione artistica che sia viaggio avventuroso, non trova quanto si aspettava, ma tutt'altro.
C'è delusione, orrore, trappola, stupore. C'è innegabilmente – anche se Luca non lo vede con i propri occhi – un cadavere: la scoperta che forse è morta la fede nella scrittura quale ideale “incontro” con altre anime scriventi.
La dimensione della scrittura resta solitaria.
E terapeutica: il cadavere è tale, sì, ma in quanto ucciso da altri.
Ciò di cui siamo certi, infatti, è che Luca è del tutto innocente.

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