giovedì 7 gennaio 2010

IL PRIMO GIORNO

di Subhaga Gaetano Failla

Scendevamo, al termine della stretta strada di sassi, sulla grande scogliera. Quel giorno d’inverno (un inverno mite che ci faceva uscire in maniche di camicia), il mare era mosso e rumoreggiava nella ghiaia della spiaggia e sugli scogli scuri e verdastri. L’acqua era bluverde e diveniva a tratti bianca di spuma, e alla base delle onde, dove il mare sembrava fermarsi, si tingeva d’un colore cupo simile all’inchiostro.

“Questo è il mare giusto” urlò Xiliao, per superare il frastuono d’un’onda infranta.

I suoi occhiali erano velati di salsedine. Io guardavo in avanti, dentro quel rimestare carico di forze unite e nervose frantumate in armonia. Cercavo di distinguere qualcosa oltre le creste biancheggianti e sfilacciate dei cavalloni. Strizzavo gli occhi e i miei capelli lunghi svolazzanti s’inzuppavano di pulviscolo salato.

“Laggiù!” Amida indicò uno spazio d’acqua. Gridava e saltava, puntando l’indice della sua mano affusolata.

Ci avvicinammo d’un passo ancora, rischiando d’essere afferrati da un’onda. I miei piedi nudi sentirono la mano della risacca che cercava di portarmi con sé.

E infine apparvero, come un drappello di guerrieri dispersi. Un’onda alta li aveva nascosti e poi sputati verso di noi, verso la riva. Adesso a tratti, nel tempestare dei flutti, si manifestavano ben distinguibili, semisommersi e stanchi. Galleggiavano affiancati e sembravano darsi forza tra di loro, proprio come dei naufraghi ai quali la vista della costa abbia donato un’ultima spinta d’energia.

Ameth si avvicinò rapido verso di me sollevando con i piedi e le gambe schizzi d’acqua.

“Li hai visti?” mi chiese ad alta voce in un orecchio.

“Sì sì” urlai, e senza accorgercene ci toccammo le braccia e le spalle, mentre un residuo d’un’onda ci bagnò completamente.

Avevamo sbagliato a non denudarci prima. Lo facemmo in fretta adesso; Amida e Zephir, abbandonati già i vestiti sulla spiaggia, si tuffarono insieme, infilandosi con un guizzo dentro il cavallone che veniva loro incontro. Sparirono per due o tre secondi, poi riapparvero in superficie scuotendo i capelli bagnati.

“Venite! Venite!” dicevano forte, immersi nel mare agitato, oscillando le braccia nella nostra direzione.

In un attimo ci ritrovammo, anch’io e Amida, in quelle acque torbide. Vidi uno squarcio di cobalto nel vasto velo d’ardesia del cielo.

Prima che rovinassero contro le rocce, eravamo riusciti a portare a riva, sul tratto di spiaggia che si apriva nella scogliera, otto televisori e sette schermi di computer.

Il vento asciugò rapidamente i nostri corpi. Amida cercò i suoi panni sopra i ciottoli chiari. Diedi uno sguardo furtivo alla sua schiena snella mentre ella si rivestiva.

Percorremmo di nuovo tre volte il sentiero tra la spiaggia e la casa trasportando i pesanti oggetti raccolti. Mi fermai una volta, per incidere con un piccolo coltello dal manico d’osso un’agave che svettava ai margini del viottolo. Ne tagliai un tassello carnoso. Succhiai il liquido verdino. L’aria che prima era rimasta schiacciata sotto nuvole plumbee e basse, ora diveniva cristallina, attraversata dalla luce.

Hanna e Izidra profumavano di chapati caldo e finocchi lessati, di broccoli in umido e formaggio fresco, di quel che costituiva cioè il pranzo che avevano preparato, e disposto con cura su un tavolo di legno marrone.

In un bicchiere al centro del tavolo c’era un fiore scarlatto di ibiscus, e dentro un piatto ovale sfolgoravano grandi frutti di fichidindia, viola, gialli, rossi e arancione, gli ultimi della stagione. Izidra poggiò le mani sulla lunga gonna colorata e nascose un sorriso.

All’esterno della casa, con gli altri della spiaggia, costruimmo una nuova torre, piuttosto alta, innalzando in equilibrio i televisori e i video dei computer ancora sgocciolanti di mare.

L’oscurità giunse presto. Alle cinque, soltanto una esile linea rossastra illuminava l’orizzonte marino. Contemplavo quell’estremo bagliore, seduto a terra all’esterno della casa.

Poi rientrai per allestire il mio semplice palcoscenico. Una mezz’ora di spettacolo, non di più, da rappresentare dopo la cena. Stesi il lenzuolo bianco in verticale, tirando forte le corde e legandole a dei ganci conficcati nei due opposti muri della stanza. Accesi quattro grossi ceri per verificarne la luce proiettata sul lenzuolo. Poi scelsi, tra le tante che avevo creato, alcune figurine di personaggi e di ambienti, che manovravo attraverso le sottilissime bacchette di bambù a cui erano collegate. Provai la giusta distanza tra il lume dei ceri e lo schermo del lenzuolo, per rendere nitide le ombre delle figurine. Infine disposi sul pavimento della stanza una dozzina di cuscini: sarebbero bastati per il piccolo pubblico, composto dagli abitanti della nostra casa e da quelli d’una casa distante un paio di chilometri, i quali erano stati invitati anche per la cena.

Qualcuno a tavola mi chiese il titolo dello spettacolo. Risposi che non potevo svelarlo in anticipo, perché io ero un professionista serio. Scherzavo e ridevo, mentre sorseggiavo un bicchiere di vino rosso e mangiavo qualche altra oliva nera al forno.

I sussurri del pubblico tacquero. Suonai il mio flauto traverso di canna. Lasciai sfumare una nota lunghissima, e pronunciai, scandendo bene a voce alta, il titolo dello spettacolo:



IL PRIMO GIORNO

La storia narrava d’un uomo il quale, dopo una notte di pioggia incessante, si sveglia in un mondo deserto. L’uomo cammina per giorni e giorni e non incontra nessuno. Le strade, le case, le città, le campagne e gli altri luoghi che egli attraversa sono intatti e vuoti.

Riuscivo a manovrare con una sola mano le figurine dei luoghi e quella del personaggio in cammino, mentre con l’altra suonavo il flauto. Nelle scene più complesse usavo entrambe le mani e contemporaneamente davo voce ai pensieri del personaggio.

Egli poi incontra una ragazza che aveva vissuto le sue stesse vicende, al risveglio da una notte di incessante pioggia. E infine il racconto diventa una storia d’amore malinconica e felice. Jules e Lailah, i due protagonisti, durante una sera di maggio si uniscono in amore per la prima volta. Poi scambiano tra di loro poche parole.

JULES         Dove siamo stati… amore…

LAILAH       Il cielo azzurro… infinito…

JULES        Svanisce il tempo… e noi ci siamo dissolti…

LAILAH      Il primo giorno… l’unico…

JULES        Il primo giorno… Per sempre… Amore…

LAILAH      Amore… Per sempre…

Suonai poche note lunghe di flauto. Lo spettacolo era finito. Lasciai le figurine ferme per un’ultima immagine scenica. Mi spostai su un lato del lenzuolo e scrutai oltre, nell’oscurità della stanza. Zephir si era addormentato. Amida guardava ancora a occhi spalancati le silenziose ombre immobili sul telo bianco.

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