Se penso
ai pilastri del teatro italiano tra Novecento e nuovo secolo, quattro
sono i nomi che mi giungono senza dubbio in mente: Eduardo, Carmelo Bene, Dario
Fo, Paolo Poli. Il primo giorno di giugno del 2013, in un tardo pomeriggio che
si apre dopo lunghe piogge al cielo azzurro, ho avuto la fortuna di
intervistare Paolo Poli.
Giungiamo con la mia compagna e alcuni amici in un
villaggio della Maremma grossetana, Ravi di Gavorrano, presso gli impianti
delle miniere di pirite chiuse all’attività produttiva da diversi decenni.
Assisteremo a una iniziativa culturale denominata “I Luoghi del Tempo” che
coinvolge il vasto territorio di questa provincia del sud della Toscana.
Siamo arrivati con molto anticipo. L’iniziativa, che
si svolgerà all’aperto con brevi passeggiate didattiche attraverso i siti degli
impianti minerari dismessi, ha come fulcro, durante le soste del percorso, la
preziosissima presenza dialogante di Paolo Poli, con infine uno
spettacolo-reading dell’attore e scrittore Marco Baliani accompagnato dal
musicista Mirco Mariottini.
Paolo Poli ci accoglie come vecchi amici. Con la mia
compagna gli ricordiamo d’un suo spettacolo su Palazzeschi a cui avevamo assistito molti anni
prima in Calabria. Gli chiedo poi
titubante se può concedermi un’intervista. Con la semplicità,
l’umorismo, il garbo e la straordinaria eleganza che lo contraddistinguono da
sempre, accetta le mie domande.
Quali sono oggi a tuo parere le
condizioni di salute del teatro italiano?
Mah, io vedo poco, perché quando lavoro batto la provincia e faccio dei
paesini sperduti nel nulla. E quindi nelle grandi città rimango poco, e quando
lavoro io non vado a vedere gli altri. Comunque, siccome non girano tanti soldi
in Italia, la gente fa risparmio sulle cose voluttuarie, come è il teatro. E
quindi non va tanto bene. Anche quando si lavora, poi, a volte non si prendono
i soldi, sicché… ma a me non m’importa dei soldi. È che anche le stagioni
teatrali diventano sempre più brevi, perché i comuni per non sbagliare tengon chiuso il teatro, e così non
sbagliano. Non va né bene e né male. Non va. E quindi io facevo stagioni lunghe in gioventù.
Facevo da sei mesi in su. Fino a nove mesi, il tempo di fare il bambino. E
invece, adesso, l’anno scorso ho fatto quattro mesi, e il prossimo anno cosa
farò? Chi lo sa? Eh?
Questa domanda è collegata
proprio a “chi lo sa?”… Hai portato in scena innumerevoli autori: Beckett,
Genet, Giordano Bruno, Satie, Queneau, Palazzeschi, Landolfi, Savinio, ecc. ecc., fino agli
spettacoli più recenti tratti dalle opere di Parise, Ortese e Pascoli. Quali nuovi
autori vorresti portare in futuro sulla scena e quali, tra gli autori da te già
interpretati, incontreresti ancora e ancora?
Sai… Gassman diceva: “Il mio futuro è dietro le spalle”. Che vuoi… Non
posso fare progetti in un avvenire
che… chissà se ci sono, se sarò ancora vivo a primavera. Eh, visto che piove in
continuazione, ecco, si dice così. Mah… No, non penso più, perché è una fatica pensare. Cosa si farà?
Sai, quand’ero giovane ero avvantaggiato, perché per la religione c’era il
papa, per la politica c’era Mussolini… E diceva Vitaliano Brancati: “L’unica
alternativa per noi giovani era decidere se imparare il valzer oppure il
foxtrot”. Anch’io mi sono trovato in queste condizioni… Ma insomma, poi ho
fatto come meglio potevo.
In una delle sue ultime
interviste, Mastroianni raccontò a Enzo Biagi di provare sempre una grande
emozione sul palcoscenico, come se fosse una interminabile prima volta. Accade
anche a te così?
E certo! E poi la paura. Solo gli imbecilli non hanno paura in guerra.
Invece, chi ha paura sa che al cinema e al teatro i posti indietro sono i
migliori.
Le tue interpretazioni in
televisione e in radio risalgono ormai a molti anni fa: questa distanza è in
relazione a una tua scelta deliberata?
No, perché non posso scegliere io. Lì son dei produttori che… Io ormai
vengo considerato un mammut, come un’epoca del cartaceo, che non c’è più. E sicché
lavoro meno, anzi, quasi nulla. Ma bene, perché è l’epoca in cui mi devo sedere
sotto il portico a vedere le galline che razzolano.
Quale opera del passato o di oggi
potrebbe meglio rappresentare secondo te l’Italia contemporanea?
Mah… È un periodo così basso che… non so…
Sai, guardando Berlusconi mi vien da rimpiangere Mussolini, ed è per me uno
strazio terribile.
Il film che non ti stanchi mai di
rivedere e quello che più ti ha emozionato recentemente.
Ieri sono andato a rivedere restaurato il film “To be or not to be”.
Bellissimo. Bianco e nero, del ’41. Emozionante. Lei è di una bellezza… è
bravissima, Carole Lombard, con questi occhi luminosi…
Il film di Lubitsch?
Lubitsch, sì. Uno dei grandi del cinema di tutti i tempi. E mi ricordo,
a Parigi vidi una commedia di Oscar Wilde, che è ritenuto il più grande nei
dialoghi, nelle curiosità linguistiche. Il film invece era muto. Ma si capiva
ogni cosa. Era “Il ventaglio di Lady Windermere” [Nota: altro film di
Lubitsch, del 1925, tratto dalla commedia di Wilde]. Mi divertii moltissimo, e
ho capito che quando uno è intelligente si fa capire in ogni modo, in ogni
epoca.
Se dovessi paragonare la tua
opera a quella d’un musicista e d’un pittore, quali nomi faresti?
Be’, Morandi, perché ha fatto bottiglie. Partiva da una cosa semplice
come le bottiglie. E poi le bottiglie sembrano le torri di Bologna, sembrano i
giganti di Monteriggioni che Dante descrive nell’ultimo cerchio dell’Inferno.
In musica non so, sono molto ignorante di musica. Io sono figlio delle
canzonette, hai capito, sicché quando mi avevano offerto di andare a Sanremo a
pigliar per il culo Nilla Pizzi, ho detto no. Io mi ricordo ancora di prima
della guerra, dicevano: “Ora ci connettiamo con Radio Bologna: l’ugola d’oro di
Bologna, Petronilla Pizzi”. Era ancora prima della guerra, sicché la signora
l’era intonatissima. E poi, siccome non si vedeva la persona, contava la
bravura, contava l’intonazione; una specialità nella voce che si riconosceva
subito chi era che cantava. E poi c’erano ancora… nonostante che la moglie di
Gaber dica che “era l’epoca in cui amore rimava con cuore”. Non è vero, c’erano
tante belle canzoni. Nella Belle Époque abbiamo avuto tanti musicisti. E da noi
il cinema muto è durato più che in altri paesi, perché facevano lavorare
l’orchestrina che commentava quello che si vedeva nello schermo. Io ho visto
solo le ultime propaggini. Ho visto “La grande parata” [Nota: film muto del
1925 di King Vidor] con Renée Adorée, la
primadonna. Ero bambino, avevo cinque anni, sicché stentavo a leggere i
cartelli, e mi andavano via dopo che avevo letto il primo rigo. Però, quando
lui torna dalla guerra, con le stampelle, con una gamba sola, e lei grida
“Kim!”, allora io ho fatto un urlo, perché avevo finalmente capito i disastri
della guerra. Che invece a scuola ci veniva reclamizzata come una cosa
positiva, perché era l’epoca in cui Marinetti aveva detto: “La guerra, sola
igiene del mondo”.
In un’intervista del 2009 per il
quotidiano “La Stampa” così tu dicevi a Giancarlo Dotti: “Da bambino stavo sempre allo
specchio, perché le suore dicevano: ‘Non state troppo allo specchio, che viene il diavolo’. E io allora lo
fissavo questo specchio, finché mi
veniva un lampo negli occhi e
capivo che il diavolo ero io.”
Com’è quel diavolo bambino oggi?
È molto addolcito, perché si è abituato a campare, nonostante tutto. Ma
comunque, un po’ di perfidia ci vuole perché è difficile trovare l’intelligenza
mescolata alla bontà. Il più delle volte la si trova nelle persone che appaiono
insopportabili, ma perché c’hanno un lume di ragione.
Un oggetto e un profumo che tu
riporteresti dal passato, qui e oggi.
4711, il profumo. Un oggetto… La sputacchiera, che non si vede più.
Perché nell’autobus, no, nel tramway, c’era scritto: “La persona civile non
bestemmia e non sputa per terra”. Perché tutti sputavano moltissimo. Sembra che
ancora in Ungheria si sputi molto.
(risate)
Va bene… Grazie, grazie tante…
Va bene. Si finisce con lo sputo. Benissimo.
(risate e applausi da parte del
pubblico improvvisato)
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