ariticolo di Caterina Camporesi pubblicato in Fili d'Aquilone n. 24, ottobre-dicembre 2011
Il dolore è la radice della conoscenza
(Simone Weil)
Depressi di tutto il mondo unitevi
(Aldo Bonomi)
Crisi, termine abusato, che nel tempo sembra avere perso il suo valore più pregnante ed intrigante, vale a dire, quello di una radicale messa in discussione di uno stato di equilibrio che non possiede più i requisiti per continuare. Alla presa d’atto dell’esistenza di uno stato di crisi, di solito, segue una prima fase il cui compito si limita ad illuminare ombre e crepe nascoste nella profondità della soggettività dei singoli, delle organizzazioni sociali e dell’umanità nel suo complesso. Quindi, la successiva riguarda la programmazione di azioni concrete che, inevitabilmente, comportano lacerazioni, rotture e sovvertimenti più o meno confacenti. Fronteggiare la crisi comporta, in ogni caso, la rottura di una continuità, alla quale seguono tempi più o meno lunghi di discontinuità, caratterizzati da depressione, ansia, angoscia, vuoto, insicurezza, e da timori di disintegrazione ma soprattutto di perdita. Nel vuoto o pieno che si spalanca, si possono trovare parti inattive e silenziose che, se rimesse in moto, da sole, o unite in modo creativo al resto della personalità, possono sollecitare percezioni nuove nei confronti di se stessi e del mondo. La tendenza alla resistenza, tuttavia, cristallizza ciò che a fatica si è conquistato e scoraggia il cammino verso il cambiamento, con il mantenere legami e con l’immobilizzare il tempo del divenire, il solo che, accogliendo angosce, separazioni, lutti e dolore può introdurre nella storia trasformazioni di un qualche peso.
Parole, come rottura, vuoto, regressione, confusione, trasformazione, risuonano nell’immaginario come minaccia e rievocano nell’animo esperienze dolorose, sentimenti di perdita e di disgregazione, se non addirittura di morte. Vivere una crisi, che consenta possibilità di rinascite e prefiguri altri orizzonti e altri equilibri, include la possibilità di incontrare lungo il cammino l’esperienza del dolore e persino della morte. Per progredire è necessario prima regredire, cioè tornare ad uno stato primitivo indiscriminato, il quale contiene “nuclei non nati”, come li chiama in modo suggestivo lo psicoanalista José Bleger, il cui pensiero sarà ripreso più avanti. Queste parti primitive, che non sono confluite né nell’io del singolo e né nel noi del sociale, non hanno beneficiato del tempo dell’esperienza e quindi non si sonno sviluppate. Sono parti inerti e rigide, prive di pensiero, di voce, di progetto e di azione.
José Bleger, lo psicoanalista argentino a cui si è accennato sopra, vissuto nella seconda metà del secolo scorso nel fervido clima culturale di Buenos Aires, ha identificato nel territorio psichico la presenza di uno stadio primitivo che ha chiamato sincretismo primitivo esistenziale, costituito da parti che, bloccate, non beneficiano del tempo evolutivo, ma possono uscire dalla loro immobilità e unirsi al divenire della storia nei suoi vari ambiti solo nei momenti di crisi, quando tutto viene radicalmente discusso, rimescolato e movimentato.
La loro presenza può essere rintracciata tra le pieghe del corpo o sullo sfondo muto dei Gruppi, delle Istituzioni, delle Idee e dei Valori, dove restano inchiodati alla loro inerzia perenne. L’essere fuori dal tempo li esclude dalle dinamiche che incarnano la crescita, che comporta tollerare il pensiero, l’ambivalenza, la scelta, il senso di colpa, i conflitti e altro ancora.
La possibilità di tornare al passato arcaico, per partorire queste parti, mobilita l’insorgere di angosce profonde e dolorose. Solamente entità sufficientemente forti possono tollerarne il disorientamento ed il caos, che accompagnano il lento e laborioso lavoro di accoglimento, di integrazione e di elaborazione.
L’integrazione di queste parti porta cambiamenti sia nel mondo interno, che in quello esterno come pure nei legami che intercorrono tra tutte le realtà coinvolte: singoli soggetti, gruppi, istituzioni e l’umanità nel suo complesso.
La crisi, vista da questa angolazione, assume una connotazione positiva, sia per l’opportunità che essa offre per rimuovere organizzazioni e modalità non più funzionali, sia per fare entrare in campo nuove forze e competenze più capaci di affrontare nuove realtà. La crisi entra così nel corso della storia, come uno dei tanti eventi che ne segnano il divenire, con l’offerta di opportunità di scelta, con il tralasciare abitudini obsolete, allargando orizzonti, aprendo sentieri ancora inesplorati su molti fronti. La concezione che l’Io nasce da un nucleo primitivo indifferenziato, e che solo progressivamente si individua e si sviluppa nel tempo, lasciando comunque sempre un residuo al quale potere ancora attingere in momenti di crisi, è condivisa anche dal poeta tedesco Durs Grünbein, come racconta in un’intervista condotta da Italo Testa. Il poeta è particolarmente attento alla memoria storica e ritiene che quanto più l’uomo si sviluppa, tanto più si deve “ulteriormente sviluppare dall’antica pellicola dell’umanità”. Ciò riguarda anche lo sviluppo e la crescita delle organizzazioni sociali e dell’umanità in generale. Lo stesso Grünbein, poi, continua con l’affermare che “il passato riceve senso solo nella misura in cui continua in me, finché gente come me trasporta, come Caronte, parti del passato con il suo traghetto”.
La Recherche di Marcel Proust, secondo questa visione, è la testimonianza scritta di un “io quanto mai inclusivo”.
La contemporaneità, per i mutamenti che sono avvenuti nelle categorie di spazio e tempo, danno l’illusione all’uomo di oggi di vivere in un eterno presente, disconoscendo l’importanza del passato e la prospettiva del futuro.
Due sono le riflessioni che aiutano a comprendere i cambiamenti e le contraddizioni, che la contemporaneità nella sua crisi di portata epocale, mette di fronte al singolo e alla collettività che vive agli inizi del terzo millennio. La prima riguarda la frattura, che negli anni si è sempre più consolidata, fra passato e presente; la seconda si riferisce ai cambiamenti che sono intervenuti nella relazione tra l’Io e Noi.
La competitività, cresciuta in modo smisurato, complice anche il dileguarsi dell’ autorevolezza del superio, ha trasformato gli spazi sociali, riservati allo scambio affettivo, in luoghi dove l’interesse è il vincolo supremo della relazione.
Sono venute così a mancare occasioni, dove l’Io possa essere anche un Noi e il Noi essere anche un Io nel processo di assunzione e di metabolizzazione di stati d’animo legati alla fragilità.
Inoltre, la profondità della crisi culturale ha messo in scacco anche la possibilità di affidarsi ad un io unitario ed indivisibile per la conoscenza di un mondo che non possiede più unità ed oggettività. La conseguenza della mancanza di unitarietà soggettiva e oggettiva ha portato l’uomo di oggi a disinvestire progressivamente anche la sfera metafisica, trascendente ed etica.
A questo punto, l’io di oggi si trova di fronte ad un compito quasi impossibile nell’affrontare una mutazione antropologica, che si presenta così sfaccettata e priva di riferimenti all’assoluto e senza luoghi sociali per riflettere ed orientarsi verso progetti ed azioni compatibili.
Si ha, invece, di fronte una umanità spaesata, dove la comune debolezza, anziché portare all’incontro per governarla, porta allo scontro, o ancora peggio, ad un ritiro solipsistico.
Non si può, tuttavia, negare che il relativismo non abbia reso l’esperienza del vivere più libera e ricca di opportunità, ma è davvero realistico per un io, isolato in un deserto relazionale, conquistare consapevolezza critica e sfuggire alle sirene che in modalità più o meno occulte orientano progettualità e scelte?
La creazione, allora, di luoghi sociali dove sia incoraggiato l’esercizio sia del pensare insieme, che quello di pensarsi insieme, è un efficace antidoto al non lasciarsi pensare da altri.
Le riflessioni e gli interrogativi sin qui emersi e dibattuti sono in sintonia con i contenuti e con il titolo, Elogio della depressione, che il sociologo Aldo Bonomi e lo psichiatra Eugenio Borgna hanno dato al volume appena pubblicato da Einaudi.
I due autori, separatamente e in dialogo tra loro, evidenziano come la relazione fra l’Io e il Noi si sia tragicamente inaridita da quando sono venuti a mancare gli slanci comunitari degli anni ’60 e ’70.
Fragilità e debolezza assunte e condivise possono essere il punto da cui ripartire per unire le persone nel progetto comune di capire e approfondire le tematiche pertinenti alla cornice e all’umanità che essa contiene.
Solo nell’immersione totale delle proprie emozioni individuali e collettive è possibile slegare l’energia per costruire una singolarità e una umanità più compiuta.
Certamente l’esperienza del cambiamento comporta, come già accennato, il vissuto di spaesamento in un caos primordiale ma, solo scavando in quel caos è possibile scovare le entità e le risorse da traghettare alla superficie per amalgamarle con quelle già a suo tempo acquisite.
Allora, la metafora “depressi di tutto il mondo unitevi”, è anche la metafora per parlare di una condizione esistenziale diffusa, un modo per ritornare al Noi per costruire nuovi legami fra il soggetto e il mondo, costretto confrontarsi con le tante contraddizioni della globalizzazione, nella quale tutti siamo immersi.
Tutto per cercare sentieri o magari costruirli per coniugare il dolore e la depressione dell’io singolo con quella del Noi.
Come afferma Borgna, poi, “depressi di tutto il mondo unitevi” è una metafora che ricompone i saperi in quanto va a “intrecciarsi in un contesto sociologico e filosofico con quello psico(patologico) e fenomenologico e l’uno e l’altro si dilatano nei loro significati e si chiariscono”.
Nessun commento:
Posta un commento