Auschwitz, 27 gennaio 1945
Fu una mattina gelida, invernale. Aprirono i cancelli e questi cigolarono. L’alito, caldo, si fece affanno. Gli scarponi avanzarono. Gli occhi aperti e le bocche chiuse, ammutolite. Superarono i fili spinati. Tutt’intorno, silenzio e neve. Apparvero loro i primi internati, come fantasmi. Scheletri vestiti, deformi, curvi. Iniziò, così, l’orrore. Li videro uscire dai dormitori. Non erano uomini, erano ciò che restava. Non dissero nulla. Guardarono e basta. Le bestie che avevano urlato, riso, ucciso, torturato, erano scappate. Per questo, non si sentì sparare. I passi aumentarono. Ai numerati se ne aggiunsero altri: donne e bambini, poche, pochi. Qualche bambino sorrise. Alcune donne, senza capelli, iniziarono a piangere e anche qualche vecchio. Mentre gli uomini no. Non credevano che era finita. Non credevano che la Morte li aveva lasciati vivi. Entrarono nelle baracche. Qualcuno si tolse l’elmo e iniziò a grattarsi la testa. Il puzzo era umano, ma comunque stomachevole. Ne videro, così, altri, stesi su nudi e umidi tavolacci. Lo sguardo smarrito. Occhi vuoti, corpi intirizziti dal freddo e, ancora, dalla paura. Allora, furono portate le prime coperte. Recavano scritte in cirillico. I bambini, più coraggiosi, perché più vivi, mostrarono loro numeri tatuati sulla pelle e tesero ciotole vuote: avevano fame. Passo dopo passo il campo si riempì e andarono da per tutto. Fu così che videro… l’inimmaginabile. I forni crematori, abbandonati, ma ancora fumiganti. L’odoro, in alcuni di loro, provocò il vomito. Poco più in là, le fosse comuni. Corpi nudi, aggrovigliati. Si fermarono. Nessuno disse niente. Guardarono e videro la Morte, il Male. Qualcuno iniziò a fotografare e filmare. Tutto doveva essere documentato, a perpetua memoria. Continuarono a girovagare per i campi dello sterminio, percorrendo i viottoli, entrando nelle baracche, negli alloggi. Tutto appariva irreale, non possibile, non umano, come un incubo. Invece, quando il sole si fece alto, tutto era vero; mostruoso, ma umano. Non era un sogno, era la realtà. Era stato l’Inferno sulla terra. Le bestie avevano reso l’impossibile possibile. Quella mattina non nevicò. Per questo, sembrò primavera. Giunsero, nel frattempo, i primi autocarri. Portarono via i sopravvissuti. Fragili, come foglie secche, vi salirono. Qualcuno, allora, iniziò ad abbozzare un sorriso, qualche altro a parlare. Le lingue furono tante, ma tutte molto umane. E queste lingue divennero milioni, perché, poi, iniziarono a raccontare ciò che fu, ciò che non dovrà mai più accadere. E mentre loro partivano, per sempre, altri arrivarono, in quelle stesse ore, chiamati via radio per vedere ciò che il mondo non aveva voluto vedere, ma che ora doveva vedere. Qualcuno, si sedette, la testa tra le mani, la vergogna dentro il cuore. Erano giovani. Non avrebbero visto mai più nulla di simile. Molti di loro non fecero ritorno nelle loro case. Mentre, molti altri divennero padri, ma non raccontarono mai ai loro figli quel che videro, quel che piansero, quel che vomitarono. Questo videro i soldati russi ad Auschwitz il 27 gennaio 1945.
SIAMO
di Sandro Serreri
Auschwitz, 27 gennaio
Siamo, cenere, acre
nel vento della storia
urla di bambini scheletro
e lacrime di madri vedove
donne senza latte e capelli
e uomini divorati dalla paura.
Siamo, ossa, marce
nella grassa terra invernale
colline di cadaveri, nudi
e groviglio di bocche, soffocate
mercanti dai denti strappati
e signore vestite di vergogna.
Siamo, corpi, mostruosi
nei campi dello sterminio
fantasmi di salmi nascosti
e occhi di vecchi, ammutoliti
sangue amarissimo e innocente
e cuori vuoti e inospitali.
Siamo, la coscienza, pesante
nella fossa del Male.
E noi, a loro
perdonateci!
No!
LA CLESSIDRA
Al 31 dicembre
di ogni anno
Sulle note del Concerto a cinque
per oboe solo e archi
op. 9, n. 2 in re minore, Adagio
di Tomaso Giovanni Albinoni
Il tempo fugge, come, un ladro
in questa notte, stellata e nera
come non mai.
Ha rubato tutto o quasi, a noi
che non sappiamo né correre
né contare.
A noi, povere ombre decadenti
infelice ritrovo di amarezze
d’altre lune e d’altro, ancora.
C’è rimasto solo, un fazzoletto
per soffiarci il naso e, forse
una lacrima.
Un rosso fiorellino di campo
per ricordarci com’eravamo
anche se, nudi.
Il resto, è stato portato via
chi sa dove, ma questo, si sa
poco importa.
Ma c’eravamo affezionati, maledizione!
perchè non dirlo, a questi giorni
pur tutti uguali, tutti.
A queste ore dal ticchettio
fatto di sabbia colorata
e di vetro soffiato.
A questo nido, piccolo e solitario
abbarbicato in una stanzuccia
remota, quanto basta.
Così, ci ha rubato il pianto
del timido mattino per un sole
troppo pallido.
I nascosti movimenti quotidiani
intrisi di lavori domestici
molto poco nobili.
Il profumo del buon caffè
e il magico petagramma inglese
assai musicale.
E poi, il ritmo delle gocce
sui vetri appannati e freddi
comunque, ospitali.
I passi per vie sconosciute
nella disperata ricerca
d’un abbraccio, d’un bacio.
L’illusione d’un amore, ah!
eterno, perché l’eternità
esista, chi sa?
Il desiderio d’una casa
enorme, come un castello
sotto la neve: ah, la neve!
Tutte le fiabe nordiche
dove, c’è sempre qualcuno
che muore e nasce.
L’amaro della tristezza
che muta d’abito, ma
puzza, sempre.
L’infelicità di ritrovarsi
infinitamente soli e
ancora, bambini.
I libri, bellissimi, favolosi
tanti, come viaggi continentali
senza bussola e polare.
Milioni di pagine stampate
scritte, sudate, stralette, consumate
segretamente baciate: silenzio!
E poi, ancora, la tenerezza d’uno sguardo
chiusa in una scatoletta
da niente.
Il mormorio del vento che soffia
come, un flauto che respira
volando, su e giù, come un aquilone.
Il battito d’una farfalla danese
e il cinguettio d’un passero, stanco
ed infreddolito.
Gl’insignificanti ricordi fotografici
incollati su foglie canadesi, ben sigillati
da un nastro turchese e olandese.
Minuscoli pezzi d’oro colati giù
da cieli, che si stenta riconoscere
come sinceri.
Un cucchiaino d’argento, una stampa
ottocentesca, un ritratto enigmatico
dagli occhi blu.
Ma anche, dolori insopportabili
e ansie da vertigine, vuoti profondi
come un abisso, infernale.
Lutti e feste, tradimenti e
l’incomprensibile leggerezza
dell’amicizia.
E, infine, tutti i profumi, proprio
quelli collezionati con cura
quasi maniacale.
Insieme, alcuni umani odori
d’un bambino innamorato
offeso e imprigionato.
I colori degli autunni e delle poche
primavere, inesistenti acquarelli
dall’indefinibile valore.
Fugge e corre e s’affanna
il grande ladro, il tempo
questo tempo.
E la clessidra, inciampando
cade, e si rompe e con lei
tutta la nostra vita.
GUARDA SEMPRE IL CIELO E
NON ODIARE NESSUNO!
Dedicato agli ebrei del 27
gennaio 1945
Incontrai un giovane amico, al quale dissi: Guarda
sempre il cielo e non odiare nessuno! Sì, guarda sempre il cielo anche quando
piove; guarda sempre il cielo anche quando non c’è il sole; guarda sempre il
cielo anche quando non ci sono le stelle. E non odiare nessuno, non desiderare
il male di nessuno, non volere la disgrazia di nessuno. Questo ho vissuto,
questo sto vivendo, questo voglio continuare a vivere. Perché il cielo è là e
l’odio è qua; perché il cielo è grande e l’odio è piccolo; perché il cielo è
aperto e l’odio è chiuso. Non c’è scampo: o guardi il cielo o odi! Scegli! Io
ho scelto il cielo, ho scelto l’infinito, ho scelto lo spazio dell’orizzonte.
Chi vuole scegliere il limite? Chi vuole scegliere il finito? Chi vuole
scegliere il confine? Il misurabile non fa per me. Il determinabile non è per
me. Forse anch’io ho avuto il mio lager. Forse anch’io ho avuto la mia baracca.
Forse anch’io ho avuto i miei aguzzini. Sono rimasto in piedi. Sono rimasto
vivo. Sono rimasto un uomo. E quando la Notte tutto avvolgeva, non ho mai
smesso di sognare il buon mattino. E quando il freddo mi gelava i piedi e le
mani, non ho mai smesso di camminare e di tenerle aperte. E quando il Male, il
Dolore, la Sofferenza, la Morte, m’indurivano il cuore, non ho mai smesso di
amare. E quando il Vuoto, il non senso, l’irrazionale, tutto aggredivano,
violentavano, sbranavano, non ho mai smesso di scrivere e recitare poesie. E
quando il Silenzio dominava assurdamente, dentro e fuori, non ho mai smesso di
cantare. E quando Dio si nascondeva e taceva, non ho mai smesso di pregare. E
uscito dalla Fossa più nera e più profonda, non ho maledetto il cielo e la
terra, ma ho continuato a credere nell’uomo, ho continuato a credere
nell’amore, ho continuato a credere nell’amicizia. Ecco perché, mio giovane
amico, pur piangendo, anche oggi, ma anche domani e dopodomani, continuerò a
guardare il cielo e a non odiare nessuno.
LA STELLA GIALLA
di Sandro Serreri
Ho sognato, sì ho sognato di avere una stella gialla cucita sul petto e di pregare e urlare: Dio, Dio mio, dove sei? Dove, dove ti nascondi? Perché, perché taci? Ho sognato che il suo silenzio mi atterriva e che piangevo, piangevo molto. Ho sognato che osservavo il cielo e che dal cielo cadeva prima la pioggia e poi la neve, ma non cadeva Lui. La mia stella gialla non era come quelle che, luminose, brillavano in un cielo vuoto di Dio. E più mi giravo e rigiravo col naso all’insù e più quel vuoto mi angosciava. Sentivo un forte dolore che dallo stomaco saliva passando per il cuore e la gola sino ad esplodere dentro la testa dove come una eco rimbombavano le domande: Dove sei? Perché taci? La notte era invernale col suo immenso gelo che respiravo e respingevo ansimante. Era la notte infinita del mio Dio e la vidi ancor più nera. E nel sogno, camminavo ora con gli occhi fissi sul firmamento ora fissi sulla strada avanzando a tentoni come un cieco. Su e giù, a destra e a sinistra, ma niente: né un suono né una luce. Sentivo la pressione del sangue. Abbacinato dalle stelle cantavo la mia preghiera: Dio, Dio mio, Dio invisibile, Dio nascosto, Dio muto! Che Dio sei? Se non ti vedo, che Dio sei? Se non ti sento, che Dio sei? Ho sognato che l’incomprensibile non era la stella gialla, ma il silenzio del Dio della mia infanzia. Ho sognato che l’irrazionale non era la stella gialla, ma l’assenza di Dio. E più urlavo il mio dolore metafisico e più la mia religione s’inceneriva e volava via come polvere. E ho sognato che non mi vergognavo della mia stella gialla, ma di me uomo senza Dio, uomo senza la voce di Dio, uomo senza il volto di Dio. Ho sognato, allora, e solo allora, che Lui non era nei cieli, ma nel segreto profondo della mia interiorità, delle mie parole sussurrate, nelle mie note emesse a labbra strette, nei miei pensieri infiniti ed eterni, nella mia piccola felicità, nella fiammella della mia ragione, nella mia quotidiana commozione nell’accorgermi della calda e luminosa bellezza della vita. Ho sognato che la stella gialla era il mio cuore e che lì, e solo lì, avrei trovato il mio Dio nascosto e silenzioso.
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