Fara Editore e
i giurati del concorso Pubblica con noi 2012
Francesco
Jonus, Frank Spada, Giovanni Fighera, Niva Ragazzi
e Stefano
Martello per la sezione racconto (per
le poesie si veda farapoesia)
sono lieti di
premiare i seguenti autori
I classificato
Raffaele Serafini con Ophelia
L'urlo dei mari folli, immenso
rantolo,
Frantumava il tuo seno fanciullo, troppo dolce e umano;
E un mattino d'aprile, un bel cavaliere pallido,
Un povero pazzo, si sedette muto ai tuoi ginocchi.
Frantumava il tuo seno fanciullo, troppo dolce e umano;
E un mattino d'aprile, un bel cavaliere pallido,
Un povero pazzo, si sedette muto ai tuoi ginocchi.
[da Ophelia di A. Rimbaud]
Mi chiamo Emanuele, vivo da solo, sto per compiere cinquant’anni e insegno
storia dell’arte ai ragazzi del liceo.
È da un intero giorno che continuo a ruminare questa frase, per ritrarre la mia persona, e credo tristemente di non avere altro da aggiungere. Me l’ha messa in testa Irene, l’idea del dipingersi con un solo enunciato, e da ieri non faccio che pensarci, formulando frasi più lunghe e complesse, ma poi ricadendo in questa, brevissima, essenziale. È un pessimo… pessimo autoritratto, penso, e sono passati i tempi in cui due segnacci su una tela erano arte, benché concettuale. Immagini che solo le vite degli altri possano essere così scialbe, e non è facile tollerare l’idea di essere un brutto quadro.
Anzi, peggio: una tela semivuota.
Non ci ho chiuso occhio, stanotte. Mi sentivo un calciatore del Subbuteo, costretto a vivere in piedi.
Eppure sembrava una sciocchezza, all’inizio, ma poi Irene ha insistito con l’esempio dei quadri, spiegandomi che se un pittore si descrive attraverso un autoritratto, allora uno scrittore deve farlo con una frase.
Un romanzo, ho ribattuto, pensando alle autobiografie o ai grandi autori che hanno liberato l’intera loro eredità in una storia.
No, un romanzo è troppo. Quello è raccontarsi, non descriversi.
Stavo per controbattere, ma ho rinunciato. Con Irene è bello anche non parlare, a volte, e rimanere in silenzio, a pensare.
E la sua sarà anche una riflessione banale, che si muove in superficie, nata dal suo essere docente di letteratura inglese, ma non vi avevo mai dato il giusto peso.
Non devi metterci avvenimenti importanti per gli altri, mi ha spiegato ancora, ma solo quelli importanti per te, quelli che ti ritraggono con verità. Non sono molti, fidati…
Ho annuito, cominciando a capire come una frase così sia una sorta di autoanalisi, per detrazione, e ho cercato le parole che potessero descrivermi.
Continuavo a confrontare gli autoritratti di Van Gogh e Caravaggio, allineandoli in un mio corridoio mentale, e tanto mi sembravano schietti e veri i primi, quanto trovavo innaturali i secondi.
E le mie prime frasi, purtroppo, appartenevano a questi ultimi.
Eppure avrei voluto, senza dubbio, essere un capolavoro.
Non ho una vita abbastanza interessante, le ho detto, poco prima che mi chiamassero. Vorrei che la mia frase fosse un Van Gogh, ma mi esce a malapena una pessima imitazione di un Mirò taroccato!
Oh… ma non bisogna aver avuto una vita interessante, per scrivere una frase interessante. L’importante è che sia vera.
Già. Aveva ragione.
E allora eccomi tornato al mio quadro lungo due righe.
Mi chiamo Emanuele, vivo da solo, non ho ancora compiuto cinquant’anni e insegno storia dell’arte ai ragazzi del liceo.
Qualunque altra cosa da aggiungere mi suona sempre un po’ bugiarda.
Oggi la racconterò a Irene, anche se me ne vergogno un po’. Alla fine, pur sforzandomi, ho dipinto qualcosa di molto simile alla sua frase.
Lei, quasi scherzando, si ritrae come una signorina che ha superato i quarant’anni e legge ancora Shakespeare mentre ascolta i Metallica.
Sì, lo so, me ne sono accorto anch’io. Essere sinceri ci ha reso noiosi, lei un po’ meno di me.
Forse, a fine frase, sarebbe il caso di aggiungere che abbiamo entrambi il cancro, ma come ho ben imparato negli ultimi mesi, sarebbe una grave violazione alla lista di parole da non pronunciare. (…)
È da un intero giorno che continuo a ruminare questa frase, per ritrarre la mia persona, e credo tristemente di non avere altro da aggiungere. Me l’ha messa in testa Irene, l’idea del dipingersi con un solo enunciato, e da ieri non faccio che pensarci, formulando frasi più lunghe e complesse, ma poi ricadendo in questa, brevissima, essenziale. È un pessimo… pessimo autoritratto, penso, e sono passati i tempi in cui due segnacci su una tela erano arte, benché concettuale. Immagini che solo le vite degli altri possano essere così scialbe, e non è facile tollerare l’idea di essere un brutto quadro.
Anzi, peggio: una tela semivuota.
Non ci ho chiuso occhio, stanotte. Mi sentivo un calciatore del Subbuteo, costretto a vivere in piedi.
Eppure sembrava una sciocchezza, all’inizio, ma poi Irene ha insistito con l’esempio dei quadri, spiegandomi che se un pittore si descrive attraverso un autoritratto, allora uno scrittore deve farlo con una frase.
Un romanzo, ho ribattuto, pensando alle autobiografie o ai grandi autori che hanno liberato l’intera loro eredità in una storia.
No, un romanzo è troppo. Quello è raccontarsi, non descriversi.
Stavo per controbattere, ma ho rinunciato. Con Irene è bello anche non parlare, a volte, e rimanere in silenzio, a pensare.
E la sua sarà anche una riflessione banale, che si muove in superficie, nata dal suo essere docente di letteratura inglese, ma non vi avevo mai dato il giusto peso.
Non devi metterci avvenimenti importanti per gli altri, mi ha spiegato ancora, ma solo quelli importanti per te, quelli che ti ritraggono con verità. Non sono molti, fidati…
Ho annuito, cominciando a capire come una frase così sia una sorta di autoanalisi, per detrazione, e ho cercato le parole che potessero descrivermi.
Continuavo a confrontare gli autoritratti di Van Gogh e Caravaggio, allineandoli in un mio corridoio mentale, e tanto mi sembravano schietti e veri i primi, quanto trovavo innaturali i secondi.
E le mie prime frasi, purtroppo, appartenevano a questi ultimi.
Eppure avrei voluto, senza dubbio, essere un capolavoro.
Non ho una vita abbastanza interessante, le ho detto, poco prima che mi chiamassero. Vorrei che la mia frase fosse un Van Gogh, ma mi esce a malapena una pessima imitazione di un Mirò taroccato!
Oh… ma non bisogna aver avuto una vita interessante, per scrivere una frase interessante. L’importante è che sia vera.
Già. Aveva ragione.
E allora eccomi tornato al mio quadro lungo due righe.
Mi chiamo Emanuele, vivo da solo, non ho ancora compiuto cinquant’anni e insegno storia dell’arte ai ragazzi del liceo.
Qualunque altra cosa da aggiungere mi suona sempre un po’ bugiarda.
Oggi la racconterò a Irene, anche se me ne vergogno un po’. Alla fine, pur sforzandomi, ho dipinto qualcosa di molto simile alla sua frase.
Lei, quasi scherzando, si ritrae come una signorina che ha superato i quarant’anni e legge ancora Shakespeare mentre ascolta i Metallica.
Sì, lo so, me ne sono accorto anch’io. Essere sinceri ci ha reso noiosi, lei un po’ meno di me.
Forse, a fine frase, sarebbe il caso di aggiungere che abbiamo entrambi il cancro, ma come ho ben imparato negli ultimi mesi, sarebbe una grave violazione alla lista di parole da non pronunciare. (…)
Raffaele Serafini è nato a Udine nell’agosto
del ’75 e vive ben radicato nella bassa friulana. Laureato in Economia e
Commercio, finisce per lavorare nel settore scolastico, insegnare lingua
friulana ed entrare nel mondo dell’editoria collaborando con Edizioni XII.
Rimestatore culturale per natura e creativo per inerzia, è appassionato di
libri, racconti, poesia, musica, blog, mare e sorpresine Kinder. Scrive spesso
di tematiche vicine al weird e al fantastico, ma la sua migliore ambizione
resta quella di saper raccontare belle storie.
Giudizi
«Una Vita che cambia. Che circoscrive le prospettive.
Che vince il desiderio del Futuro soffermandosi sul Presente di un giovane uomo
che ancora non ha compreso come mettere a frutto il proprio talento. Perché
quel Presente può essere misurato, percepito, analizzato. Può ancora offrire
sconfitte a breve termine e vittorie più durature. Una Vita che vince la paura
grazie ad un oroscopo. Perché in battaglia tutto è utile per sfangare la
giornata. Una Vita che seleziona ciò che conta o ciò che si vuole conti.
Dispiace solo che sia per necessità e non per scelta. Un racconto toccante e
delicato.» (Stefano Martello)
«Discesa agli inferi con dignità estrema, coltivando
una gemma di speranza per la possibilità di risorgere ad un futuro di ritrovato
quotidiano vivere e dimenticare la malattia ed il suo corollario. Ho
particolarmente apprezzato lo stile discorsivo, elegante, assolutamente
aderente alla storia che l'autore andava svolgendo.» (Niva Ragazzi)
«Ancorato piedi a terra ad annotare la “quotidianità”
di un insegnante appassionato del lavoro (sensibilmente attento a collegare la
vulnerabilità vitale a un rapporto d’amicizia ritrovata e all’attenzione verso
gli altri), l’autore ci presenta un racconto permeato di tenerezza e ironia, un
tutto tondo artistico che accarezza l’ineffabilità della speranza.» (Frank Spada)
«Strutture classiche, linguaggio mirato e scorribilità
lodevole per un’opera che colpisce nel profondo. Una narrazione diretta e senza
fronzoli, con un autore che distilla a poco a poco le parole, senza vergare
arabeschi o aggiungere vezzi inutili, traccia con maestria una storia più che
mai attuale: un racconto che “morde” e lascia il segno.» (Francesco Jonus)
«In un piacevole racconto lungo, ambientato nel mondo
della scuola, con uno sguardo intelligente, l’autore esplora le prove e gli
esami della vita, tra l’universo adolescenziale e quello adulto, in una
dialettica costante che mostra come la condizione umana sia un’attesa dell’evento.
L’uomo è in perenne movimento, non da solo, verso il suo destino e compimento.
La dimensione dell’incontro anima tutta la vicenda, così come la memoria
letteraria dell’Amleto shakespeariano
diventa importante strumento interpretativo della storia.» (Giovanni Fighera)
II Classificato
Anna Anzellotti con La favola mia
I FALCHI DATI IN DONO ALL’IMPERATORE
Un giorno un falconiere regalò due falchi all’imperatore.
Uno era scarno, la sua apertura alare era disarmonica, i suoi piedi goffi ed impacciati; l’altro era il falco più bello che si fosse mai visto, il suo dorso era fiero ed eretto, le sue ali si dischiudevano elegantemente e il suo capo era diritto ed attento.
L’imperatore era lieto di questo dono e si recava ogni giorno ad ammirare i suoi falchi. Quello grosso e scarno, tutti i giorni, prendeva il volo e tornava la sera dopo aver solcato mille pianure; il falco bello ed elegante, invece, rimaneva immobile, con lo sguardo assorto ed assente, a solcare le mille pianure della sua mente.
– Come mi piacerebbe vederlo volare! – pensava ogni giorno l’imperatore.
Ma niente! Il falco dal petto fiero ed imponente rimaneva lì fermo a guardare.
Passarono gli anni ed un pomeriggio passò di lì un contadino. Il falco scarno e goffo era già volato via e l’uomo si fermò tutto il pomeriggio a parlare con il falco elegante ed eretto, poi, all’imbrunire, andò via. L’indomani, meraviglia delle meraviglie, il bel falco aveva dischiuso le sue ali e si era alzato nel cielo nel più ardito dei voli.
L’imperatore non stava più nella pelle e chiese ai suoi servitori se sapessero come ciò fosse mai potuto accadere. I servitori risposero che il giorno avanti avevano visto un giovane sedere tutto il pomeriggio accanto al falco e discorrere con lui. Allora il re chiese chi fosse questo giovane ed ordinò di rintracciarlo e condurlo a palazzo.
I servi trovarono il giovane e lo condussero dall’imperatore. Questi gli disse: - Giovane, da più di cinque anni il falco con cui hai a lungo parlato ieri dimora nella mia casa. Ho aspettato ogni giorno di vederlo volare ma ogni sera dovevo coricarmi senza veder questo desiderio esaudito. Come hai fatto tu, in poche ore, a compiere questo miracolo?
- Non ho fatto nulla - rispose il contadino – ho solo tagliato il ramo che aveva davanti e che gli impediva di vedere il cielo.
- Quale ramo aveva davanti? – chiese l’imperatore. – Io non ho mai visto rami davanti al mio falco!
- Eppure, sire, le assicuro che c’era – rispose il giovane.
- Ahimè! – disse l’imperatore. – Non mi sono bastati anni per vedere quello che tu hai visto in poche ore!
– Si sbaglia ancora una volta! – rispose il contadino. – Io non ho visto il ramo, ho solo fatto in modo che lui mi dicesse che c’era.
- Ma io pensavo che il bel falco non sapesse volare! – rispose l’imperatore.
- Sire, tutti i falchi sanno volare! – replicò il contadino.
– È solo che alcuni di loro hanno bisogno che qualcun altro gli rammenti che possono farlo.
L’imperatore chinò il capo, congedò il contadino e fece ritorno nelle sue stanze.
Da quel giorno il falco bello ed elegante continuò a dimorare nella casa dell’imperatore perché quella era la sua casa e lì doveva essere il suo ritorno ma, ogni mattina, dischiudeva le sue belle ali e con volo elegante e fiero passava sulla casa del giovane contadino, lì indugiava il suo volo e per lui, per lui solo, sbatteva le ali volteggiando nel cielo mille e mille volte fino a lasciare una scia.
Il giovane non usciva a mirare il suo volo, perché sapeva che il falco dimorava nella casa del re e che lì doveva essere il suo ritorno ma, ogni mattina, aspettava in silenzio di poterlo sentire e, solo dopo che era passato, poteva cominciare lieto la sua giornata, perché sapeva che quando qualcuno ti appartiene non conta se dimori o meno con te e sapeva anche che quando sei capace di ricordare a qualcuno che può volare, anche se non sei un falco, stai volando anche tu insieme a lui.
Uno era scarno, la sua apertura alare era disarmonica, i suoi piedi goffi ed impacciati; l’altro era il falco più bello che si fosse mai visto, il suo dorso era fiero ed eretto, le sue ali si dischiudevano elegantemente e il suo capo era diritto ed attento.
L’imperatore era lieto di questo dono e si recava ogni giorno ad ammirare i suoi falchi. Quello grosso e scarno, tutti i giorni, prendeva il volo e tornava la sera dopo aver solcato mille pianure; il falco bello ed elegante, invece, rimaneva immobile, con lo sguardo assorto ed assente, a solcare le mille pianure della sua mente.
– Come mi piacerebbe vederlo volare! – pensava ogni giorno l’imperatore.
Ma niente! Il falco dal petto fiero ed imponente rimaneva lì fermo a guardare.
Passarono gli anni ed un pomeriggio passò di lì un contadino. Il falco scarno e goffo era già volato via e l’uomo si fermò tutto il pomeriggio a parlare con il falco elegante ed eretto, poi, all’imbrunire, andò via. L’indomani, meraviglia delle meraviglie, il bel falco aveva dischiuso le sue ali e si era alzato nel cielo nel più ardito dei voli.
L’imperatore non stava più nella pelle e chiese ai suoi servitori se sapessero come ciò fosse mai potuto accadere. I servitori risposero che il giorno avanti avevano visto un giovane sedere tutto il pomeriggio accanto al falco e discorrere con lui. Allora il re chiese chi fosse questo giovane ed ordinò di rintracciarlo e condurlo a palazzo.
I servi trovarono il giovane e lo condussero dall’imperatore. Questi gli disse: - Giovane, da più di cinque anni il falco con cui hai a lungo parlato ieri dimora nella mia casa. Ho aspettato ogni giorno di vederlo volare ma ogni sera dovevo coricarmi senza veder questo desiderio esaudito. Come hai fatto tu, in poche ore, a compiere questo miracolo?
- Non ho fatto nulla - rispose il contadino – ho solo tagliato il ramo che aveva davanti e che gli impediva di vedere il cielo.
- Quale ramo aveva davanti? – chiese l’imperatore. – Io non ho mai visto rami davanti al mio falco!
- Eppure, sire, le assicuro che c’era – rispose il giovane.
- Ahimè! – disse l’imperatore. – Non mi sono bastati anni per vedere quello che tu hai visto in poche ore!
– Si sbaglia ancora una volta! – rispose il contadino. – Io non ho visto il ramo, ho solo fatto in modo che lui mi dicesse che c’era.
- Ma io pensavo che il bel falco non sapesse volare! – rispose l’imperatore.
- Sire, tutti i falchi sanno volare! – replicò il contadino.
– È solo che alcuni di loro hanno bisogno che qualcun altro gli rammenti che possono farlo.
L’imperatore chinò il capo, congedò il contadino e fece ritorno nelle sue stanze.
Da quel giorno il falco bello ed elegante continuò a dimorare nella casa dell’imperatore perché quella era la sua casa e lì doveva essere il suo ritorno ma, ogni mattina, dischiudeva le sue belle ali e con volo elegante e fiero passava sulla casa del giovane contadino, lì indugiava il suo volo e per lui, per lui solo, sbatteva le ali volteggiando nel cielo mille e mille volte fino a lasciare una scia.
Il giovane non usciva a mirare il suo volo, perché sapeva che il falco dimorava nella casa del re e che lì doveva essere il suo ritorno ma, ogni mattina, aspettava in silenzio di poterlo sentire e, solo dopo che era passato, poteva cominciare lieto la sua giornata, perché sapeva che quando qualcuno ti appartiene non conta se dimori o meno con te e sapeva anche che quando sei capace di ricordare a qualcuno che può volare, anche se non sei un falco, stai volando anche tu insieme a lui.
AnnaAnzellotti è nata a Padova il
12 novembre 1969. È laureata in Lettere ed è iscritta all’Ordine nazionale dei
Giornalisti pubblicisti. È istruttore amministrativo in un Ente pubblico e vive
a Lanciano. Da sempre appassionata di arte, musica e letteratura, è convinta che
la scrittura sia un mezzo, raffinato e perfetto, per vincere la morte.
Consacrando in parole un po’ di noi stessi, del nostro cammino, delle persone
che abbiamo amato, di ciò che abbiamo visto ed udito e provato in questa vita,
renderemo a tutto ciò l’immortalità. Con ilmiolibro.it
ha pubblicato il volume di poesie Giri di
parole (2011). L’opera è un “narrare in versi”, un viaggio nell’universo
parallelo dell’amore, piccolo-grande padrone irriverente in grado di renderci
migliori e redimerci. Attualmente sta lavorando alla stesura di un romanzo e al
progetto discografico dì-versi in musica
che vede l’unione delle sue grandi passioni, poesia e musica, in un unico
ascolto.
Giudizi
«Gocce di modernariato storico, stillate con maestria.
Una gradevole sequenza di fiabe che attingono a scenari fantastici e antichi
per rappresentare pensieri dalla valenza universale; ogni insegnamento risulta
attuale e comprensibile, senza mai scadere nell’abusato o nell’insipido. Una
lettura estremamente godevole.» (Francesco Jonus)
«“Ti sbagli!” le disse la vecchia tenendole la mano “Io
l’ho visto davvero il tuo aquilone! Inseguilo sempre. Rincorrilo tutti i giorni
finché avrai fiato! L’unica cosa per cui valga la pena di vivere è ciò che il
nostro cuore riesce a vedere e non ciò che vedono i nostri occhi”». Queste
parole pronunciate dalla protagonista di uno dei racconti riecheggiano i toni
del Piccolo principe di Antoine de
Saint Exupery. La brevitas espressiva
è un pregio di questa silloge che narra storie semplici, incentrate, però, su
grandi affetti. Ne emerge una saggezza universale, dai toni fiabeschi e
piacevoli sia per i bimbi che per gli adulti.» (Giovanni Fighera)
«Scrivere favole è difficile ai giorni nostri, ma in
queste ho trovato il gusto di una volta, questi animali che parlano e provano
sentimenti e sono capaci di emozioni che l'autore sa comunicare, senza mai
trascurare la morale finale.» (Niva Ragazzi)
III classificati ex aequo
Attilio Melone
con Riflessi di luce la sera (racconto della bassa)
Roberto Morpurgo
con Sette racconti brevi
Riflessi di luce la sera
(racconto della bassa)
A mia madre
Questa è una
storia come tante, di una donna come tante.
Vale la pena di
raccontarla?
Per me, sì.
Sì perché è una storia d’amicizia,
di coraggio, di volontà e, soprattutto, d’amore.
Sì perché non è niente
di speciale, ma riguarda momenti che non dobbiamo dimenticare.
Sì perché è importante
per me e gli argomenti delle mie storie me li scelgo io.
1 Parata trionfale
“No!”
Un no così secco e
deciso, Antonia l’aveva udito raramente dalla voce di suo padre, eppure non fu
sorpresa. Al contrario, si trattava proprio della parola che si aspettava e l’accolse
con una sorta di sollievo. Fu come se quel monosillabo avesse troncato la
tensione, il turbamento che era cresciuto in lei, trasformandosi sempre più in
voglia di piangere.
La lunga fila di giovani
uomini macilenti procedeva lungo la via principale del paese che, alberata a mo’
di viale fino alla sua casa, si perdeva più avanti in un viottolo fra i campi.
Lei, in prima fila, perché tutti quanti si erano scostati per cederle il posto,
li aveva seguiti con gli occhi attenti e le palpebre aggrottate.
Non
capiva.
Sapeva che erano dei
prigionieri di guerra, ma non capiva perché li conducessero in quel modo, come
una mandria d’animali. Ogni volta che i militari di scorta, male in arnese
anche loro, ma non privi di un certo sussiego, intimavano con un urlaccio il
silenzio a quelli che si azzardavano a bisbigliare qualche parola ad un
compagno, la sua piccola mano correva a rifugiarsi in quella del padre che le
rispondeva con una stretta rassicurante.
In silenzio.
Lei a bocca aperta. Lui
apparentemente impassibile. Tuttavia, quella mano, tanto veloce nel dare
risposta, le trasmetteva emozioni inconsuete che la tranquillizzavano e
turbavano insieme. Aveva osservato più volte papà di sotto in su e, in ogni
occasione, aveva scoperto qualcosa di nuovo, grave ed insolito: il suo volto
era teso, l’espressione grave ed uno scintillio sconosciuto brillava negli
occhi che, di solito, incontrava amorevoli.
Li ricordo bene anch’io quegli occhi, dietro i pesanti
occhiali: limpidi e tranquilli, spesso ridenti; ironici e benevoli anche nei
rari casi in cui avrebbero voluto essere severi. Sembravano chiedere scusa,
quando arrivava una punizione. Lo ricordo bene: cresceva dentro un gran
dispiacere e veniva voglia di gridare “Non lo faccio più.”
“Chi sono, papà?”
Aveva domandato
soltanto per udire la voce rassicurante e paziente, che non si stancava mai di
spiegare.
Le rispose, invece,
frettolosamente, uno sconosciuto che le stava vicino, quasi addosso,
sporgendosi per vedere meglio lo spettacolo dei poveri disgraziati sconfitti
che procedevano umiliati. Era piccolo, magro, macilento addirittura, tutto
agitato. Lo sguardo era strano, pauroso, per via delle pupille insolitamente
dilatate.
“Sono prigionieri. Li
portano a lavorare. Di fame e di fatica devono crepare! Così imparano ad
ammazzare i Nostri nelle trincee. ”
Morire?
Perché sarebbero dovuti
morire dei così bei giovanotti? Uno di loro le aveva appena sorriso. Almeno così
le era parso e lei, obbediente all’insegnamento che imponeva di essere gentile
con tutti, aveva risposto, beccandosi un’occhiataccia dal soldatino sgualcito
di scorta che, in quel momento, le passava accanto.
La mano di Antonia si
rifugiò ancor più in quella del padre che non le rispose più con una stretta
passeggera, ma con una presa ferma. Le faceva quasi male, eppure le piaceva.
Alzò gli occhi, con espressione di sfida, verso il suo sgarbato interlocutore e…
“Parla nen parej, Tünin.”
La vecchia Lena le
sorrideva con la bocca sdentata. Era compiaciuta. Tra la folla si levò, invece,
un mormorio beffardo. Lena era una socialista e una poco di buono con le sue
idee rivoluzionarie, anche sull’amore. Quei soldatini biondi, pur malconci,
forse suscitavano in lei desideri inconfessabili. (…)
Attilio Melone risiede a Savona. È ingegnere
Chimico. è stato dirigente industriale. Nella sua attività professionale si è
occupato, e tuttora s'interessa, di trasformazioni. La letteratura e l'arte in
genere sono le sue passioni di sempre. Una delle sue principali ambizioni
consiste nel collegare la ricerca artistica e quella scientifica. È convinto
che arte e scienza abbiano un'origine comune nello sforzo che l'essere umano,
spinto da ragioni che vanno dalla curiosità al timore, all'anelito verso il non
contingente, ha compiuto e compie per conoscere il Mondo. Ha pubblicato quattro
romanzi ed una raccolta di racconti ambientati in montagna, divenendo socio del
GISM. Il suo ultimo romanzo Ventunesimo
Secolo, spinge avanti al massimo grado il suo tentativo di combinazione fra
invenzione artistica, pensiero scientifico ed analisi della condizione umana.
Partecipa assai di rado a concorsi letterari, ma ha ottenuto buoni piazzamenti
e successi.
Giudizi
«Tre sequenze (dedicate a una madre) che fissano un
periodo storico preciso; rinnovando l’emblematico “valore” dei conflitti tra le
genti e dei ricordi tramandati da una generazione all’altra da chi contribuisce
a mantenere intatti, e puri, gli animi concreti.» (Frank Spada)
«“Storia d’amicizia, di coraggio, di volontà e,
soprattutto, d’amore” come scrive il narratore nell’introduzione, la vicenda
ripercorre tre tappe della vita di Antonia, dall’infanzia (“Parata trionfale”)
all’età adulta (“I cavalieri dell’Apocalisse”) fino alla vecchiaia (“Il cammino
nel buio”). Il racconto memoriale delle vicende belliche e dei legami affettivi
più significativi si dispiega in una narrazione mai scontata, che sa rievocare
nel lettore la vivacità di vicende ordinarie e, al contempo, straordinarie.» (Giovanni Fighera)
Sette racconti brevi
L’uomo, il libro
… superstiziosi, dato che era il
terzo direttore della Biblioteca Nazionale, dopo JM e PG, a essere colpito
dalla cecità.
Alberto Manguel
In un libro che non ho mai letto – e
che forse non fu mai scritto – non senza protervia un uomo, e non vorrei dire
il protagonista, si illude di non esistere.
In piedi dinanzi allo specchio che
ogni mattina – e ogni sera in cui deve cambiarla – lo soccorre nella goffa
incombenza di annodarsi la cravatta, matura la convinzione che, tutt’al più,
esista l’immagine di un uomo che invece non c’è – che non è lì davanti a lei
mentre lei è invece lì davanti a lui, e così via.
Quell’uomo sono io. Quel libro – Dio
solo sa se non sarebbe giunta l’ora di aprirlo! – quel libro è questo (il terrore di scoprire che le
sue pagine sono bianche; che sono cieche come forse io stesso sono o fui – è
quel terrore a impedirmi di aprirlo. Dovessi scoprire che possiede la stessa
virtù dello specchio di cui parla? Dovessi riconoscere che, al capolinea di
tutto, riposa una lapide che non sormonta alcuna fossa e si scavò una fossa che
non conterrà alcuna bara?).
È - questa che si limita a essere l’ultima
pagina di un libro mancante della prima - la mia vita e la mia estrema
concessione a quell’uomo (cosa io abbia propriamente fatto sin qui: non mi è
dato di arguire, ma meno ancora - e quanto più gravemente - di rammentare. E se
io ora mi includo nel novero di coloro che sono destinati a ignorarmi, è
solo per un’antica e ostinata deferenza nei riguardi della grammatica).
Vagamente ricordo qualcosa di
qualcuno, e che disse – subito dopo aver taciuto non so più cosa – no, non sono io. Non sono io la persona né l’uomo
che ricordi, e sei invece tu. Potrei forse aggiungere, e poi solo per non
sottrarre uno dei pochi dettagli, che sorseggiavamo tequila – o era Pernod? – e garantire infine (senza illudermi che
ciò possa arricchire di eventuali novità una cronaca scarna come lo scheletro
di un avvoltoio!) che non si trattò di una messinscena (né di alcunché di
nemmeno lontanamente combinato) e,
certo, non di un sogno.
(Dovessi scoprire che sinora fui
cieco a tutto salvo che alle lettere,
e che a causa di ciò soltanto non potei vederlo e nello stesso tempo essere io a vederlo o non vederlo – come mi potrei presentare più al cospetto del
Direttore della Biblioteca? Con quale dignità, con quale certezza che il nodo
della mia cravatta non fu solo un’illusione tattile di due polpastrelli forse nemmeno miei?).
Si può scrivere sul fango o anche
sull’acqua, e persino figurarsi di aver scritto sull’aria con tale forza di convincimento da incidervi parole più durevoli di
ogni graffito (sebbene non sia certo il caso di confessarlo, specie se si è
avvezzi a scrivere, per esempio, su fogli di carta). Tutti, poi, io credo,
abitano, al più, nell’aria, e non sopra di lei, come dovrebbero, invece,
affinché su di essa fosse loro accordato: scrivete!
Ebbene: io non so dove né su quale
materia – e con ciò proprio non vorrei passare per uno di quei ciarlatani che giurano guarda caso proprio su un dubbio!
– ma so di averlo scritto (scritto e poi dimenticato, scritto e mai più riletto…
sino a oggi?), o forse – e con ciò proprio non vorrei passare per uno di quei
ciarlatani che indulgono nel vezzo delle
domande camuffate da asserzioni! – forse solo colpevolmente copiato.
A mia discolpa annoterò che, se mai
questo fosse avvenuto, non sarei l’unico a non esistere (sarei forse invece
proprio io, l’unico a non esistere!?), e anzi: potrei addirittura figurare fra i
pochissimi che sottrassero un quarto d’ora al vostro preziosissimo tempo. Ma - è
e sia chiaro - al solo scopo di
restituirvelo. Sapessi – Dio solo sa se pur di saperlo non sarei disposto a
rinunciare a tutto il resto! – a chi ho restituito foss’anche una sola di
quelle pagine! – una fra le tante che non potei leggere… - e Dio solo sa se non
sarebbe giunta l’ora di degnarla di uno sguardo…
La verità è che avrei voluto
confessare qualcosa, e nemmeno mi riuscì di mentire. La verità: ben strano modo
di presentare l’ultima e con ciò la più
labile delle congetture! Verosimile
diremo dunque: a) che quel libro sia
stato scritto, sebbene b) io – e io
soltanto – mai abbia potuto (né possa ora) leggerlo, infine c) che quel che
io leggo e anzi da sempre vengo leggendo
non mi offra altro svago né altro
insegnamento mi impartisca se non l’irrefutabile
prova dell’impossibilità che altri abbia
mai scritto quel che io
immaginerei di aver letto. E’ questa, la mia maledizione. (Perché poi indicarlo
ad altri, quando per ultimi lo si è notato? A chi altri potremmo farlo notare, noi?).
È dunque giunta l’ora di aprirlo.
Non posso escludere infatti che proprio oggi un mio eventuale atto di coraggio
verrebbe premiato con la restituzione… la stessa restituzione che così…
incautamente credo di aver promesso. Aprirlo! A rischio e anzi a costo di scoprire che è - vuoto? (Il fatto che non sia mai stato scritto - fatto che ovviamente
nessuno potrebbe mai dimostrare: perché potrebbe sempre capitare a lui e non altri che a lui di scriverlo - per poi subito
cancellarlo, dimenticarlo – sarebbe
per giunta assai meno grave – quel tale fatto… - di quanto sinora ai miei
stessi occhi io lasciai forse passare inosservato (ed ecco dunque che qualcosa
ho pur confessato!).
Per completezza (in fondo non fui
mai altro che un archivista), nonché per amore di una cronaca che, se pur non
mi diede da sognare come le antichissime cronache di baratti, esequie,
sposalizi… il libro che mi dolgo di non aver letto, non potrei allora essere
io, ad averlo scritto? C’è qualcuno fra lor signori in grado di dirmi se si
possa immaginare un cruccio più tormentoso di questo, che a me sembra mio e soltanto mio, ma che mi ha
indebitamente sottratto alla nostra consueta e comune occupazione?).
Roberto Morpurgo è nato a Milano nel 1959. Risiede a
Bulgarograsso (CO) www.eldjablo.it. Laureato in filosofia, scrive poesie,
aforismi, saggi, racconti, soggetti cinematografici, pièces teatrali. Ha pubblicato in volume L’azzurro del mare (poesie, Joker), Pregiudizi della libertà I (aforismi, Joker), El Djablo (racconti, Puntoacapo, 2009). Ha diretto per la scena i
suoi atti unici Tubor e L’Autoritratto. Per Schegge d’Autore (RM) e per
La corte della Formica (NA) ha curato nel 2008 la messinscena e la regia
del suo monologo L’Isola; sempre al
teatro Tordinona di Roma ha poi allestito e diretto le sue pièces Bogey (2009), L’Appello (2010), Pioggerellina nella stanza (2011).
Giudizi
«A volte al giurato vengono a mancare le parole che invece, in questo caso, sgorgano senza timore dalla penna innovativa, senza risultare prolissa, dell’autore. Le sette piccole opere si distendono e si riallacciano in una sequenza di nastri di Möbius forgiati di parole; genesi e termine perdono di importanza, a favore di una visione totale del significato di ognuna delle storie. Intendiamoci, non una scrittura per tutti i palati, ma a mio avviso meritevole di lode.» (Francesco Jonus)
«Forza e consapevolezza declinati in una modalità di
racconto che esige – data la sua stessa composizione – un serrato confronto
interno da parte di chi scrive. Ancora prima di scrivere. Alla ricerca delle
parole assolutamente giuste. Alla
ricerca di una sintesi che non mortifichi le parole, ma che le esalti dando
loro senso e responsabilità.» (Stefano Martello)
Segnalati con pubblicazione di estratti in questo blog
Lorenzo Piscopiello con Trittico degli ignoti
FULMINE
Un fulmine.
Uno, due, tre…
Il bagliore illumina un ambiente
claustrofobico attorno a me: visione fugace di lastre di metallo imbullonate,
grigio ossidato che mi inghiotte tornando nel buio.
Cinque, sei, set… il tuono.
Boato nella notte, finestra che si
apre sul grido di troppe anime incatenate.
Riecheggia dentro la mia gabbia
celata nelle tenebre.
Il temporale si sta avvicinando!
Torna il silenzio, pesante sudario a
coprire le mie spoglie.
Non devo fermarmi, non posso. Le braccia
mi fanno male, ma ne mancano solo (dieci)
dieci.
Poi riposerò. (nove) Sento per un attimo il pavimento brulicante di insetti
troppo vicino alla bocca, percepisco la frenetica vita a otto zampe che si
svolge sul fango sotto di me. Un ottimo motivo per rialzarsi. (otto) Una scarica di dolore mi contrae
il trapezio. Forse dovrei smettere per oggi, forse queste flessioni mi stanno
ammazzando più velocemente dei miei carcerieri. (sette) Ma so che è l’unica cosa che mi è rimasta: scolpire il mio
corpo, renderlo ferro sotto il mio controllo (sei) così da potermi permettere la fuga. È freddo, dannatamente
freddo, e le fibre muscolari della schiena mi urlano di fermarmi: forse un bel
crampo mi immobilizzerà entro breve a terra, con la testa affondata in quella putrida
melma; forse affogherò in questa cella (c-cinque),
ma ormai ho quasi finito. Il fango mi è arrivato quasi a metà avambraccio; i
ragni, più invadenti, quasi alle spalle, ma se mi fermo per cacciarli non avrò
più la forza di riprendere. (quattro)
Signore e signori, ecco il nuovo gioco da non perdere: devi farti quattro
flessioni prima che quelle zampacce pelose ti si infilino in bocca e nelle
orecchie! (t-tre) Dai, ce la puoi
fare, il papà e la mamma ti stanno guardando da casa, non puoi (d-d-due) deluderli, non anche questa volta. Ecco il
primo ragno che ti accarezza la base del collo, potresti scattare e morderlo,
ma forse lui sarebbe più veloce: hai bisogno delle mani quindi fatti queste
ultime (UNO) flessioni e manda
affanculo tutte quelle zampacce. Un applauso, signore e signori! Sento
qualcosa solleticarmi l’orecchio, sempre più insistentemente. Mi chiedo se
questi esploratori gonfi di veleno mi vedano attraverso queste tenebre (ZE..) e mi chiedo se, almeno un
pochino, possa piacergli l’idea di terrorizzarmi (…RO!). Finite! Mi lascio cadere su un fianco e, molto prima di
toccare la molle terra, il ragno che indiscretamente mi saliva addosso è una
poltiglia appiccicosa sotto la mia mano.
Un fulmine ramifica nelle tenebre il
proprio dolore. Siamo fratelli?
Striature cromatiche colorano
debolmente le scie di idrocarburi che colano dal soffitto. Poi tutto svanisce
nuovamente nel nero. Uno, due…
Mi alzo in piedi e vado al mio
angolo. Non so perché, ma li i ragni non ci vanno.
Il tuono. Quattro secondi: tra un po’
la tormenta sarà sopra di me!
Chiudo gli occhi, spossato dalla
stanchezza, dal terrore. Vorrei dormire ma oggi sono arrivati addirittura tre
camion, li ho visti dalla finestra: oggi verranno a trovarmi. Devo stare
sveglio, devo stare pronto.
dodici per
quattro quarantotto
Distendo i muscoli indolenziti delle
braccia, sento il cuore martellarmi nelle orecchie e le tempie scalciare:
dovrebbero esplodermi se solo provassi a muovermi.
diciassette per
otto centotrentasei
Non posso dormire, non potrei ribellarmi.
Apro le mani, scoprendo che il gelo del fango le ha fatte diventare
insensibili. Schegge di ghiaccio tra le gambe, ma in qualche modo le devo
scaldare.
ventisette per
sedici quattrocentotrentadue
Sono in questa gabbia da una vita.
Ricordo bene il giorno in cui venni catturato.
Fa male pensare a quei giorni
felici, ma è più facile restare svegli, così.
Ero in vacanza con la mia ragazza in
Cina, a Tientsin.
Feci l’errore di perderla di vista
per un attimo. La rapirono e a nulla servì denunciare l’accaduto: la polizia
era dei loro, chiunque fossero ‘loro’. Insistetti troppo con quei bastardi,
volevo che aprissero un’indagine, che facessero qualsiasi cosa invece di
starsene dietro le loro schifose scrivanie a masturbarsi con la loro
corruzione.
Finii qua dentro.
E ormai sono passati quasi sei mesi.
So che tra un po’ finirà, perché la carne è veloce a decomporsi per quanto la
si tenga al freddo.
Povera, piccola Jane (tiamomidispiace).
Dove sono finiti tutti i nostri
sogni? Il nostro Mattia-Sarah? La nostra vita assieme?
Affogati nel feretro di queste celle
immonde.
Il primo giorno che arrivai qua mi
lacerai le corde vocali per chiamarla, per imprecare contro tutti i crudeli dei
che avevano permesso questa orrenda tortura.
Ero perso. Perché lei non era più al
mio fianco, perché sapevo che non l’avrei più rivista. Dio, come mordeva il
cuore!
Ci misi due giorni a dare un senso a
quei fastidiosi colpi provenienti dalle tubature sul soffitto. Accadde una
mattina in cui un generoso sole mi faceva torcere le budella nel rimorso del
prigioniero.
Quell’incessante battere: era lei,
la mia Jane, che continuava a battere nell’oscurità il suo nome in Morse. Per me.
Mi tolsi la cinta per risponderle,
ma le lacrime mi impedivano di vedere i tubi. Ero felice, felice di sapere che
era ancora viva. Che non ero solo.
Ci parlammo per ore, per giorni. Le
tenebre mi aiutavano ad immaginarla a pochi passi da me, seduti assieme lungo
le rive di un mare calmo, ed ogni volta il sole tornava per ricacciarmi in
quella umida cella infestata da ragni.
Impazzii, coscientemente. Un po’
alla volta.
Dai tubi lei mi consigliò di fare
esercizi, di tenere la mente occupata coi conti.
Jane, amore, non ho mai smesso da
allora.
Avrei voglia di sentirla anche ora,
ma so che lei di notte riesce a dormire, e allora non la sveglierò in questo
abisso di dolore.
Dio, Jane, janejanejanejane…
Fa troppo male continuare a
ricordare.
cinquantasei
per nove cinquecentoquattro
sessantatre per
venticinque millecinquecentosettantacinque
nove per
quattordici centoventisei
Un altro fulmine ad illuminare
impietoso la mia tomba. Uno, due, tr…
La porta si apre nelle tenebre
proprio quando la luce della folgore illumina la mia disperazione. Che tempismo
perfetto!
Il tuono. La tempesta è qui vicino.
Tra un po’ sarà sulle nostre teste.
Mi lancio con tutte le forze contro
le veloci ombre dei miei carcerieri, ma la mia unica gamba vacilla e piombo
nella melma, impotente e sconfitto.
Lacrime che sgorgano dalla mia
anima, braccia che mi raccolgono violentemente da terra, una gola che vorrebbe
urlare, un ago che penetra le carni, una coscienza che s’annebbia.
Mi sveglio di soprassalto, madido di
sudore. Le lenzuola mi avvinghiano nella loro morsa di cotone colorato. Una mano
sulla spalla, una mano piccola e calda.
Jane!
Mi volto verso di te. Sono
terrorizzato ma non ricordo il perché.
non
ricordare!
Sei qui di fianco a me, indefinita
nel chiarore lunare che entra blu dalla finestra.
Sono felice, non sei… non sei…
non
ricordare, non ricordare!
“Che ti succede, amore?”
La tua voce brilla nella nostra
stanza matrimoniale, rompendo il mio terribile disagio.
“Devo aver fatto un incubo…”, ti
rispondo indeciso.
Il tuo braccio mi cinge, torno a
sdraiarmi felice e sento il cuore rallentare le sue spinte convulse; chiudo gli
occhi godendo delle tue carezze.
“Che stavi sognando, amore?”
nonricordarenonricordarenonricordare!
La mia mente cerca dal caldo buio del
nostro letto un appiglio all’incubo di poco fa.
Le tue sottili dita mi accarezzano
le spalle
nonricordarenonricordareiragninonricordare!
la base del collo
Nonricordare iragni nonricordare iragni!
solleticandomi poi l’orecchio come
Non
ricordare! I ragni! I ragni!
tanti ragni indiscreti.
I ragni! La cella! I ragni lacella! Non
ricordarenonricordare!
Mi giro verso di te e sgrano gli
occhi nel vederti tagliata a pezzi di fianco a me e spalanco la bocca nel vedere
i tuoi occhi guardarmi piangendo dalla testa recisa.
Poi la tua voce, bassa, gracchiante,
disumana: ‘Centoundici per sei?”
Grido, grido ancora e dopo un
eternità placo la mia gola maledetta.
Ad accogliermi ci sono ora buio,
ragni e gelido fango: la realtà.
Non devo più dormire, non voglio.
Ricordo che mi hanno preso… Dio,
cosa avranno preso questa volta?
Libero la mano destra, la
sguinzaglio a caccia sul mio corpo.
La pioggia comincia a battere la sua
danza sulle lamiere che mi circondano nel nulla.
Sento il moncherino della gamba
mancante… l’altra c’è ancora… invece il mio pene è stato il primo ad andarsene.
Salgo con la mano attraverso l’oscurità e sento le cicatrici sull’addome: una,
due… Due, sono ancora due! La mano corre al petto, al collo, alla spalla sin…
Dio, no! (non devo impazzire) Mi
balza subito in testa un pensiero oscenamente fuori luogo: come farò ora le mie
flessioni? I tamburi della tempesta percuotono di mille gocce il mio terrore. La mano esplora il nulla oltre il mio
pettorale sinistro: il braccio, mi hanno tolto il braccio sinistro! Carnefici! Dannati carnefici maledetti!
“Cosa cazzo ci fate col mio corpo?”,
grido alle tenebre. “A chi lo date?”
Rispondono all’unisono la pioggia e
il tuono e il vento e il fulmine, sferzando il mio mondo di ombre ghignanti. La
tempesta è qui fuori!
È qui dentro!
Prendo la cinta e la percuoto contro
le tubature: ho bisogno del conforto di Jane! Ho bisogno delle sue parole da
decifrare. Batto il mio richiamo di dolore.
Niente!
Batto ancora, con maggior forza.
Aspetto.
Le umide tenebre tornano a bruciare
di folgoranti grida.
(non devo impazzire)
Il tubo rimane silenzioso.
Dio, fa che Jane non sia morta…
Cieli scuri riversano su di me la
loro rombante ira.
Di solito avrebbe già risposto!
Batto ancora!
quarantotto per
cinque duecentoquaranta
(non devo impazzire)
…fa che stia ancora dormendo…
Il fulmine e il tuono riempiono la
cella di una fredda luce urlante.
“Jane!” e la mia cinta batte sulle
tubature.
cinquantasette
per tre centosessantadue
(non devo impazzire)
…non possono averla toccata…
“Jaaaneee” e la mia cinta batte
sulle tubature. Un fulmine…
sette per otto
sedici
…è riuscita a scappare e ora arriva
con le lenzuola…
(non devo impazzire)
(non devo impazzire)
“JAAANEEE” e la mia cinta cade nel
fango. Il tuono.
due per sette
trecento
…e faremo l’amore al parco…
diciottoperquarantaduesettequattro
…e avremo Mattia-Sarah…
setteperunounodue
dieciperottozero
quttrropersettenoddicidiedici
Un fulmine…
…uno…due…
Sono nato a Pesaro nel 1975. Attualmente divido la mia
vita tra famiglia (una moglie e due figli), lavoro (architetto) e una serie di
attività amatoriali che spaziano dalla musica alla scrittura, dal fumetto al teatro e altro ancora. Non sarebbe
male se le passioni diventassero prima o poi il vero lavoro: forse un giorno,
su Marte…
Giudizi
«Tre prove a occhi aperti di un autore immaginoso attorno al tema dell’incubo reale, unite agli sguardi rivolti a curiosare il promettente mondo della giallastra crudezza sperimentale.» (Frank Spada)
«Il genere horror nelle sue varie declinazioni spesso ottiene risultati che rasentano il ridicolo, ma in questi racconti ho trovato spunti affascinanti - le filastrocche dei bambini che sottintendono un mondo malato ed invisibile - e reminescenze di Lovecraft: il racconto degli Scarlatti è emblematico in questo senso. Piacevoli da leggere, sono capaci di incuriosire fino alla conclusione.» (Niva Ragazzi)
Andrea Masotti con Il profilo giusto
Alejandro di Lady Gaga si risvegliò per la seconda volta nella sala operatoria annunciando un messaggio. La suoneria proveniva dal cellulare infilato nel camice verde smeraldo della professoressa Di Rovo, ancora protesa sul corpicino della bambina addormentata.
La direttrice, che aveva ormai terminato di trattare le profonde abrasioni, fece un passo all’indietro, lasciò cadere pinzette e guanti nell’arcella, e si allontanò senza salutare.
Nel lucore azzurro della sala la seguirono con lo sguardo, poi tornarono a fissare la faccia che si era ricomposta sotto di loro: benché conoscessero la direttrice da anni erano tuttavia stupiti.
Da quello che poco prima era un volto deturpato per i morsi di un rottweiler, riemergeva adesso un profilo dolce di ragazzina.
Il personale attorno al tavolo operatorio proseguì le fasi conclusive, controllando i parametri vitali.
- Se non ci sei alla pizza di stasera ti riduco come lei – rise il dottor Serio spingendo la ferrista che lo affiancava.
A intervento ultimato era tornato il buonumore. Sotto i lembi delle ferite, miracolosamente rettilineizzati con il laser, i vuoti erano stati colmati da collageno e cellule adipose prelevate dal gluteo. Quindi tasselli di cute avevano ricoperto l’area ricostruita. Infine un unico punto sottocute aveva completato quell’opera d’arte insinuandosi con una serpentina sotto la linea dell’innesto. L’artista aveva poi gettato sdegnosamente i pennelli e, con la mascherina e il berrettino verde che ancora la ricoprivano, era uscita.
La ferrista, fino allora silenziosa, respinse con il sandalo il piede di Serio che continuava a provocare:
- A cena con i tuoi amici non ci torno, lo sai – rispose mentre spegneva l’elettrobisturi.
Intanto gli infermieri presero i teli verdi che incorniciavano quel visetto, ora brunito dal disinfettante, li spinsero in un bidone all’angolo e trasbordarono la bambina su un letto con il carrello.
Fuori dal blocco operatorio la madre di Francesca, un’impiegata trentatreenne in tuta da ginnastica, attendeva.
Era agitatissima e qualche lacrima trascinava un rivolo di rimmel lungo le guance.
Appena l’infermiere spinse il lettino fuori dal blocco
operatorio, si precipitò a chiedere:
- È tornata Francesca mia? Ditemi, professore - Serio, che era sulla porta, si abbassò la mascherina:
- Signora, rivedrà sua figlia come la ricordava. Tra pochi giorni potremo togliere i bendaggi e in seguito spariranno anche i segni dell’intervento. Uno non dovrebbe invitare dei bambini a casa e lasciare scorazzare libero un cane così pericoloso. Le sono vicino.
- Sembra un brutto sogno, professore.
- Sì, ma tra qualche mese dimenticherà tutto, è capitata in buone mani. Grazie al cielo abbiamo trovato lei. Eravamo da mio suocero, il cane era sempre stato affettuoso…
- Non ci pensi più, signora. Certo le lesioni erano gravi. Abbiamo rimosso dei lembi e proceduto a una plastica ricostruttiva.
- Mi hanno parlato di lei – la madre si avvicinò ancor di più a Serio e lo abbracciò piangendo – grazie professore. Le sarò sempre grata.
- Signora Ventola – era suor Venanzia, l’anziana caposala, che proveniva dal reparto degenti, – Ringrazi anche la professoressa Di Rovo, il suo studio è in fondo a quel corridoio.
- È tornata Francesca mia? Ditemi, professore - Serio, che era sulla porta, si abbassò la mascherina:
- Signora, rivedrà sua figlia come la ricordava. Tra pochi giorni potremo togliere i bendaggi e in seguito spariranno anche i segni dell’intervento. Uno non dovrebbe invitare dei bambini a casa e lasciare scorazzare libero un cane così pericoloso. Le sono vicino.
- Sembra un brutto sogno, professore.
- Sì, ma tra qualche mese dimenticherà tutto, è capitata in buone mani. Grazie al cielo abbiamo trovato lei. Eravamo da mio suocero, il cane era sempre stato affettuoso…
- Non ci pensi più, signora. Certo le lesioni erano gravi. Abbiamo rimosso dei lembi e proceduto a una plastica ricostruttiva.
- Mi hanno parlato di lei – la madre si avvicinò ancor di più a Serio e lo abbracciò piangendo – grazie professore. Le sarò sempre grata.
- Signora Ventola – era suor Venanzia, l’anziana caposala, che proveniva dal reparto degenti, – Ringrazi anche la professoressa Di Rovo, il suo studio è in fondo a quel corridoio.
È lei che ha operato sua figlia.
Stava già lasciando l’ospedale. Non doveva neanche stimbrare il badge, l’incarico universitario permetteva a Giuseppina Di Rovo una limitata libertà che non le bastava più.
Proseguì a passo spedito sulle piastrelle sconnesse del corridoio e controllò i messaggi sms delle ultime ore.
La prima chiamata di Antonello era delle undici e undici. Un’ora e mezzo prima. “Deve essere infuriato”, pensò. Si era stretta nella giacca di cuoio nera con la vita mozzafiato, a cerniera chiusa. I capelli castano scuro, vaporosi e scriminati a metà, l’andatura spumeggiante tornita dal fitness, il profilo nitido e affilato e la mobilità fiera degli occhi color mare le bloccavano il numero vita sul trenta-cinquanta. L’età rimpallava come una biglia di flipper.
”Antonello. Antonello ha le vene che risaltano sulle mani e gliele inquadrano sempre.
Stava già lasciando l’ospedale. Non doveva neanche stimbrare il badge, l’incarico universitario permetteva a Giuseppina Di Rovo una limitata libertà che non le bastava più.
Proseguì a passo spedito sulle piastrelle sconnesse del corridoio e controllò i messaggi sms delle ultime ore.
La prima chiamata di Antonello era delle undici e undici. Un’ora e mezzo prima. “Deve essere infuriato”, pensò. Si era stretta nella giacca di cuoio nera con la vita mozzafiato, a cerniera chiusa. I capelli castano scuro, vaporosi e scriminati a metà, l’andatura spumeggiante tornita dal fitness, il profilo nitido e affilato e la mobilità fiera degli occhi color mare le bloccavano il numero vita sul trenta-cinquanta. L’età rimpallava come una biglia di flipper.
”Antonello. Antonello ha le vene che risaltano sulle mani e gliele inquadrano sempre.
Se ne è accorto adesso? Cosa ci fa con le mani sul
tavolo, perché arrotola la camicia sull’avambraccio? L’avambraccio poi è
grassottello... Ma oggi c’è la sessione degli esami!
Dopo telefono a Serio che si presenti lui, tanto può
firmare. Povera bambina, lasciata sola con l’assassino delle favole.” Presa dai
suoi pensieri passò davanti alla portineria senza salutare, ormai nessuno ci
faceva caso.
I portieri non ci badavano più. Era un alieno. “La Di Rovo? Non so quando la trova.”
I portieri non ci badavano più. Era un alieno. “La Di Rovo? Non so quando la trova.”
“ E' impegnata. Telefoni al suo interno, le lascio il
numero. Non risponde? Riprovi.”
“Chi è? La direttrice della Chirurgia plastica: certo,
è lei. Quella di Cinecittà, sì.”
“È sempre qui, ci mancherebbe, ma è in consulenza in
un altro reparto.” (…)
Andrea Masotti, nato nel 1953, scrive già dall’infanzia. Medico, ha ripreso in questi ultimi anni l’attività letteraria ottenendo vari riconoscimenti in narrativa e poesia. Nella narrativa è stato premiato dai concorsi Silarus, Leggimontagna Racconti nella Rete, Il Molinello, Lilly Brogi la Pergola Arte di Firenze. Rientra tra gli autori di Twitteratura pubblicati dalla rubrica culturale del «Sole 24ore». Dal 2009 ha pubblicato numerosi racconti e poesie con Perrone, Pomezia-Notizie, Flanerì. Nel 2010 ha pubblicato la silloge Sotto un cielo troppo azzurro e il romanzo Intrigo sulla Moskova. Nel dicembre 2011 è inserito nel volume di poesia Nun si cuntanu i ciri nta l’artari CFR editore.
Giudizio
«Il profilo giusto. Quello che annulla le imperfezioni, perché a nasconderle c’è sempre qualche bastardo che ci prova a spostarsi e tu potresti essere concentrato a scaricare la suoneria nuova. Il profilo giusto. Quello che suscita il gridolino. Quello che convince tutti. E nessuno. Il profilo giusto. Buono per la telecamera. Gratificante per la pubblicità.» (Stefano Martello)
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