Mondadori, 2012
recensione di Vincenzo D’Alessio
Il romanzo dello scrittore meridiano
Carmine Abbate, che reca il titolo “La collina del vento” (Mondadori,2012), a
mio avviso andrebbe coniugato con i versi della poesia “I padri della terra se
ci sentono cantare”del poeta lucano Rocco Scotellaro ( Tricarico,1923-
Portici(NA),1953) per l’energia che lega generazioni di uomini veri, amanti
della sincera libertà a costo del dolore e della propria vita, figli della dura terra meridionale, dove ogni singolo individuo traccia il
proprio passaggio con un solco solitario, a volte ripreso dai figli: questo romanzo è uno dei pochi esempi
costruttivi di ritorno alla terra d’origine. Già l’epigrafe posta all’inizio
del romanzo recita: “A mio padre, / come promesso.” , ed annuncia il legame
profondo di sangue e di eventi che segnano la scrittura e le figure dei
protagonisti.
Il Nostro ci ha abituato, nella sua
felice produzione, al disvelamento di quella terra che conosciamo con il nome
di Calabria , che in definitiva conosce soltanto chi in quei luoghi nasce e
ritorna: cito il romanzo “La festa del ritorno” (Mondadori, 2004) dove la
figura paterna emerge già in tutta la sua forza e giganteggia. Un’
indissolubile scia d’affetti, tiene il kairos , attraendo il lettore nello specchio dove nomi, luoghi,
scoperte archeologiche, paesi, eventi, attraversano gli occhi e scendono
nell’anima fino al travolgimento. Il télos è questo: fare memoria collettiva
delle vicende che appartengono all’apparenza ad una singola famiglia, gli
Arcuri. Non una saga famigliare ma l’epifania della forza evocatrice che
conduce alla scoperta di verità di esistenze destinate, altrimenti, alla macina
anonima del Tempo.
L’essenza è nell’uso sapiente del
dialetto calabrese, che diviene tutt’uno con la lingua italiana, a suggellare l’appartenenza all’umanità
viva e vera che nella terra dorme da millenni e viene risvegliata per essere
d’aiuto a chi procede nel tempo: in questo modo, nel romanzo di Abbate,
l’archeologia è arricchimento, attesa di verità nascoste, ricchezza per una
terra di miti e di eroi antichi. L’antico si unisce al nuovo, cronotipi, nelle bellissime pagine del paragrafo
3, dove la nascita di Michelangelo, papà del protagonista, sulla collina “del
vento”, il Rossarco, impregna le zolle del sangue del nuovo unendosi simbolicamente a quello degli
antenati, gli antichi greci nascosti nel cuore della terra: ”Il bambino era
adagiato sopra i fiori vellutati di sulla, rosso vivo sul rosso porpora, le
palpebre appiccicate, il cordone ombelicale che ancora lo teneva legato alla
madre. Lei sorrideva, esausta per quello sforzo intenso di pochi minuti, e
Arturo era smarrito, “ ohi Cristo mio, e mo’ ?”, non sapeva cosa fare, guardava
il padre con le mani tra i
capelli, “ e mo’, e mo’”. (pag. 31)
Il racconto, sul filo della memoria
fresca e onnipresente, sembra procedere geneticamente al maschile, mentre a
tirare le fila del destino è l’archetipo della madre, Terra d’appartenenza; sono le figure femminili nel romanzo e
la stessa collina degli eventi. La donna è paziente, fiera, muliebre,
appassionata, sincera, come nel capitolo dove viene descritto il tempo del
fidanzamento tra Arturo e Lina.
Forte il rapporto tra madre e figlio, come nel capitolo 9 , bella la presenza
dei nonni nella famiglia a continuare tradizioni antiche fatte di ricette e
buoni consigli.
Tutto il romanzo vive dell’eredità di
una terra che non ha padroni se non nei registri notarili: padroni e contadini
una lotta interminabile che ha prodotto soltanto sofferenze e lutti: “Il 29
ottobre del 1949 nel fondo Fragalà di Melissa, a un tiro di schioppo da
Spillace, la celere sparò contro dei contadini inermi uccidendone tre, due
uomini e una donna. La loro colpa? Stavano occupando le terre incolte del
barone Berlingieri.” (pag.193) La eco di questi eventi è possibile ascoltarla
in tutti gli scrittori, e i poeti, del Sud dell’Italia(vedi Scotellaro di
“Pozzanghera nera”) che è poi uguale al Sud di ogni continente. Le storie per
il possesso della terra che non apparterrà a nessuno se non a chi l’ha imbevuta
del proprio sudore, della propria passione.
Nel romanzo di Carmine Abbate le voci
dei nuovi lavoranti, salvati da una tragica fine sotto un mare di terra, è
simile a quella di coloro che duemilacinquecento anni fa approdarono sulle
coste calabresi, campane, siciliane, fondando quella meraviglia di prosperità
che prese il nome di Magna Graecia. Tutto accadde qui, tra Crotone, Sibari,
Cirò, Schiavonea, Castrovillari e chissà quante altre località e città greche
che aspettano di essere portate
alla luce: “ Una città è come una persona, nasce cresce e muore, a volte
sparisce lasciando labili tracce che solo un occhio attento può scoprire. Una
città ha un’anima. Quella non scompare mai. E’ dentro ogni spicchio di terra, è
tra l’erba, nell’aria.” (pag.221) Accanto alle città i nomi degli archeologi,
spesso Soprintendenti, che hanno valorizzato con la loro passione le scoperte
effettuate: Paolo Orsi, Francesco Antonio Cuteri, Pietro Giovanni Guzzo e il
meridionalista Umberto Zanotti-Bianco.
Il libro del Nostro mi risveglia nel
cuore il percorso seguito da un altro grande scrittore calabre Saverio Strati,
molto vicino per tematiche ad Abbate specialmente nel romanzo “Il Nodo”
(Mondadori,1965) dove nell’introduzione Stefano Lanuzza scrive: “ Il
protagonista di questa solo apparentemente semplice storia di affetti, intensi
e pure scontrosi fino alla crudeltà, ha una fisionomia non diversa da quella di
altri personaggi di Strati, che affondano le radici nel mondo meridionale,
sospinti nelle loro azioni come nei loro sogni da una aspirazione di rivalsa e
di libertà. La sua paura del matrimonio, un anello appena del “nodo”, la trepidazione cui non sa
sottrarsi nello stabilire un legame tra sé e il figlio bambino, hanno origini
remote, si legano a nodi ben più occulti e indissolubili: quelli della vita e
della società calabresi, che costituiscono la matrice drammatica di tutta
l’opera narrativa di Strati.”
Non è casuale che Carmine Abbate riceve
con questo romanzo il Super Campiello 2012; lo stesso accadde a Saverio Strati
con il romanzo “Il selvaggio di Santa Venere” nel 1977. Il primo vive, oggi, in
Trentino e il secondo a Scandicci (FI). Entrambi hanno nel cuore una terra
bellissima ma sovente senza pietà, l’archetipo solare che dà vita alla
scrittura, al racconto, al libro. La distanza aiuta, irrompe?
Quando nelle ultime pagine del romanzo
Rino Arcuri cuce l’intera sequenza degli accadimenti attraverso la voce del
padre Michelangelo e teme per la fine della sua vita compare il protagonista
silenzio dell’intero racconto, il vento, vivo nelle orbite del giovane
discendente di coloro che hanno attraversato il Secolo Breve, codificando il
proprio contratto esistenziale, per mezzo di un “bene” terreno, ricco di beni
senza tempo: “Ho lanciato un’occhiata fugace nello specchietto retrovisore e ho
rivisto il mio sguardo da ragazzo, quando tornavo a Spillace per le vacanze
estive e lui mi veniva incontro a braccia aperte. Ero felice, si. Perché nel
fulgore di quella mattinata finalmente limpida mio padre era ancora vivo e mi
aspettava sulla nostra collina per un ultimo abbraccio, il più importante della
mia vita.” (pag. 257)
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