venerdì 27 novembre 2009

Non senza l'altro a Milano 28 nov


         stati generali degli immigrati in italia
legittime aspettative: il cammino degli immigrati nella nuova italia 
Milano 28 novembre 2009

non senza l’altro.
per una creazione di culture ospitali
di Ivan Nicoletto, monaco di Camaldoli

           
Avvio
Ringrazio di cuore il signor Otto Bitjoka per l’invito rivoltomi a partecipare a questo incontro.  Desidero esprimere la mia gratitudine anche a tutti gli immigrati e le immigrate che con la loro presenza, disseminata sul territorio, contribuiscono a forgiare il profilo di una nuova Italia, con la molteplicità dei volti e degli aneliti, dei bisogni e delle aspettative, dei patimenti e della creatività di cui sono portatori e portatrici. Grazie a loro, la nostra società viene traghettata da un microcosmo chiuso e impaurito, verso il più ampio contesto di una società europea e mondiale, multietnica e multiculturale.
            Credo sia essenziale, nel passaggio d’epoca travagliato che stiamo vivendo, educarci ad un respiro ampio del pensiero e della visione, per non naufragare in un presente senza profondità e prospettiva. Direi che è lo stesso crogiolo di trasformazioni rapide e profonde della nostra vita personale, sociale e planetaria, a nutrire delle aspettative verso di noi. Sollecita in ciascuno di noi la creazione di mentalità e di identità ospitali, che non respingono, per paura, il proliferare delle diversità, ma si arricchiscono della relazione con esse, tanto da considerare le differenze non come ciò che minaccia di disintegrare il mondo, bensì come ciò che lo tiene unito, e lo apre ad un futuro. Uniti dalle e nelle diversità che siamo, verso una coabitazione che non porta all’uniformità dell’assimilazione, ma ad una convivenza delle diversità [Z. Bauman 2009].
Per questo ampio sguardo sulla storia, mi sembra istruttiva la visione dell’Italia che ci offre l’ultimo volume degli Annali della Storia d’Italia Einaudi, che porta il titolo Migrazioni [P. Corti e M. Sanfilippo 2009]. La nostra penisola appare come un molo che si adagia sul Mediterraneo da tempi immemorabili, per vocazione luogo di movimenti umani. I nostri confini sono sempre stati attraversati, simultaneamente, in entrata e in uscita, da flussi di emigrazione e di immigrazione che ci rende tutti emigranti. Questa mobilità interna ed esterna sfata  il mito della nazione etnica, che ci rende titolari di una cittadinanza originaria ed esclusiva, e rivela invece che siamo l’esito di una lunga sequenza di processi ibridativi con le diversità delle genti con cui siamo venuti a contatto, immettendoci così nell’odierna prospettiva di una cittadinanza globale.
La breve riflessione che condivido con voi, in tre sguardi, è un tentativo di fare spazio, nel nostro corpo, a questa cultura ospitale che sa trarre beneficio della presenza di ciascun altro/a.

1. L’opportunità di fare-mondo insieme o di fare-muro
La nostra civiltà sta vivendo un passaggio importante del suo lunghissimo percorso evolutivo, che implica un profondo mutamento antropologico. Con la straordinaria accelerazione di quest’ultimo secolo, per la prima volta nella storia ci viene offerta l’opportunità, mai data finora, in cui tutte le tribù umane possono incontrarsi e scambiare saperi, valori, tradizioni ed etiche; possono imparare a sentire, pensare e agire insieme, collegati da strumenti mediatici e da vicende globali che noi stessi abbiamo approntato.
L’emblematico crollo del muro di Berlino, avvenuto appena due decenni fa, è stato l’avvio di un travolgimento di moltissimi confini geografici, razziali e culturali stabiliti [T. Friedman 2006].
Contemporaneo a questo movimento di comunicazione e di contaminazione fra persone e idee, beni e tecnologie, sono insorte però molte controspinte impaurite, che producono l’innalzamento di tante altre mura, visibili e invisibili: quello della West Bank fra Israele e Palestina, alla frontiera fra California e Messico, fra Tibet e Cina, in Via degli Anelli a Padova, barricate contro i campi nomadi di Verona… e, ultimamente, le crociate White Christmas nelle terre del bergamasco…
Mura erette a difesa degli stati nazionali, o dei localismi, come risvolto securitario delle politiche di difesa, di paura, di esclusione, di sorveglianza e di controllo, che dopo l’11 settembre 2001 hanno trasformato l’idea stessa di comunità nella forma di una fortezza assediata da nemici.
Il paradosso drammatico che stiamo vivendo è infatti un mondo che esalta il libero mercato, i legami d’interdipendenza e di circolazione delle persone, ma contemporaneamente chiude le frontiere a coloro che anelano a condividere il benessere raggiunto da alcuni, innesca una spirale crescente di ostilità, dove la semplice diversità viene ritenuta devianza, se non crimine.
Il recente decreto di sicurezza sull’immigrazione, con l’introduzione del reato di clandestinità, che fa terra bruciata intorno all’immigrato, e mina radicalmente la possibilità della solidarietà nei suoi confronti, testimonia la fatica che facciamo tutti ad accogliere la sfida che la specie umana non ha mai finora affrontato in modo così impellente, ossia di approntare le forme politiche e sociali convenienti ad una civiltà globale composta di differenze singolari, dove convergono occidentali e orientali, islamici, turchi e confuciani, cinesi e africani, buddisti e slavi… e innumerevoli altre civiltà, culture, spiritualità... Un incontro con lo straniero non soltanto fuori dalle nostre frontiere, ma all’interno delle nostre stesse realtà locali, che ci chiede di inventare dei comportamenti nuovi, rispetto a quelli ereditati dalla nostra specie finora, dettati da possesso, esclusione e repressione.
Che tipo di domanda ci rivolgono infatti i corpi, i volti, le mani protese di coloro che ci raggiungono con le loro fragilità, vulnerabilità e precarietà, se non un bisogno di relazione, di partecipazione, di condivisione?
Per disporci a creare questi nuovi spazi fraterni, sociali e politici accoglienti, occorre però uno sguardo che riconosca e disinneschi la miscela esplosiva della paura, delle dinamiche di immunizzazione, e del mito della purezza.

2. Disinnescare la miscela di paura, di immunizzazione, e di purezza
Tutte le vicende che si susseguono in questo periodo, nel rapporto con gli immigrati, sono sintomi di una cultura che genera e alimenta paura nei confronti di tutto ciò che è diverso, che parla una lingua, indossa una pelle e una cultura diverse. Una paura strumentalizzata politicamente, che combatte sistematicamente questi altri come se la differenza stessa fosse sinonimo di pericolo. Non riusciamo a pensare l’altro, a pensarci in relazione con l’altro, a rispecchiarci nel volto dell’altro.
Alzando continuamente la soglia di attenzione delle nostre società nei confronti della minaccia, regrediamo ad uno stadio di aggressione contro tutti i diversi, e torniamo a creare nuovi particolarismi, a rifugiarci nelle tradizioni locali, nelle piccole patrie chiuse e murate nei confronti del loro esterno. In realtà, il risultato è opposto alle aspettative: invece di proteggere, le barriere cristallizzano le differenze, favoriscono il ripiego identitario, e alimentano proprio quella paura che dovrebbero contenere. Più ci si chiude all’altro, più la paura aumenta, finché progressivamente si finisce con il credere che i nemici siano ovunque, e che tutti i mezzi siano legittimi per proteggersi.
Le paure innescano delle dinamiche immunitarie. Immune è il corpo individuale o sociale che vuole circoscriversi nella sfera del proprio interno, vuole conservare integra la propria sostanza, vuole essere proprietario di se stesso, autosufficiente. Crea una distanza/distacco dall’altro, dall’esterno, da tutto ciò che minaccia di attraversare i propri confini di corpo, e si rinchiude nel guscio della propria soggettività, innescando una reazione difensiva contro ogni minaccia di alterazione esterna [R. Esposito 2008].
Questa paura, che si immunizza contro l’altro, alimentando nuove forme di xenofobia, ha la propria matrice nel principio di epurazione. Il concetto e la ricerca di purezza risulta uno dei temi più problematici della storia dell’uomo, perché è legato all’idea di estrarre dal mondo delle forme o delle identità perfette, autentiche, preservate dal disordine, dalla contaminazione, dall’ibridazione e dalla devianza. Il riferimento alla purezza conduce ad interpretare le identità non come corpi dialogici, bensì come isole che devono preservare il loro profilo costruendo dei muri, rafforzati da pretese di egemonia, superiorità, eccellenza..
Non intendo dire che l’incontro fra culture o la compresenza di pluralità etniche siano situazioni di interscambio armonioso e senza conflitto, ma che l’idea di purezza scatena delle dialettiche oppositive, comporta un atto di violenza per il ripristino dell’ordine e della pulizia, appellandosi a principi, valori, usi e costumi che si immaginano originali e primigeni.
Questo orientamento porta a vedere la mutazione, il mescolamento, la pluralità come qualcosa a cui opporsi, per questo  la ricerca della purezza porta a semplificare, distruggere, ripulire, allontanare, omologare, sacrificare. Il diverso diventa barbaro, deviato, entità estranea, alieno.
            Considerati gli eventi di globalizzazione in atto, caratterizzati dal multiculturalismo e dall’interscambio, ogni appello alla purezza e alla immunizzazione diviene, inevitabilmente, foriero di scontri e di battaglie, un risuonare di armi, per cui l’unica strategia percorribile è quella integrativa delle diversità, un nuovo pensiero di comunità o di identità che ospita singolarità fra loro irriducibili, aperte alla differenza da sé.
Vivere in un processo di ospitalità permanente non significa dissolvere la propria casa o identità, ma mantenere aperta la soglia di ingresso e le finestre, per una condivisione e  una reciprocità, abitanti di un unico mondo che abbiamo in comune, a cui apparteniamo in modo dialogico, che non è appropriabile da nessuno [L. Irigaray 2008].
            Un’identità forte, in questo contesto, si costituisce nella capacità di venire a contatto, esporsi, dialogare, interagire con-creativamente con le diversità. Risulta invece debole, quell’identità che crede di rafforzarsi separandosi, difendendosi, pretendendo di salvaguardare una chimerica, incontaminata purezza, che è un’illusione. Come le parole che accompagnano l’invito a questo incontro: “Conoscere una sola lingua, un solo lavoro, un solo costume, una sola civiltà, conoscere una sola logica, è prigione”.
           
3. Culture e spiritualità ospitali: non senza l’altro
            In questo contesto attuale di globalizzazione multiculturale da un lato, e il suo controcanto immunitario e xenofobo dall’altro, come si pongono le tradizioni religiose, le fedi, le spiritualità?
Sono terreni che promuovono l’incontro, il dialogo, l’accoglienza, oppure, al contrario, favoriscono l’intolleranza, lo scontro, gli assolutismi?
            L’esperienza storica dei nostri monoteismi ci insegna che possiamo brandire come un’arma il nome del nostro Dio, per imporre un ordine sacro, il proprio, e combattere quello falso o corrotto degli altri… E sappiamo che non c’è forza maggiore di quella che si sprigiona dall’identificazione con le potenze ritenute divine, che ci garantiscono con la loro protezione.
            Credo che questo frangente della storia rappresenti per tutte le fedi e le spiritualità l’occasione di scoprirsi umani, saggi e religiosi nelle forme più diverse, tutti appartenenti all’avventura immensa e imprevedibile della terra. Nasciamo ad una nuova visione di Dio come la straordinaria creatività che ci avvolge e ci accomuna, come quella sorgente che tutto vivifica ed è immanente presenza, nella cui luce tutto è interconnesso e diviene, e che noi umani simboleggiamo nei mille nomi e nei mille volti di Dio.
Il contatto con altre tradizioni ci apre oltre noi stessi, e non sappiamo se nascerà qualcosa di nuovo, ma intanto facciamo vivere le differenze senza disprezzo, anche se in modo sofferto, in un atteggiamento di ascolto e di simpatia.
Tale emergenza ci sollecita a non asserragliarci in identità chiuse e arroganti, ma sprona ciascuna fede e spiritualità a produrre frutti di comunione e di umanità, a coltivare e promuovere le figure relazionali e accoglienti della propria tradizione.
La tradizione cristiana alla quale appartengo, si alimenta di due misteri centrali, come i due fuochi di un’ellisse, misteri che ci dispongono ad un’esistenza aperta, accogliente e dialogale con gli altri. Essi sono la trinità e l’incarnazione di Dio.
La trinità non è dominio di un Uno assoluto, che dissolve le differenze, ma è una comunicazione di diversi che suscita inedite forme di ospitalità accogliente. Ogni persona divina non fa corpo su se stessa, ma è relazione aperta all’altra, in un gioco fra libere e irriducibili differenze, unite da un legame di Amore, per il quale uno non è mai senza l’altro: non senza te [M. De Certeau 1993].
L’incarnazione è il secondo evento di fede: Dio rivela il suo volto umano nell’esistenza amante di Gesù. Egli è la rivoluzione pericolosa e misericordiosa di Dio, che si concretizza in un’attiva compassione e indignazione per togliere i motivi di pianto e di disperazione, di esclusione e di inimicizia dalle relazioni intraumane, consentendo al nuovo di sprigionarsi, di rompere la ripetitività dell’oppressione, per instaurare legami di fiducia e di condivisione.
Il Figlio di Dio rivela un bene per il mondo così incondizionato, da spalancare senza misura le porte e le finestre del proprio corpo per abbracciare tutti, fino a destabilizzare le gerarchie e le potenze di questo mondo, che vivono sul dominio e sull’ingiustizia.
La pace, il bene, la giustizia di Dio non sono però belli ideali, teorie disincarnate: il figlio dell’uomo conosce e attraversa le tenebre, il conflitto, le resistenze che l’umanità oppone alla benevolenza, che ha come esito tragico una morte di croce.
L’immaginazione creatrice e amante di Dio non si ferma però nemmeno di fronte alla potenza della morte iniqua. La resurrezione è l’insorgenza di un amore così forte che non si rassegna al fallimento, ma riapre la storia al nuovo, all’inedito, all’impensato. Questo, forse, implica per i credenti meno preoccupazioni per i crocifissi esposti negli edifici, e più testimonianze di accoglienza e di liberazione che il crocifisso vuol significare.
Mi sembra inoltre che non ci sia realtà così distante e opposta fra il richiamo ad una appartenenza cristiana e ogni comportamento aggressivo, violento e intollerante nei confronti del diverso, dello straniero, soprattutto se povero.

Conclusione
Concludo questa riflessione con la consapevolezza che oggi stiamo vivendo in una temperie, europea e mondiale, in cui un ordine sta venendo meno, e un altro sta nascendo. Nel trapasso, le identità nazionali e politiche, economiche e religiose, che hanno fatto finora da cornici di senso e di valore, sono sfidate a trasformarsi profondamente, e non a  reagire chiudendosi in se stesse, divenendo normative, aggressive, e talvolta sanguinarie.
Questo tempo ci sprona, invece, a non aggrapparci alle mappe già conosciute, ma a crescere in una prospettiva pluralista, e in un quadro istituzionale, politico e religioso inclusivo, cogliendo nelle differenze un potenziale creativo senza precedenti. La possibilità di mettere insieme esperienze, visioni, sensibilità, memorie, competenze può portare alla creazione di una nuova, inedita cultura, che non può fare a meno dell’altro, dell’immigrato, e non solo per ragioni economiche, ma come presenza che contribuisce a forgiare la futura identità dell’Europa, il volto del nostro pianeta.
A noi la responsabilità creativa di sviluppare un coinvolgimento aperto e simpatetico con le alterità, in una cornice di ospitalità che rende sacro lo straniero, anche se portatore di ignoto e di impensato. Ci siamo: tutti uguali, tutti diversi, tutti insieme.
             Termino, evocando l’immagine di un film che si intitola Crash, contatto fisico, vincitore dell’Oscar nel 2004. La vicenda si svolge  a Los Angeles, emblema della metropoli contemporanea anonima e corrotta, nella quale una stessa atmosfera sembra accomunare i rapporti fra bianchi e neri, integrati e nuovi immigrati, iraniani, ispanici e asiatici… è l'aria acuminata della paura e del pregiudizio etnico, diffusasi dopo l'11 settembre. Intriso ormai di quest'aria, ognuno è pronto a difendersi, o a reagire all'altro, con rabbia e con odio, che esplode per un qualsiasi motivo, per un sospetto qualunque.
Si ha come la sensazione che questa paura imprigioni uomini e donne in un circolo dal quale non si esce più, che induce a fare e a farsi del male, nell'incapacità di vedere e di lasciarsi guardare dagli altri: "Ci scontriamo l'un l'altro, perché così riusciamo a sentire qualcosa" - dice un personaggio del film - come se cercare lo scontro fosse un ultimo, disperato modo di incontrare l'altro, di sentire qualcosa…
Eppure, questa spirale di paura e di odio, che sembra avvolgere inesorabilmente tutto, a tratti s'interrompe. Lascia filtrare squarci di luce di un altro segno, di un altro regno… La stessa mano che prima aveva umiliato e offeso si offre ora come àncora di salvezza in un pericolo estremo; lo sguardo che prima era una muraglia impenetrabile si scioglie, e sa riconoscere, ricambiare quello dell'altro; la paura dello straniero invasore improvvisamente si scioglie in un abbraccio d'intesa amicale… e il colpo di pistola, programmato e sparato, è sventato dalla fiducia di una bambina e dallo scherzo del destino… Sono le scintille imprevedibili del divino che splende nel brusio meccanico e violento del mondo, suscitando spazi ricettivi, connessioni inedite, corrispondenze d'amore, istanti di grazia…
Alla fine del film, mentre la città è immersa nei suoi consueti ritmi frenetici e scontrosi, lo sguardo si eleva, sù sù, fino ad offrire una visione dell'ingorgo dall'alto, forse da un altro occhio, che la telecamera vorrebbe insinuare…e dal cielo inizia a scendere una neve che sembra abbracciare, benedire tutto il travaglio umano e cosmico…
La neve… e sulla neve le tracce degli umani… Quale orma o scia lascia sulla terra il mio passaggio? Una scia luminosa, cercante, amante, accogliente? …Oppure un camminamento che dissemina ferite, risentimenti, odi?
In quali mani ho riposto il mio cuore, in chi ho rimesso la mia fiducia, per chi gioco la mia vita?
Grazie del vostro ascolto, attento e ospitale!

sfondo bibliografico
Zygmunt Bauman [2009], Quel diverso che ci fa paura. Perché la tolleranza non basta più, in La Repubblica 16 novembre.
Ulrich Beck [2008], Conditio humana: Il rischio nell’età globale, Laterza, Roma-Bari.
Otto Bitjoka e Marina Gersony [2007], Ci siamo. Il futuro dell’immigrazione in Italia, Sperling & Kupfer, Milano.
Paola Corti e Matteo Sanfilippo (a cura di) [2009], Annale 24 della Storia d’Italia dedicato alle Migrazioni, Einaudi, Torino.
Michel De Certeau [1993], Mai senza l’altro, Quiqajon, Magnano.
Carmine Di Sante [2002], Lo straniero nella Bibbia. Saggio sull’ospitalità, Città Aperta, Troina.
Roberto Esposito [2008], Termini della politica. Comunità, Immunità, Biopolitica, Mimesis, Milano.
Thomas L. Friedman [2006], Il mondo è piatto. Breve storia del ventunesimo secolo, Mondadori.
Luce Irigaray [2008], Condividere il mondo, Bollati Boringhieri, Torino.
Ivan Nicoletto [2008], Transumananze. Per una spiritualità del/nel mutamento, Città Aperta, Troina.
Raffaele Nogaro [2009], Ero straniero e mi avete accolto, Laterza, Roma-Bari.
Giangiorgio Pasqualotto [2003], East & West. Identità e dialogo interculturale, Marsilio, Venezia.
Amarthia Sen [2006], Identità e violenza, Laterza, Roma-Bari.
Tzvetan Todorov [2009], La paura dei barbari. Oltre lo scontro delle civiltà, Garzanti, Milano.
Bernhard Waldenfels [2008], Fenomenologia dell’estraneo, Raffaello Cortina, Milano.

suggerimenti filmografici
Crash, contatto fisico, di Paul Haggis
Lasciami entrare, di Tomas Alfredsom.
Verso l’Eden, di Costa-Gavras
Il giardino dei limoni, di Eran Riklis
L’ospite inatteso/The Visitor, di Thomas McCarthy
Welcome, di Philippe Lioret
La cosa giusta,  di Marco Campogiani
La straniera, di Marco Turco
Giallo su Milano, di Sergio Basso
Francesca, di Bobby Paunescu

Nessun commento: