mercoledì 2 ottobre 2013

ANTICA ACQUA

di  Vincenzo D’Alessio & G.C. “F. Guarini”
 



Molti non sanno dove si trova Serino. Il toponimo ebbe origine dalla ricchezza delle sorgenti che alimentavano un fiume imponente, il Sabato.

I pastori dell’Età del Bronzo Antico frequentarono questa immensa vallata utilizzando i pascoli alti nelle stagioni calde e il fondo valle durante i freddi inverni. La loro lunga e difficile esistenza è oggi rappresentata dalle miriadi di frammenti ceramici, che i fenomeni atmosferici e gli sconvolgimenti umani, disseminano in luoghi diversi che , a seguirli, indicano i sentieri della transumanza di allora utilizzati ancora oggi dai pochi allevatori di bestiame rimasti.

Non sono tra quelli che rimpiangono il passato come l’epoca serena dove gli eventi sono addolciti dalla distanza temporale. Vivo nel tempo che mi è dato con gli occhi rivolti agli eventi che non sono certo facili. La velocità con cui accadono è l’opposto della calma che regna nella grande vallata dove le stagioni sono il metronomo da millenni.

Serino è nell’Irpinia, la regione nella Regione Campania che si è gestita da sola da diversi secoli. I regnanti l’hanno utilizzata, e la utilizzano, come bacino di votanti senza volti, alla ricerca costante del favore per sé o per i figli, pur di uscire dalla tristezza dell’abbandono che cinge, come un muro altissimo, tante comunità.

Invece, proprio in Irpinia c’è l’oro!

Non lo sanno che in pochi. Quei pochi che camminano a piedi tra le vallate e le montagne, superando il filo spinato disposto dai proprietari, i cani inselvatichiti, le asperità naturali.

C’è l’acqua, l’oro vero! La risorsa che ha permesso la vita su questo pianeta. Una risorsa che mano a mano si va esaurendo per l’incessante fame di energie che affligge la civiltà degli uomini. Lo so, l’ho potuto verificare. In questi anni ho visto scomparire diverse sorgenti. Anche il grande sisma del 23 novembre 1980 ha fatto la sua parte. Di nuove non ne ho trovate.

È dell’essere umano la capacità di sfruttare fino all’osso le risorse del pianeta. Gli animali non lo fanno. Così dalle acque del fiume Sabato sono sparite le lontre, quelle che le popolazioni antiche chiamavano “sirene” dei fiumi, Ninfe. Non sono tornate più poiché l’habitat era completamente stravolto.

L’acqua delle sorgenti è stata incanalata dalle popolazioni Sannite, dai conquistatori Romani, dalla popolazione dei Longobardi e così per tutti gli avvicendamenti di potere sul territorio. Gli acquedotti hanno sottratto acqua ai fiumi riducendoli a torrenti. Hanno condizionato anche, con la scomparsa dal territorio, la presenza di fauna e flora. Hanno costretto l’ambiente ad assumere le sembianze di un colabrodo con tanti pozzi artesiani scavati ad emungere, a profondità notevoli, le falde acquifere. Nessuno si è battuto il petto per stabilire l’ecoidrologia del territorio: l’importante era portare l’acqua nelle città, dove c’era l’impellente bisogno.

Le mega città: una bocca grandissima, uno stomaco sempre pronto a digerire, una massa di rifiuti insostenibile prodotti dalla digestione, un mondo sotterraneo di animali infetti pronti ad emergere in superficie.

So che le risorse vengono prese e non ritornano sotto forma di benefici. Non c’è osmosi, non c’è riconoscenza: tutto è dovuto per la sopravvivenza!

Di giorno ho sostato sotto il sole, durante l’Estate, sui pianori carsici del Monte Terminio, a Serino, da dove con un buon binocolo si riesce a scorgere la città dissepolta di Pompei, la pianta dei suoi ordinati decumani, Via dell’Abbondanza. L’acqua che giungeva in questa sveglia città commerciale proveniva proprio dall’Acquedotto di Serino; ma chi se ne ricorda?

D’inverno mi fermo alla base del Massiccio del Matrunolo, dove l’acqua dello scioglimento delle nevi dalle cime alimenta piccole cascate, qualche laghetto tra le rocce calcaree, uno degli affluenti del fiume Sabato. Uno scenario da film che l’Inverno presenta agli occhi attenti dello spettatore. Ma sono anche attore mentre attraverso i sentieri spalmati di foglie secche di Faggi, Aceri, Cerri, Lecci, tentando di non scivolare, mentre mi pungono le caviglie le foglie degli Agrifogli. Lungo l’antico corso glaciale del fiume Sabato delle enormi cavità scavate nei due argini mostrano i denti formatosi dalle stalattiti di ghiaccio. Un abbaiare in lontananza mi distrae da questo bellissimo e silenzioso paesaggio.

Oggi questo territorio immenso, già deturpato dalla presenza del cemento e dal pochissimo rispetto ambientale da parte dei villeggianti e dei turisti occasionali, rischia di essere tradito dalla sua stessa gente, da chi ha il potere voluto dal voto democratico del popolo, ma che non riesce più ad ascoltare le voci che si levano dal popolo; non riescono più a leggere la Poesia che questa grande valle scrive ogni giorno, ogni notte, con indefinita frequenza metrica.
“Chiare, fresche et dolci acque, ove le belle membra pose colei che sola a me par donna” scrisse il poeta Francesco PETRARCA e che a me, per metafora, oggi quella donna sembra la stupenda valle del fiume Sabato che cerca disperatamente di difendersi dalla insaziabile sete d’acqua degli uomini. Sapranno le popolazioni della valle rispettare le proprie risorse idriche difendendole?

Il presente non ha sentore di buono. Il futuro è una incognita alla quale è possibile rispondere soltanto arginando la fuga dei buoni “cervelli” e accogliendo le risorse umane del territorio, confederate in Associazioni spontanee forti dell’Amore per la propria terra.

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