di Vincenzo D’Alessio
“Un giorno invochi quello che non c’è. Ne scriverai presto, perché la bruciatura non passa subito. Scrivendone, vedrai che tutto è in tutto, nel bene e nel male. Allora non sarà più la mancanza di uno, rispetto all’altro. Sembrerà la mancanza del capezzolo al cucciolo (anche umano) (e fame); e il silenzio di Dio a chi lo cerca (più fame); e la mancanza di cibo e acqua ad una bocca che li chiede, non per vizio ma per vivere ancora (una fame infinita).” (M. Sannelli, Scuola di poesia, Wizarts Editore, 2010).
La memoria per me è indispensabile. Oggi mi guardi con disprezzo quando mangio il pane caldo, acquistato al supermercato, con uno spicchio di cipolla: mi eviti perché l’alito è poco odoroso. Il pane che mangio non l’ho impastato, come facevo negli anni Cinquanta accanto a mia nonna.
Sono cresciuto in una famiglia contadina, nel ciclo delle stagioni, con una fede cristiana priva di rassegnazione, convinto che il dolore fosse figlio della Morte. La fatica era un peso necessario. I padroni ci toglievano quasi tutto, se eravamo buoni servitori ci lasciavano qualcosa per non crepare nella miseria. Ho portato gli stessi abiti per molti anni. Ho avuto due paia di scarpe: uno per l’inverno e i sandali per l’estate. Lo zucchero a casa nostra era poco. Il fuoco nel focolare ci scaldava anche a stomaco vuoto.
Ho frequentato le elementari, poi la scuola media unificata. Ho lasciato in treno il paese verso la città il primo anno delle scuole superiori: quanta vergogna! Il vestirsi, la colazione( la dividevo con un amico) , il cappotto nuovo: mio padre l’ha acquistato quando ho vinto la prima ( ed unica) borsa di studio alle superiori. Non ho mai preso il caffè nei bar vicino alla scuola perché non avevo il denaro necessario. Ho attraversato i momenti difficili del movimento studentesco del finire degli anni Sessanta. Sono stato punito nel voto finale all’esame di Stato ma ho preso il diploma con un buon tema d’Italiano: il professore della commissione d’esame, che veniva del liceo classico, si congratulò con me.
Ho preso a lavorare presto. Ho intrapreso strade difficili nella società meridionale scandalizzando i paesani e nutrendo le speranze artistiche di tanti giovani, compreso i figli. Mi hanno fatto compagnia pochi superstiti di quel transito culturale. Ho conosciuto l’emigrazione e l’amicizia è ancora salda. Ho conosciuto l’umiliazione sul lavoro, gli orari difficili della fabbrica. Non mi sono tirato indietro di fronte alle tante difficoltà dovute al mio stato. Ancora oggi come vedi viviamo nella semplicità.
I contadini che conoscevo, quelli dal basco di lana azzurro, sono scomparsi. Con loro è scomparsa la terra coltivata, i boschi ben tenuti, gli animali rispettati ( ognuno di essi aveva un nome umano). A loro ho lasciato l’onestà, la parola data, il rispetto, il sogno che sarei diventato padre, un giorno, senza i timori di compiere troppi errori. Invece, oggi, alla luce del quotidiano quei timori sono diventati reali, incubi. Sento dentro di me “i padri della terra” che mi rimproverano ogni alba che sorge di essere rimasto in questi luoghi, a lavorare tra questa gente, che tradisce gli uomini che amano la Cultura e difendono le scelte di libertà, senza sottomissioni.
Partire per lavorare nel Mondo, cosa che avrei dovuto fare anch’io, cosa che fece il mio maestro Michele negli anni Cinquanta. Nelle nazioni più civili, dove il valore dell’onestà (leggi pure meritocrazia) è la migliore specializzazione per lavorare e raggiungere una quota sociale. Cerco di resisterti accanto, nonostante il “tramonto e l’evaporazione” della figura paterna, come scrive il filosofo Jacques Lacan e ben riporta Massimo Recalcati nel suo recente libro: Cosa resta del padre? perché noi siamo rimasti padri della terra, senza più la terra.
Verso l’alba quando vengo a prenderti in città, dove trascorri giustamente con gli amici il fine settimana nelle strade piene di nebbia, infreddolito non riesco ad essere diverso da mio padre che mi cercava convinto com’era, uscito incolume dalla Seconda Guerra Mondiale, che i figli potessero non tornare a casa. Salvami nel tuo cuore e comprendimi ché spero per te una sorte migliore.
Gennaio, 2014
tuo padre
1 commento:
Egregio Professor Vincenzo, penso che suo figlio possa essere a orgoglioso di avere un padre come Lei, colto, sensibile, onesto e generoso.
Un mondo di bene a Lei, a suo figlio e alla sua famiglia,
Caterina Camporesi
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