mercoledì 16 giugno 2010

Il poeta vede e immagina la realtà con occhi sempre diversi: Bruno Bartoletti

L’Intervista di Antonietta Gnerre


Bruno Bartoletti, narratore, saggista e critico letterario, è nato a Montetiffi, una piccola frazione del comune di Sogliano al Rubicane (FC), dove tuttora risiede. Laureato in Materie Letterarie presso l’Università degli Studi di Genova, si dedica all’insegnamento, svolgendo poi la funzione di Preside negli Istituti Tecnici. Nel 1997 pubblica il suo primo volume di liriche, Trasparenze – Frammenti di memorie, nel 2000 Le Radici, nel 2001 Parole di Ombre, nel 2005 Il Tempo dell’Attese. È membro di numerose accademie nazionali ed è tra i fondatori del Premio Nazionale di Poesia “Agostino Vincenzo Reali”. In questa intervista Bruno Bartoletti riassume il percorso di una vita, con riflessioni acute sul ripiegamento che caratterizza la società attuale.

Quando e perché ha iniziato a scrivere?

I primi ricordi, quelli sufficientemente limpidi, risalgono alla scuola media. Scrivevo allora dei sonetti e versi seguendo una metrica classica, con rime ed endecasillabi. Ho ancora quel quaderno, con la copertina rossa su cui avevo scritto “un giorno sarà meglio”. Credo che il fatto che maggiormente mi ha spinto verso la poesia (e verso la scrittura in generale) sia stata la morte di mio padre in miniera in Francia. Avevo allora 8 anni. Passavo l’estate a scrivere racconti e poesie. Ma credo ci fosse anche in me una certa predisposizione verso la poesia. All’esame di terza elementare recitai a memoria le due strofe del X Agosto, quelle in cui si descrive la rondine uccisa e caduta tra spini.

Quali sono le sue regole preferite?

Credo che la poesia debba sempre sottostare a un suo ritmo, a una sua musicalità e a un lavoro sulle parole. C’è chi si è definito un operaio delle parole quando scrive dei versi, e Fernando Pessoa / Alvaro de Campos, in una paginetta datata 9 aprile 1939, definisce la poesia come “una forma di prosa con un ritmo artificiale” . In questo senso credo che si debba lavorare molto sulle parole, sui versi e sulla loro musicalità, sul ritmo. Non concepisco la poesia se non nella sua musica, nelle sue assonanze e nelle sue metafore. Il poeta vede e immagina la realtà con occhi sempre diversi.

Cosa sognano i poeti?

Giovanni Pascoli, parlando di Alessandro Magno, scrive che “il sogno è l’infinita ombra del Vero”. Ecco, credo che i poeti non si stanchino mai di sognare, di descrivere questa realtà e di immaginare un mondo migliore. La poesia nasce sempre dal dolore e da una sua rappresentazione e il poeta scava dentro, per usare un’espressione di Giorgio Caproni, il poeta è “un minatore”. Efficace è questo enunciato di Carlo Betocchi: “Tu hai nel petto un garbuglio di cose che ronzano come un’arnia di api al lavoro. S’apre uno spiraglio nell’arnia; il capo del verso, come un’ape d’oro, appare, sull’orlo, fremente, sta per spiccare il volo, e sdipanare il garbuglio dello sciame”. Mi scrive Beatrice Niccolai: “Purtroppo il compito dei poeti è stato quello di stare nell’ombra delle cose per ricordare di come si vede filtrare la luce. È lì che cerco nel mio qui attraverso i libri dove la parola è eterna”. Ecco, il sogno è soprattutto quello di reperire il senso vero delle parole, la loro eternità, ricordando che, come affermava il poeta inglese Wystan Hugh Austen, quando le parole perdono il loro significato prevale la forza.

Quali sono i suoi libri preferiti?

Non amo i libri che raccontano semplicemente delle storie e faccio fatica a terminare libri che si soffermino in prevalenza sul racconto, sulla trama. Preferisco i saggi. Nella poesia ricerco una trasmissione di emozioni, la rappresentazione di un modo di sentire, di rappresentare e di pensare e la prospettiva che è il rapporto tra il poeta e la sua parola. Nel romanzo ricerco un tema, soprattutto l’analisi di sentimenti, l’introspezione: il Morselli di Dissipatio H.G., o Buzzati, Svevo, Poe, Kafka; o libri che affrontino temi fondamentali del vivere, come Fahrenheit 451., La storia infinita, Il Piccolo Principe, Il Gabbiano Jonathan. Nella poesia Agostino Venanzio Reali, Margherita Guidacci, Antonia Pozzi, Mario Luzi, Cristina Campo, Antonella Anedda, Alba Donati, Patrizia Cavalli, Fernanda Romagnoli, Silvia Bre, e potrei continuare.

Il libro di poesia più bello che ha letto?

In questi ultimi anni, in questi ultimi mesi, uno dei libri di poesia più belli è l’ultimo di Narda Fattori: Il verso del moto. Ma, senza fare una classifica, compito estremamente difficile e fuori luogo, ci sono diversi libri che in questi ultimi mesi hanno occupato la mia scrivania: Tutte le poesie di Margherita Guidacci, di Antonia Pozzi e di Cristina Campo, Lasciami non trattenermi di Mario Luzi, Le barricate misteriose e Marmo di Silvia Bre, Il tredicesimo invitato e Mar Rosso di Fernanda Romagnoli, Non in mio nome di Alba Donati, Residenze invernali di Antonella Anedda e l’ultimo recentissimo, La fonte ardente, gradito dono di Maura del Serra, oltre a Lo scriba delle stagioni, altro gradito dono di Barberi Squarotti.

La sua carriera professionale ha influenzato il suo modo di scrivere?

Non saprei, ma credo di no, non c’è un rapporto diretto tra quello che fu il mio lavoro e la scrittura, anche se nel mio lavoro ho scritto molto, specialmente ai ragazzi e ai docenti, le mie lettere di Natale, i miei principi e l’importanza dello studio e della lettura, con ricche citazioni di autori. Ho sempre considerato che nella scuola il sapere, la cultura debbano occupare un ruolo essenziale. Ho sempre pensato che il docente o il preside debbano essere i principali interpreti e artefici di questo ruolo. Il mio modo di scrivere è stato invece soprattutto influenzato dagli autori che ho incontrato e che prediligo.

Il suo ultimo lavoro di che parla?

Ho scritto un libro sulla scuola e sto scrivendo un lungo saggio sulla poesia, ma probabilmente non troveranno mai una pubblicazione. Ho da qualche anno smesso di partecipare a concorsi di poesia e ho smesso di pubblicare, anzi credo che non pubblicherò più, ma questo non vuol dire che io smetta di scrivere. Il mio ultimo libro pubblicato è del 2005, è un libro di versi, Il tempo dell’attesa, edito da Ponte Vecchio di Cesena. È il libro in cui meglio che in altri parlo dell’assenza, delle cose che si perdono, del tempo. È un ripiegamento su se stessi e sul mondo per cercare di interpretarlo.

Che rapporto ha con la sua terra?

Di discreto osservatore, come mi hanno definito su un quotidiano locale, un rapporto di amore ma anche di discreta critica. “Io, la mia patria or è dove si vive”, scrive Giovanni Pascoli in Romagna. Io posso dire di essere sempre stato in fuga e senza patria, dall’età di 8 anni, dalla morte di mio padre: quarta e quinta elementare dalla zia, poi anni di collegio, poi ancora dagli zii, laurea a Genova, sempre da una zia. Era il pegno che si doveva pagare per poter studiare, ma poi sono tornato a casa. Ho rinunciato perfino all’Università di Torino, pur di tornare a casa, alle radici, alla mia terra. In Il tempo dell’attesa c’è una sezione che va sotto il nome di Le Radici, stesso titolo del mio penultimo libro di versi.

Secondo lei l’Italia è smarrita?

Credo proprio di sì. Il suo popolo è fantasioso, ha estro, è animato da principi sani, ma sta anche attraversando un periodo confuso in cui sono cadute le ideologie e si sono persi i punti di riferimento e di identità. Sì, l’Italia sta attraversando un periodo critico in ogni campo e ciascuno si sente un poco più solo. Soprattutto gli adulti, mentre i giovani ancora rappresentano la parte più sana.


Perché?

In tempi che stanno rapidamente cambiando, l’Italia non riesce a stare al passo, non riesce a comprenderli. Direi che tutto questo è mancanza di cultura, di preparazione, di competenze; prevale l’interesse individuale, il proprio particolare su quello generale, che era uno dei principi dettati da Rousseau. La politica non riesce più a dialogare. E la mancanza di regole o di rispetto delle regole produce confusione, ma quello che è ancor più grave è che questa mancanza di rispetto deriva proprio da chi dovrebbe le regole farle rispettare. Non c’è molto spazio per la critica e per l’osservazione. Credo che si debba recuperare il senso dello Stato, dell’Etica; dovremmo far nostra la massima che Kant fece scrivere sulla sua tomba: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale in me”

Questa crisi è servita a qualcosa?

Dovrei rispondere, come fece Pasolini, che “non la poesia è in crisi, ma la crisi è in poesia”. In altre parole la poesia, la letteratura, descrivono questa crisi, ma non la risolvono. Le crisi si risolvono con la politica e con l’impegno di tutti, con la partecipazione, con un elevato senso del dovere e di morale, con una elevata preparazione culturale, con il saper leggere i linguaggi. Ma oggi la parola si è trasformata in urlo, in volgarità, in spot, e lo spot, disse Moravia, è esattamente il contrario della comunicazione, è “la morte della parola”. Don Milani rispondeva, a proposito di politica, sottolineando il principio della partecipazione: “sapere che il problema degli altri è uguale al mio, uscirne tutti insieme è la politica”.

Nessun commento: