Giambattista
Bergamaschi
Ma le nuove generazioni… leggono?
Leggere
è la cosa più importante.
Lasciatelo
dire, non ci sono molti marinai che sanno leggere, ed è un male,
perché così firmano qualsiasi contratto.
Gli
viene detto che devono trasportare tabacco da Charleston, ma nessuno
gli ha accennato che prima devono caricare schiavi in Africa.
(Björn
Larsson, La
vera storia del pirata Long John Silver,
Iperborea, 1998, p. 62)
***
È
opinione comune che i giovani d’oggi non amino leggere. Eppure, a
me sembra di udire ancora la voce di quell’indimenticabile mia
alunna che, riguardo al tema presente, energicamente insorse un dì,
quasi gridando: “Non è vero che Io
non leggo! Faccio
fuori un
libro ogni quattro giorni!”
Ora
la ribattezzerei con infinita simpatia Miss
...anta
all’ora,
ovviamente sperando che durante tutto il tempo passato assieme io sia riuscito in
qualche modo a ficcarle nella bella testolina che leggere un libro
non significa divorarlo famelicamente per sbranarne subito dopo un
altro.
So
di persone che per tutta la loro esistenza hanno letto e
pazientemente riletto un solo, unico Libro.
E
gli è bastato…
La
pratica dell’autentica assimilazione, naturalmente fondata sul
“piacere”, esige in effetti una speciale gestione dei tempi
di lettura
(a meno che non si bruci alle fiamme dell’intollerabile febbre di
chi smaniando brama unicamente di arrivare, non importa come, al
termine di una certa storia solo per sapere “come va a finire”,
infischiandosene altamente di tutto il resto), dal momento che, lungo
il percorso, dovrebbero accendersi le più svariate pulsioni. E
queste vanno consapevolmente assecondate: rileggendo più volte una
determinata sequenza, magari a
voce alta,
tornando a quel che si è già letto per controllare, verificare
intenzioni, intendere meglio, cogliere anticipazioni, coscientizzare
strategie, scandagliare indizi, re-interpretare, svelare trappole o
“anamorfosi” testuali, valorizzare dettagli, godere di nuovo
(insomma, tutte quelle attività, proprie del perfetto lector,
che Umberto Eco chiamerebbe “passeggiatine”), rallentando il
ritmo della lettura, conformando la propria respirazione a quella del
testo, cercando relazioni empatiche con l’autore per poterne
intimamente rivivere pensieri ed emozioni, sottolineando a matita
taluni passaggi, memorizzandoli, ovvero trascrivendoli su un supporto
qualsiasi (che può essere il prezioso diario dei memorabilia
letterari, o un pratico archivio informatizzato), declamandoli più
volte per assaporarne l’intelligenza trasmigrata nel suono delle
parole, accalappiando disperatamente qualcuno che voglia prestarci un
minimo di attenzione, per condividere con lui quel determinato
pensiero che tanto ci pare unico; infine, dopo una chilometrica lista
di appassionate altre operazioni atte a rendere davvero avvincente il
nostro rapporto “(t)sess(t)uale”,
sospendendo l’“atto” sul più bello…
A
ciò pensavo, sotto il sole ormai clemente d’un tardo e quieto
pomeriggio mediterraneo, mentre con fare un po’ turistico vagavo
per uno di quei distensivi mercatini estivi del libro che, però,
qualche sorpresina a volte te la riservano.
E
poi, devo ammetterlo, a me le cose capitano sempre quando è il
momento.
Così,
fra una selva di pubblicazioni che forse soltanto nel peggiore dei
miei incubi riuscirei a sognare (giardinaggio, bricolage e cucito,
giochi di carte, basso occultismo, mantiche e talismani, biografie di
Eminem e Maradona, manuali
su funghi domestici e cani velenosi, romanzetti rosa) e altrettante
che invece potrebbero interessarmi non poco, se le mie giornate
contassero 48 ore, lo sguardo andò ad inchiodarsi, con
l’incontenibile vigore d’una lucida, travolgente predestinazione,
benché laica, esattamente su una vecchia e cara, carissima
conoscenza: Come
un romanzo,
di Daniel Pennac (UE
Feltrinelli, 2003).
***
Nato
a Casablanca nel 1944, figlio di un generale (“Un
monumento, questo padre: non una punta di razzismo”),
Daniel
Pennac ne segue gli spostamenti durante tutta l’infanzia, e così
ha modo di viaggiare moltissimo: Algeria, Etiopia, Africa
equatoriale, Asia, Europa. Più tardi si imbarcherà come mozzo in
Costa d’Avorio.
Il
suo vero cognome, Pennacchioni, assumerà la forma attuale quando,
per non creare imbarazzo nell’amato genitore, Daniel lo
decapiterà
(equivoco sintattico ’na
’nticchia
freudiano) per firmare un pamphlet giovanile contro il servizio
militare.
Conseguita
la laurea in lettere presso l’Università di Nizza, si stabilisce
in Francia nel 1970, esattamente a Belleville,
quartiere della prima periferia parigina, popolato da africani e non
privo di un certo misterioso fascino: alla speculazione edilizia e
all’avanzata della civiltà tecnologica vi si oppongono eterogenee
e pittoresche tribù che ne fanno l’ambientazione ottimale per dei
complicati intrecci narrativi.
Belleville
è assunta in tal senso a scenario ideale per le innumerevoli
vicissitudini che vedono la variopinta famiglia Malaussène e in
particolare Benjamin, professione “capro espiatorio”,
protagonisti di una fortunatissima serie “poliziesca” (in
italiano: Il
paradiso degli orchi,
La fata
carabina,
La
prosivendola,
Signor
Malaussène,
Ultime
notizie dalla famiglia,
che raccoglie due episodi, “Monsieur Malaussène au théâtre” e
“Des Chrétiens et des Maures”, separatamente apparsi in Francia,
e La
passione secondo Thérèse)
iniziata nel 1985, in seguito ad una sfida raccolta da Pennac durante
un proprio soggiorno in Brasile.
Dimostrando
uno straordinario senso dell’intreccio narrativo, nonché
un’irresistibile vena umoristica sostenuta da un’immaginazione
paradossale («la
vie est une mauvaise farce
»), nelle sue storie surreali Pennac affronta casi imprevedibili
inscritti entro la dinamica cornice di un complesso sfondo
storico-sociale di assoluta attualità, tratteggiato attraverso le
rapide ma inconfondibili pennellate di un linguaggio intenso e
colorito, spesso velato di ironia e, qua e là, elettrizzato da un
frizzante gusto del magico. È così che riesce a tener sempre desta
l’attenzione del lettore, trasmettendogli in ogni caso una
tonificante carica di ottimismo e positività.
A
Parigi Pennac vive tuttora, marito, padre, lettore appassionato,
autore, oltre che della già citata “saga Malaussène”, di
svariati libri per ragazzi (tra questi L’occhio
del lupo,
forse la più bella tra le sue storie. Pennac svela il proprio
segreto nel corso di una recente intervista: se gli adulti sono «des
perdus d’enfance»,
«quand
j’écris mes romans, je retourne au temps flottant de l’enfance»)
e insegnante di francese (cioè professeur
de lettres,
o meglio ancora de
l’être,
come egli stesso ama dire di sé, scherzando ma non troppo) presso un
liceo e una scuola per ragazzi difficili.
“C’è
sempre stato un cane nella sua vita”
(http://it.wikipedia.com/wiki.cgi?Daniel_Pennac).
Interessanti
alcuni passaggi tratti da quanto Pennac, nel corso di un’intervista
concessa nell’aprile del 2000 a Label
France, ha
dichiarato riguardo al ruolo degli insegnanti e all’importanza del
sentimento, e dunque dell’immaginario artistico, nella società
odierna:
La
ginnastica intellettuale del professore consiste nel creare una
dinamica dentro alla propria classe senza negare mai nessuna delle
individualità che la compongono (“il
rispetto delle differenze è la legge stessa dell’amicizia”).
Ciò non fa parte di quel che si insegna ai docenti, ma coincide con
la realtà quotidiana del loro stesso lavoro. […]. Il professore
deve dunque “gestire” istintivamente questo genere di problemi,
che non sono propriamente pedagogici, bensì comportamentali e
affettivi. […] se ci si occupa
solamente dei “bravi” alunni, la pedagogia diventa una specie di
meccanismo cieco che non tocca oltre il 10% dei bambini scolarizzati.
Noialtri professori dovremmo invece dar prova di attenzione reale, di
pazienza, oltre che di una certa gratuità nelle nostre relazioni con
gli alunni. È forse ciò che essi chiamano “rispetto”.
[…]
in quanto docente di lettere, il mio obiettivo è duplice: da una
parte, preparare gli alunni al diploma; dall’altra, se riesco a
organizzarmi, prendere tempo per poter “fabbricare” dei lettori a
lungo termine. Sperando che, in tal modo, io possa ottenere degli
uomini e delle donne degni di compagnia, che soprattutto pensino con
la propria testa (“La
verità è una conquista! Sempre!”, energicamente insegna il
professor Crastaing in Signori
Bambini,
uno tra i più teneri e intriganti romanzi di Pennac).
[…].
Il sentimento è assai disprezzato presso tutte le società meglio
strutturate. Se ne diffida dal momento che esso rappresenta una
terribile forza di sovversione.
[…].
La funzione dell’immaginario nella vita umana è fondamentale.
Secondo me, la creazione artistica gioca per la società intera il
ruolo che il sogno notturno ricopre presso ciascuno di noi
individualmente preso. […]. Ovunque si cerchi di impedire questa
libera espressione del sogno comunitario, la società diviene folle,
come fu per la società nazista, per il totalitarismo staliniano, o
al giorno d’oggi per le società integraliste.
[…].
Io credo che l’artista, sotto questo aspetto, svolga una funzione
sì gratuita, cioè non redditizia, ma anche e soprattutto
terapeutica per la società: la sua follia ci salva dalla follia.
***
Che
cosa pensa di lui la gente comune?
-
è
geniale: si vedono le immagini nello stesso tempo in cui le si legge.
-
Io me la rido da solo nel métro.
-
Amo il suo sguardo, la scintilla di umanità che egli scopre persino
nel peggior mascalzone.
-
Pennac? Gentile. Anche troppo. Si sente addirittura male a dir di no.
***
Come
un romanzo
(Comme un
roman,
Paris, 1992, Edizioni Gallimard, oltre 650.000 copie immediatamente
vendute. Italia: 1ª ed., 1993) è un saggio sul piacere della
lettura, rivolto ai ragazzi ma non solo, e, come spiega l’autore
stesso, “ha per vocazione presentare la mia pratica [didattica]
senza tuttavia erigerla a ’metodo’ ” (Le
pouvoir des livres.
Entretien avec
Daniel Pennac, Label France, Avril 2000).
Dal
quello specialissimo osservatorio socio-culturale che è il liceo
presso il quale da parecchi anni insegna (“la classe, per un
romanziere costituisce un’incredibile miniera di modelli
adolescenziali e familiari. Vi si può avere il sistema sociale al
completo, specialmente se tutte le sue categorie vi sono mescolate”;
da Le
pouvoir des livres,
cit.), e al quale approdano “non quel genere di studenti calibrati
per varcare in gran fretta gli alti portoni delle grandi università,
no, gli altri, quelli che sono stati respinti dai licei del centro
perché la loro pagella non lasciava prevedere un gran voto alla
maturità, né addirittura una maturità […] arenati qui. Respinti
sulla riva, mentre i loro compagni di ieri hanno preso il largo a
bordo di licei-transatlantici in partenza per grandi ’carriere’ ”
(Come un
romanzo,
p. 85), Pennac può toccare con mano la crescente indifferenza nei
riguardi della lettura da parte delle ultime generazioni.
Per
questo, nel saggio in questione, che può essere letto (in virtù di
un’ “intenzione” narrativa che con chiara evidenza ne imbriglia
ogni scheda) anche come
un
accattivante “romanzo”,
egli decide di affrontare da un duplice punto di vista, dello
scrittore e del professore, il problema di come rianimare nei
giovani, e in generale in chiunque con i libri intrattenga un
rapporto problematico, il piacere
della lettura in quanto “atto di creazione permanente” (ibidem,
p. 19), orientato verso l’immaginazione e costruzione di mondi
inediti, “cammino dell’uomo verso l’uomo” (ibidem,
p. 76), ineffabile “viaggio verticale” (ibidem,
p. 14; “voyage
intersidéral”),
come quello da noi effettuato per passare dal segno
al senso,
“dall’assoluto arbitrario grafico al significato più carico di
emozione” (ibidem,
p. 32), nel momento in cui abbiamo imparato a scrivere, a leggere
inebriati e a gridare al mondo intero, prima fra tutte, la parola
“Mamma!”
(uno “choc
dont on ne se remet pas”).
Per
onorare convenientemente un concetto più volte toccato da Pennac nel
corso del proprio lavoro, vale a dire che un romanzo non solo
andrebbe letto (possibilmente ad
alta voce),
ma anche raccontato,
dove per raccontare
l’autore intende “offrire i nostri tesori, spiattellarli
sull’incolta spiaggia”, dando da “fiutare un’orgia di
lettura” (ibidem,
p. 104), dovrei “raccontare” Come
un romanzo,
e potrei farlo prendendo spunto da un paio di esempi presentati nel
libro stesso (rispettivamente, alle pagine 104 e 121-2):
Il
fratello minore, mosca cocchiera: “Cosa leggi?”
IL
MAGGIORE: “La
grande pioggia”.
IL
MINORE: “È bello?”
IL
MAGGIORE: “Un casino!”
IL
MINORE: “Di cosa parla?”
IL
MAGGIORE: “È
la storia di un tale che all’inizio beve molto whisky, alla fine
molta acqua!”
[Su
Guerra e
pace]
“Di
cosa parla?”
“È
la storia di una ragazza che ama un tizio e poi ne sposa un terzo.”
Mio
fratello ha sempre avuto il dono dei riassunti.
[…]
fu il mistero aritmetico della sua frase a […] gettarmi a capofitto
in quel romanzo […]: non so chi avrebbe saputo resistere.
E
allora Come
un romanzo
potrebbe essere riferito al modo di una curiosa storia che, partendo
dalle ossessioni di un adolescente irrimediabilmente inchiodatosi
alla pagina 48 (delle quasi 500 assegnate dal professore!), approda
alla definizione di una “carta dei diritti imprescrittibili del
lettore”: tra essi, quello di “non leggere”.
***
Se
la mia “recensione” finisse qui, probabilmente tutto filerebbe
più o meno come quella volta in cui i 35 alunni di Pennac, persino i
più recalcitranti, reduci dalla prima delle sue irresistibili
lezioni semplicemente imperniate su un paio di elementari strategie
attinenti all’ “arte del porgere” i testi (il segreto è tutto
lì), letteralmente svaligiarono le librerie della zona.
Sennonché,
per quanto si debba o voglia risultare sintetici, un paio di altre
cose andrebbero comunque dette, a riconoscimento dell’indiscutibile
ricchezza e vivacità di provocazioni contenute nel volumetto in
esame: non ultime quelle in cui l’autore, con delicatissimo
affetto, dimostra una profonda e partecipe comprensione dell’universo
giovanile.
Ma
si potrebbe anche risolvere l’intera questione citando direttamente
dal saggio, come per un’antologia, e augurandosi che pure il
lettore voglia fare la sua parte, “resuscitando Lazzaro” a voce
alta, un passaggio dopo l’altro, per la piena riuscita di
un’operazione dal gusto squisitamente pennacchiano:
“[…]
la virtù paradossale della lettura, che è quella di astrarci dal
mondo per trovargli un senso.” (p.
14);
“Grande
piacere di lettore, questo silenzio dopo la lettura!” (p.
14);
[Dal
diario di Franz Kafka]
“Non si riuscirà mai a far capire a un ragazzo che, la sera, è
nel bel mezzo di una storia avvincente, […] che deve interrompere
la lettura e andare a letto.” (p.
48);
“[…]
questa assoluta necessità della lettura è anche ciò che ci
distingue dalla bestia, dal selvaggio, dal bruto ignorante, dal
settario isterico, dal dittatore trionfante, dal materialista
bulimico, bisogna leggere! bisogna leggere!”
[…].
“Per
sapere da dove veniamo.”
“Per
sapere chi siamo.”
“Per
conoscere meglio gli altri.”
“Per
sapere dove andiamo.”
[…].
“Per
trovare un senso alla vita.” (p.
58);
“È
proprio degli esseri viventi di fare amare la vita, anche sotto forma
di un’equazione di secondo grado, ma la vitalità non è mai stata
inserita nei programmi scolastici.
Qui
c’è l’utilità.
La
vita è altrove.
Leggere,
si impara a scuola.
Quanto
ad amare leggere…” (p.
65);
“La
lettura, atto di comunicazione? Ecco un’altra simpatica frottola da
commentatori! Quel che noi leggiamo, lo taciamo. Il piacere del libro
letto lo teniamo spesso gelosamente segreto. […] non vi vediamo
materia di conversazione […]. Abbiamo letto e taciamo. Taciamo
perché abbiamo letto. […].
A
volte è l’umiltà a esigere da noi il silenzio. […] l’intima,
solitaria, quasi dolorosa consapevolezza che questa lettura, questo
autore ci hanno, come si usa dire, ’cambiato la vita’ !” (p.
68);
“[…]
preferiamo troppo spesso il ruolo di commentatori, interpreti,
analisti, critici, biografi, esegeti di opere rese mute […].
Imprigionata nella fortezza delle nostre competenze, la parola dei
libri lascia il posto alla nostra parola. Invece di permettere
all’intelligenza del testo di parlare per bocca nostra, ci
affidiamo alla nostra personale intelligenza, e parliamo del testo.
Non siamo gli emissari del libro ma i custodi giurati di un tempio di
cui vantiamo le meraviglie con parole che ne chiudono le porte […].”
(p. 77);
“Una
sola condizione a questa riconciliazione con la lettura: non chiedere
niente in cambio. Assolutamente niente. Non erigere alcun bastione di
conoscenze preliminari intorno al libro. Non porre la benché minima
domanda. Non dare alcun compito. Non aggiungere una sola parola a
quelle delle pagine lette. Nessun giudizio di valore, nessuna
spiegazione del lessico, nessuna analisi testuale, nessuna
indicazione biografica…
Proibirsi
assolutamente di ’parlare intorno’.” (p.
102);
“In
fatto di lettura, noi “lettori” ci accordiamo tutti i diritti, a
cominciare da quelli negati ai giovani che affermiamo di voler
iniziare alla lettura.
1)
Il diritto di non leggere.
2)
Il diritto di saltare le pagine.
3)
Il diritto di non finire un libro.
4)
[…].
5)
Il diritto di leggere qualsiasi cosa.
6)
[…].
7)
[…].
8)
Il diritto di spizzicare.
9)
Il diritto di leggere a voce alta.
10)
Il diritto di tacere.”
(p. 116);
“[…]
la libertà di scrivere non può ammettere il dovere di leggere.”
(p. 120);
“L’uomo
costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa
mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa
solo.” (p.
139).
***
“Da
quando ero piccola ho sempre letto molto, soprattutto romanzi. È il
modo migliore per farsi un’idea di come si vuole vivere e di chi si
vuole essere.” (Björn
Larsson, L’occhio
del male,
Iperborea, 2002, pp. 101-2).
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