giovedì 2 settembre 2010

Il respiro della madre

di Subhaga Gaetano Failla

Cos’è quella porta laggiù?
(Hélène Cixous)

   Le scarpe sono molto importanti.
   C’è una grande casa sulla destra. Due rampe di scale si incontrano all’esterno, sembrano enormi  serpenti arrampicati sul muro, con le bocche unite. Nella casa vivono delle persone, forse hanno i corpi trasparenti e il loro fiato non appanna gli specchi.
   Guardo la strada grigia e il respiro si fa presto affannoso.
   Mia madre nella fotografia è un’adolescente sulle rive del Tirreno. I volti di bambini e bambine,  di altri adolescenti, d’un uomo e una donna ancora giovani, sorridono dalla lontananza  degli anni Quaranta, al limitare della ghiaia bagnata dal mare mosso.
   Le gambe si irrigidiscono nello sforzo della salita, mia madre canta a bassa voce con accento napoletano, si inoltra in uno squarcio di luce, in un varco nel piombo fuso, e solleva il viso e ondeggia il capo, seguendo un profumo, l’aria leggera, un sospiro di cielo.
   Distolgo la fronte da una sua carezza; sarà stata la febbre tifoide o un pensiero luttuoso che ha separato la guancia del neonato dalle mani d’una donna di trent’anni, sarà stata la malinconia d’un autunno mediterraneo e la salsedine fin sulla porta e oltre le finestre aperte,  nel giorno che dissipa l’ultima luminosità e allunga le ombre.
   Una quercia protende il tronco storto sul vuoto, è un segnale sul sentiero, la maglietta lattea si scurisce sotto le ascelle.
   Tra le spighe spuntano i primi papaveri, diverranno presto un’ampia macchia rossa che illumina il declivio nella grande curva, quando lo sguardo aperto, aldilà della cupola ombrosa dei rami fogliuti,  si volge sulla sinistra. Il pensiero elettrico diviene indistinto, l’affanno tra petto e bocca prende il sopravvento. Sento i piedi, i polpacci induriti, le ginocchia.
   Il sorriso spento dal letto d’ospedale. Un sorriso giallo, una luce che non si irradia, la voce rimane un alone intorno alla testa e sulle lenzuola. La vena rossa si spezza nella notte e dai monconi tranciati stilla un’unica goccia di sangue – grande perfetta vivida splendente. Cattivo auspicio, cattivo auspicio, l’anello nuziale scivola dal dito femminile e vola dal balcone, giù giù, s’infila nelle grate del tombino, si perde nel buio di acque di scolo, si perde nel buio. Nulla di personale contro il buio.
   Continuo ad arrancare nella salita, piegato. Il fiato è quello giusto, regge lo sforzo, sostenuto dalle gambe forti, e dalle braccia in equilibrio a smuovere aria come remi. Sul lato dell’ombra, macchie di pioggia vecchia e ciuffi gialli d’erba.
   Fantasmi protonici escono in fluidi oblunghi dal palcoscenico di vetro. La voce che invade la stanza ha il potere d’una divinità. Signore e signori, buonasera, di certo sarà una cena ricca, fino a succhiare il midollo dalle ossa frantumate.
   Il bisturi apre il corpo della madre.
   Immagino l’anima nascosta, un pensiero incarnato, scrutare cupo dagli occhi verdi, investigare emozione, sensualità, derma tessuti sangue trattenuto, organi esposti agli sguardi estranei (come ricordare il colore degli occhi della madre?).
   Cambio platea, è un viaggio di ritorno oppure lo stesso itinerario che s’avvolge in cerchi cangianti, mi stringono le spire rettili, boccheggio nella poltiglia di visi e nomi, anch’io faccio parte del magma freddo, creatura di sorrisi impastati, innumeri, ghigno d’un’unica bocca che sbrana sé stessa, inesistente.
   Tra poco finirà la salita, appare uno slargo sul lato meridionale della strada, sassi grigi e campi brulli, pochi minuscoli abeti affaticati nelle pietre, il battito cardiaco prevede il ritorno, il riposo, le gambe rilassate nella corrente della  forza di gravità, la madre sacrifica alla sofferenza una vita di sorrisi amorevoli, madonne accasciate devozione cimiteriale, meraviglia di bellezza generata dal mare, sconfitta sul marmo d’un macello, altare rovesciato, interruzione di flussi e riflussi, acqua solidificata, immolare la carne ad un dio cannibale. Si chiede infine la fine, prima della consunzione per strazio, e ancora, poi, attendiamo per viltà l’annuncio dell’allodola.
   Ti ho cercato per cavi e per schermi, per voci stentoree, per geroglifici moltiplicati ad ogni bivio, ad ogni incrocio di parvenze d’incontri, e ci siamo smarriti -  i capelli perdono il colore artificiale, e sono bianchi, come la pelle dei vecchi, quando la saggezza è una fantasia dei tempi antichi e il bianco l’immagine d’una inutile cecità.
   Il respiro si precipita nella corsa scatenata, a braccia spalancate, nell’invocazione d’un arrivo, la linea di mezzeria sull’asfalto s’arrotola con più furia, c’è da urlare dalla gioia, nudi sulla spiaggia, con le piante dei piedi che fremono di sabbia bagnata e sale, il ventre liquido, troppo vicino al grembo marino per non dissolversi in gloria, troppo vicino il cielo, il cielo!, la solita sciocchezza che mi fa inghiottire (ho perso di nuovo) l’esclamazione vittoriosa: ah!
   Ed ora bisogna descrivere la morte. L’ultimo respiro della madre. Non si può dire? Si conclude con un inconcluso? Un ultimo respiro dopo gli ultimi respiri. Il respiro della madre. Si ferma. Niente più respiro. La madre non si muove più. La madre è morta. Dove sei, per una dedica. Per l’incontro di me giovane idiota ad occhi chiusi che cerca  la soluzione del limite. Per l’incontro di te. Oppure una porta. Se la carne straziata, finalmente, si è staccata dall’anima. C’è da sghignazzare come matti a sentire ancora la parola anima.

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