domenica 10 novembre 2013

Giambattista Bergamaschi

Ma le nuove generazioni… leggono?




Leggere è la cosa più importante.
Lasciatelo dire, non ci sono molti marinai che sanno leggere, ed è un male, perché così firmano qualsiasi contratto.
Gli viene detto che devono trasportare tabacco da Charleston, ma nessuno gli ha accennato che prima devono caricare schiavi in Africa.
(Björn Larsson, La vera storia del pirata Long John Silver, Iperborea, 1998, p. 62)


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È opinione comune che i giovani d’oggi non amino leggere. Eppure, a me sembra di udire ancora la voce di quell’indimenticabile mia alunna che, riguardo al tema presente, energicamente insorse un dì, quasi gridando: “Non è vero che Io non leggo! Faccio fuori un libro ogni quattro giorni!”
Ora la ribattezzerei con infinita simpatia Miss ...anta all’ora, ovviamente sperando che durante tutto il tempo passato assieme io sia riuscito in qualche modo a ficcarle nella bella testolina che leggere un libro non significa divorarlo famelicamente per sbranarne subito dopo un altro.
So di persone che per tutta la loro esistenza hanno letto e pazientemente riletto un solo, unico Libro.
E gli è bastato…


La pratica dell’autentica assimilazione, naturalmente fondata sul “piacere”, esige in effetti una speciale gestione dei tempi di lettura (a meno che non si bruci alle fiamme dell’intollerabile febbre di chi smaniando brama unicamente di arrivare, non importa come, al termine di una certa storia solo per sapere “come va a finire”, infischiandosene altamente di tutto il resto), dal momento che, lungo il percorso, dovrebbero accendersi le più svariate pulsioni. E queste vanno consapevolmente assecondate: rileggendo più volte una determinata sequenza, magari a voce alta, tornando a quel che si è già letto per controllare, verificare intenzioni, intendere meglio, cogliere anticipazioni, coscientizzare strategie, scandagliare indizi, re-interpretare, svelare trappole o “anamorfosi” testuali, valorizzare dettagli, godere di nuovo (insomma, tutte quelle attività, proprie del perfetto lector, che Umberto Eco chiamerebbe “passeggiatine”), rallentando il ritmo della lettura, conformando la propria respirazione a quella del testo, cercando relazioni empatiche con l’autore per poterne intimamente rivivere pensieri ed emozioni, sottolineando a matita taluni passaggi, memorizzandoli, ovvero trascrivendoli su un supporto qualsiasi (che può essere il prezioso diario dei memorabilia letterari, o un pratico archivio informatizzato), declamandoli più volte per assaporarne l’intelligenza trasmigrata nel suono delle parole, accalappiando disperatamente qualcuno che voglia prestarci un minimo di attenzione, per condividere con lui quel determinato pensiero che tanto ci pare unico; infine, dopo una chilometrica lista di appassionate altre operazioni atte a rendere davvero avvincente il nostro rapporto “(t)sess(t)uale”, sospendendo l’“atto” sul più bello…


A ciò pensavo, sotto il sole ormai clemente d’un tardo e quieto pomeriggio mediterraneo, mentre con fare un po’ turistico vagavo per uno di quei distensivi mercatini estivi del libro che, però, qualche sorpresina a volte te la riservano.
E poi, devo ammetterlo, a me le cose capitano sempre quando è il momento.


Così, fra una selva di pubblicazioni che forse soltanto nel peggiore dei miei incubi riuscirei a sognare (giardinaggio, bricolage e cucito, giochi di carte, basso occultismo, mantiche e talismani, biografie di Eminem e Maradona, manuali su funghi domestici e cani velenosi, romanzetti rosa) e altrettante che invece potrebbero interessarmi non poco, se le mie giornate contassero 48 ore, lo sguardo andò ad inchiodarsi, con l’incontenibile vigore d’una lucida, travolgente predestinazione, benché laica, esattamente su una vecchia e cara, carissima conoscenza: Come un romanzo, di Daniel Pennac (UE Feltrinelli, 2003).


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Nato a Casablanca nel 1944, figlio di un generale (“Un monumento, questo padre: non una punta di razzismo”), Daniel Pennac ne segue gli spostamenti durante tutta l’infanzia, e così ha modo di viaggiare moltissimo: Algeria, Etiopia, Africa equatoriale, Asia, Europa. Più tardi si imbarcherà come mozzo in Costa d’Avorio.
Il suo vero cognome, Pennacchioni, assumerà la forma attuale quando, per non creare imbarazzo nell’amato genitore, Daniel lo decapiterà (equivoco sintattico ’na ’nticchia freudiano) per firmare un pamphlet giovanile contro il servizio militare.
Conseguita la laurea in lettere presso l’Università di Nizza, si stabilisce in Francia nel 1970, esattamente a Belleville, quartiere della prima periferia parigina, popolato da africani e non privo di un certo misterioso fascino: alla speculazione edilizia e all’avanzata della civiltà tecnologica vi si oppongono eterogenee e pittoresche tribù che ne fanno l’ambientazione ottimale per dei complicati intrecci narrativi.
Belleville è assunta in tal senso a scenario ideale per le innumerevoli vicissitudini che vedono la variopinta famiglia Malaussène e in particolare Benjamin, professione “capro espiatorio”, protagonisti di una fortunatissima serie “poliziesca” (in italiano: Il paradiso degli orchi, La fata carabina, La prosivendola, Signor Malaussène, Ultime notizie dalla famiglia, che raccoglie due episodi, “Monsieur Malaussène au théâtre” e “Des Chrétiens et des Maures”, separatamente apparsi in Francia, e La passione secondo Thérèse) iniziata nel 1985, in seguito ad una sfida raccolta da Pennac durante un proprio soggiorno in Brasile.
Dimostrando uno straordinario senso dell’intreccio narrativo, nonché un’irresistibile vena umoristica sostenuta da un’immaginazione paradossale («la vie est une mauvaise farce »), nelle sue storie surreali Pennac affronta casi imprevedibili inscritti entro la dinamica cornice di un complesso sfondo storico-sociale di assoluta attualità, tratteggiato attraverso le rapide ma inconfondibili pennellate di un linguaggio intenso e colorito, spesso velato di ironia e, qua e là, elettrizzato da un frizzante gusto del magico. È così che riesce a tener sempre desta l’attenzione del lettore, trasmettendogli in ogni caso una tonificante carica di ottimismo e positività.


A Parigi Pennac vive tuttora, marito, padre, lettore appassionato, autore, oltre che della già citata “saga Malaussène”, di svariati libri per ragazzi (tra questi L’occhio del lupo, forse la più bella tra le sue storie. Pennac svela il proprio segreto nel corso di una recente intervista: se gli adulti sono «des perdus d’enfance», «quand j’écris mes romans, je retourne au temps flottant de l’enfance») e insegnante di francese (cioè professeur de lettres, o meglio ancora de l’être, come egli stesso ama dire di sé, scherzando ma non troppo) presso un liceo e una scuola per ragazzi difficili.
C’è sempre stato un cane nella sua vita” (http://it.wikipedia.com/wiki.cgi?Daniel_Pennac).


Interessanti alcuni passaggi tratti da quanto Pennac, nel corso di un’intervista concessa nell’aprile del 2000 a Label France, ha dichiarato riguardo al ruolo degli insegnanti e all’importanza del sentimento, e dunque dell’immaginario artistico, nella società odierna:
La ginnastica intellettuale del professore consiste nel creare una dinamica dentro alla propria classe senza negare mai nessuna delle individualità che la compongono (“il rispetto delle differenze è la legge stessa dell’amicizia”). Ciò non fa parte di quel che si insegna ai docenti, ma coincide con la realtà quotidiana del loro stesso lavoro. […]. Il professore deve dunque “gestire” istintivamente questo genere di problemi, che non sono propriamente pedagogici, bensì comportamentali e affettivi. […] se ci si occupa solamente dei “bravi” alunni, la pedagogia diventa una specie di meccanismo cieco che non tocca oltre il 10% dei bambini scolarizzati. Noialtri professori dovremmo invece dar prova di attenzione reale, di pazienza, oltre che di una certa gratuità nelle nostre relazioni con gli alunni. È forse ciò che essi chiamano “rispetto”.
[…] in quanto docente di lettere, il mio obiettivo è duplice: da una parte, preparare gli alunni al diploma; dall’altra, se riesco a organizzarmi, prendere tempo per poter “fabbricare” dei lettori a lungo termine. Sperando che, in tal modo, io possa ottenere degli uomini e delle donne degni di compagnia, che soprattutto pensino con la propria testa (“La verità è una conquista! Sempre!”, energicamente insegna il professor Crastaing in Signori Bambini, uno tra i più teneri e intriganti romanzi di Pennac).
[…]. Il sentimento è assai disprezzato presso tutte le società meglio strutturate. Se ne diffida dal momento che esso rappresenta una terribile forza di sovversione.
[…]. La funzione dell’immaginario nella vita umana è fondamentale. Secondo me, la creazione artistica gioca per la società intera il ruolo che il sogno notturno ricopre presso ciascuno di noi individualmente preso. […]. Ovunque si cerchi di impedire questa libera espressione del sogno comunitario, la società diviene folle, come fu per la società nazista, per il totalitarismo staliniano, o al giorno d’oggi per le società integraliste.
[…]. Io credo che l’artista, sotto questo aspetto, svolga una funzione sì gratuita, cioè non redditizia, ma anche e soprattutto terapeutica per la società: la sua follia ci salva dalla follia.


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Che cosa pensa di lui la gente comune?
- è geniale: si vedono le immagini nello stesso tempo in cui le si legge.
- Io me la rido da solo nel métro.
- Amo il suo sguardo, la scintilla di umanità che egli scopre persino nel peggior mascalzone.
- Pennac? Gentile. Anche troppo. Si sente addirittura male a dir di no.


***

Come un romanzo (Comme un roman, Paris, 1992, Edizioni Gallimard, oltre 650.000 copie immediatamente vendute. Italia: 1ª ed., 1993) è un saggio sul piacere della lettura, rivolto ai ragazzi ma non solo, e, come spiega l’autore stesso, “ha per vocazione presentare la mia pratica [didattica] senza tuttavia erigerla a ’metodo’ ” (Le pouvoir des livres. Entretien avec Daniel Pennac, Label France, Avril 2000).

Dal quello specialissimo osservatorio socio-culturale che è il liceo presso il quale da parecchi anni insegna (“la classe, per un romanziere costituisce un’incredibile miniera di modelli adolescenziali e familiari. Vi si può avere il sistema sociale al completo, specialmente se tutte le sue categorie vi sono mescolate”; da Le pouvoir des livres, cit.), e al quale approdano “non quel genere di studenti calibrati per varcare in gran fretta gli alti portoni delle grandi università, no, gli altri, quelli che sono stati respinti dai licei del centro perché la loro pagella non lasciava prevedere un gran voto alla maturità, né addirittura una maturità […] arenati qui. Respinti sulla riva, mentre i loro compagni di ieri hanno preso il largo a bordo di licei-transatlantici in partenza per grandi ’carriere’ ” (Come un romanzo, p. 85), Pennac può toccare con mano la crescente indifferenza nei riguardi della lettura da parte delle ultime generazioni.
Per questo, nel saggio in questione, che può essere letto (in virtù di un’ “intenzione” narrativa che con chiara evidenza ne imbriglia ogni scheda) anche come un accattivante “romanzo”, egli decide di affrontare da un duplice punto di vista, dello scrittore e del professore, il problema di come rianimare nei giovani, e in generale in chiunque con i libri intrattenga un rapporto problematico, il piacere della lettura in quanto “atto di creazione permanente” (ibidem, p. 19), orientato verso l’immaginazione e costruzione di mondi inediti, “cammino dell’uomo verso l’uomo” (ibidem, p. 76), ineffabile “viaggio verticale” (ibidem, p. 14; “voyage intersidéral”), come quello da noi effettuato per passare dal segno al senso, “dall’assoluto arbitrario grafico al significato più carico di emozione” (ibidem, p. 32), nel momento in cui abbiamo imparato a scrivere, a leggere inebriati e a gridare al mondo intero, prima fra tutte, la parola “Mamma!(uno “choc dont on ne se remet pas”).


Per onorare convenientemente un concetto più volte toccato da Pennac nel corso del proprio lavoro, vale a dire che un romanzo non solo andrebbe letto (possibilmente ad alta voce), ma anche raccontato, dove per raccontare l’autore intende “offrire i nostri tesori, spiattellarli sull’incolta spiaggia”, dando da “fiutare un’orgia di lettura” (ibidem, p. 104), dovrei “raccontare” Come un romanzo, e potrei farlo prendendo spunto da un paio di esempi presentati nel libro stesso (rispettivamente, alle pagine 104 e 121-2):


Il fratello minore, mosca cocchiera: “Cosa leggi?”
IL MAGGIORE: “La grande pioggia”.
IL MINORE: “È bello?”
IL MAGGIORE: “Un casino!”
IL MINORE: “Di cosa parla?”
IL MAGGIORE: “È la storia di un tale che all’inizio beve molto whisky, alla fine molta acqua!”


[Su Guerra e pace]
Di cosa parla?”
È la storia di una ragazza che ama un tizio e poi ne sposa un terzo.”
Mio fratello ha sempre avuto il dono dei riassunti.
[…] fu il mistero aritmetico della sua frase a […] gettarmi a capofitto in quel romanzo […]: non so chi avrebbe saputo resistere.


E allora Come un romanzo potrebbe essere riferito al modo di una curiosa storia che, partendo dalle ossessioni di un adolescente irrimediabilmente inchiodatosi alla pagina 48 (delle quasi 500 assegnate dal professore!), approda alla definizione di una “carta dei diritti imprescrittibili del lettore”: tra essi, quello di “non leggere”.


***

Se la mia “recensione” finisse qui, probabilmente tutto filerebbe più o meno come quella volta in cui i 35 alunni di Pennac, persino i più recalcitranti, reduci dalla prima delle sue irresistibili lezioni semplicemente imperniate su un paio di elementari strategie attinenti all’ “arte del porgere” i testi (il segreto è tutto lì), letteralmente svaligiarono le librerie della zona.
Sennonché, per quanto si debba o voglia risultare sintetici, un paio di altre cose andrebbero comunque dette, a riconoscimento dell’indiscutibile ricchezza e vivacità di provocazioni contenute nel volumetto in esame: non ultime quelle in cui l’autore, con delicatissimo affetto, dimostra una profonda e partecipe comprensione dell’universo giovanile.
Ma si potrebbe anche risolvere l’intera questione citando direttamente dal saggio, come per un’antologia, e augurandosi che pure il lettore voglia fare la sua parte, “resuscitando Lazzaro” a voce alta, un passaggio dopo l’altro, per la piena riuscita di un’operazione dal gusto squisitamente pennacchiano:


[…] la virtù paradossale della lettura, che è quella di astrarci dal mondo per trovargli un senso.” (p. 14);


Grande piacere di lettore, questo silenzio dopo la lettura!” (p. 14);


[Dal diario di Franz Kafka] “Non si riuscirà mai a far capire a un ragazzo che, la sera, è nel bel mezzo di una storia avvincente, […] che deve interrompere la lettura e andare a letto.” (p. 48);


[…] questa assoluta necessità della lettura è anche ciò che ci distingue dalla bestia, dal selvaggio, dal bruto ignorante, dal settario isterico, dal dittatore trionfante, dal materialista bulimico, bisogna leggere! bisogna leggere!
[…].
Per sapere da dove veniamo.”
Per sapere chi siamo.”
Per conoscere meglio gli altri.”
Per sapere dove andiamo.”
[…].
Per trovare un senso alla vita.” (p. 58);


È proprio degli esseri viventi di fare amare la vita, anche sotto forma di un’equazione di secondo grado, ma la vitalità non è mai stata inserita nei programmi scolastici.
Qui c’è l’utilità.
La vita è altrove.
Leggere, si impara a scuola.
Quanto ad amare leggere…” (p. 65);


La lettura, atto di comunicazione? Ecco un’altra simpatica frottola da commentatori! Quel che noi leggiamo, lo taciamo. Il piacere del libro letto lo teniamo spesso gelosamente segreto. […] non vi vediamo materia di conversazione […]. Abbiamo letto e taciamo. Taciamo perché abbiamo letto. […].
A volte è l’umiltà a esigere da noi il silenzio. […] l’intima, solitaria, quasi dolorosa consapevolezza che questa lettura, questo autore ci hanno, come si usa dire, ’cambiato la vita’ !” (p. 68);


[…] preferiamo troppo spesso il ruolo di commentatori, interpreti, analisti, critici, biografi, esegeti di opere rese mute […]. Imprigionata nella fortezza delle nostre competenze, la parola dei libri lascia il posto alla nostra parola. Invece di permettere all’intelligenza del testo di parlare per bocca nostra, ci affidiamo alla nostra personale intelligenza, e parliamo del testo. Non siamo gli emissari del libro ma i custodi giurati di un tempio di cui vantiamo le meraviglie con parole che ne chiudono le porte […].” (p. 77);


Una sola condizione a questa riconciliazione con la lettura: non chiedere niente in cambio. Assolutamente niente. Non erigere alcun bastione di conoscenze preliminari intorno al libro. Non porre la benché minima domanda. Non dare alcun compito. Non aggiungere una sola parola a quelle delle pagine lette. Nessun giudizio di valore, nessuna spiegazione del lessico, nessuna analisi testuale, nessuna indicazione biografica…
Proibirsi assolutamente di ’parlare intorno’.” (p. 102);


In fatto di lettura, noi “lettori” ci accordiamo tutti i diritti, a cominciare da quelli negati ai giovani che affermiamo di voler iniziare alla lettura.


1) Il diritto di non leggere.
2) Il diritto di saltare le pagine.
3) Il diritto di non finire un libro.
4) […].
5) Il diritto di leggere qualsiasi cosa.
6) […].
7) […].
8) Il diritto di spizzicare.
9) Il diritto di leggere a voce alta.
10) Il diritto di tacere.” (p. 116);


[…] la libertà di scrivere non può ammettere il dovere di leggere.” (p. 120);


L’uomo costruisce case perché è vivo ma scrive libri perché si sa mortale. Vive in gruppo perché è gregario, ma legge perché si sa solo.” (p. 139).


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Da quando ero piccola ho sempre letto molto, soprattutto romanzi. È il modo migliore per farsi un’idea di come si vuole vivere e di chi si vuole essere.” (Björn Larsson, L’occhio del male, Iperborea, 2002, pp. 101-2).

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